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Marco Cipollini: Fuga Immortale (Racconti di Tellusfolio da Santo Stefano a Befana)
05 Gennaio 2007
 
 
«A sforzo mi affacciai per il largo spessore del muro di pietra, fino a cacciare la testa appena fuori dalla stretta monofora: della torre l’improvvisa altezza voraginosa mi stordì. Il vento mi spense la candela, ma avevo altri fiammiferi. Di sguincio vidi la fuga di tetti dello spicchio di città che potevo scorgere, in quanto ero sporto dalla parte che dava sul mare. Il mare! La libertà del vento e delle onde! Girai a sforzo gli occhi verso l’alto: quattro braccia e la torre terminava con l’aggetto dei merli e, al di sopra, la fuga ventosa dei cirri. Udivo sulla piattaforma della torre sbattere la grande bandiera, senza poterla vedere. Sbatteva, sbatteva libera nel vento! E io costretto lì dentro! Non avevo più veduto alcuna cosa esterna dalla notte in cui ero stato incarcerato: l’ultima era stata, nel cortile della fortezza, il bianco brillare d’occhi e di zanne dei mastini neri, retti a fatica dagli aguzzini. Già il crepuscolo si cangiava in alba, era prossimo il cambio delle guardie. Dovevo ritirarmi nella cella prima che si accorgessero della mia assenza. Senza guardare in basso nella vuota oscura profondità del pozzetto, mi calai con terrore infilando, al lucore della candela di nuovo accesa, i piedi e le mani nelle buchette squadrate che mi avevano permesso di salire poco prima. Ed ecco mi rifù davanti la minima apertura che immetteva nella mia cella, dove m’infilai. Trassi un gran respiro di sollievo e per la grande fatica.
«Il primo chiarore diurno già entrava dalla finestra in alto volta a mezzogiorno, che era guardata da due sbarre, una interna e una esterna, entrambe massicce e rugginose, tali che non avrei mai potuto segarle anche dotato di una dinastia di lime. Posta a quasi quattro braccia dal pavimento, ero riuscito un paio di volte a tirarmi fin lassù, salendo sulla branda di ferro spostata in silenzio. Ma, aggrappato, ci resistevo per poco, e poi non potevo veder niente al di fuori, ma solo per qualche istante bearmi la faccia del sole diretto, respirare uno sprazzo di cielo quadrettato. In pieno giorno, da lassù la luce irrompeva a fasci paralleli nella cella densa d’ombra. Per almeno un braccio la parte più bassa rimaneva comunque in ombra, in specie sotto la finestra. Il giorno che salii per il pozzetto fino alla monofora, eran quasi sei mesi che stavo incarcerato. Non avevo speranza che il Tiranno mi liberasse prima di anni e anni; più probabilmente ne sarei uscito cadavere, come gentile dono per la dissezione didattica degli studenti di medicina. Dei miei due compagni di lotta e di sventura non avevo saputo più nulla, dal momento che fummo imprigionati. Ormai ero sicuro che non si trovassero ai piani inferiori della torre, perché più volte avevo scagliato richiami oltre le doppie sbarre, ma nessuno mai aveva risposto. Erano ancora vivi? Sepolti vivi nelle celle sotterranee? Volendoci tener separati dai delinquenti comuni, mi avevano allogato quasi in cima alla torre. La solitudine era la peggior catena. Ma giurai a me stesso di non abbattermi. Per mantenermi integro nel fisico e nello spirito, pensai fin dal primo giorno di detenzione che dovevo tenermi in esercizio, così che il mio corpo, robusto dei trent’anni, restasse agile e forte in caso di fuga. La fuga! Solo a pensarci era una follia! Ma una vita, soprattutto la vita di carcerato, senza un seme di follia, è già di per sé una vita di follia…
«Dunque presi a tenere questo comportamento. Durante la notte, quando la guardia là fuori dormiva russando, mi allenavo con esercizi strenui ogni muscolo del corpo, ciò che mi serviva anche di sfogo, per non impazzire. Le mie notti erano dunque un lungo ansimare, un continuo piegarmi e contorcermi. All’alba, stremato e gocciolante di sudore, mi gettavo sulla branda e dormivo come un bambino, tirandomi sulla faccia la ruvida coperta militare per pararmi dal sole. La guardia, specie quella del cambio, era stupita. Mi chiese più volte di quel mio continuo dormire, notte e giorno. Io risposi che dormendo dimenticavo dov’ero, che dormire era come morire. I sorveglianti mi presero per uno cui il capo era ormai imbachito. Lo smottamento della ragione di solito avveniva dopo qualche anno: a me erano bastate poche settimane… Sarei morto presto, era certo, suicida. Non era questo che bramava il Tiranno? Far sì che gli oppositori perissero per propria mano. Ma non gli avrei dato questa soddisfazione! Inoltre gli aguzzini eran sorpresi del mio appetito. Mangiavo a piene ganasce quella triste zuppa e quel pane stantio, e ne richiedevo, ed essi talvolta riuscivano a darmene doppia razione, compassionevoli come di fronte a un cane che presto sarebbe stato abbattuto. E dire che stavano in galera quasi quanto me, anch’essi vittime del Tiranno! Ma com’era che ero potuto salire attraverso il budello fin quasi in cima alla torre?
«La scoperta era avvenuta al centoventiduesimo giorno di detenzione. Sapevo bene da quanto ero in carcere. Per non perdere il senso del tempo e la ragione, con un chiodo, preziosamente trovato in una delle uscite periodiche per i lavacri, graffivo ogni mattino un segno sul muro. Così quel giorno, dopo aver mangiato la solita sbobba, me ne andai sul buglione per evacuare. La vita bestiale del galeotto in che differiva da quella di un orso in gabbia? Il laido recipiente, tappato da uno sconnesso coperchio di legno, veniva svotato una volta al giorno, di prima mattina. Lo avevo collocato in un cantone, in modo da non dover sottostare in quei momenti alle occhiate delle guardie. Stando lì, appoggiato con le spalle alla convergenza dei due muri, notai al cantone opposto, all’altezza del mio sguardo, una esigua zona d’ombra, regolare, più densa della rimanente intorno: era dovuta al molteplice fascio di sole che per pochi minuti radeva quel punto della parete facendo risaltare ogni tenue sporgenza e incavatura. Non ci avevo mai fatto caso. Non era una semplice impressione: raso terra appariva proprio un riquadro rettangolare, per ritto, più profondo rispetto al piano di parete quanto un bianco d’unghia, di poco più di un braccio per la sua metà. Dunque andai là, stando ben attento che le guardie non mi osservassero, e palpai quella impercettibile depressione del muro. Fu una sorpresa violenta: grattando con l’unghia, sotto un lieve strato di calcina quasi sfarinata, non c’era la pietra ma una superficie di legno. Battuta con le nocche risonava a vuoto! Tale fu la scoperta che quasi caddi svenuto. Mi girava la testa. Mi gettai col batticuore sulla branda, e in capo presero a rotearmi cento pensieri, martellanti e confusi.
«Quella notte non esercitai il corpo. Con il cucchiaio, la sola posata che mi era permessa di tenere, andai lì, accucciato nel cantone e, tastando al buio, mi riuscì di individuare alla cieca i bordi del lieve incavo rettangolare. Cominciai a scalfirne il perimetro, cercando di rovinare il meno possibile l’intonaco. Fu una sorpresa incontenibile: in pochi minuti il riquadro di legno calcinato, sotto la pressione delle mie mani, si moveva. Con il cucchiaio ne forzai il bordo esterno e… girò su sé stesso, aprendosi verso di me! Era una porticina minuscola. Non appena schiusa, un soffio d’aria fresco e potente esalò verso l’interno della parete, con tale forza che quasi fece sbattere l’usciolino a richiudersi. Lo trattenni a tempo. Poi, osai guardare là dentro, ma era buio pesto, c’era un freddo secolare. Allungai la mano per tastare il pavimento, e mi si rizzarono i capelli: dopo un largo margine di pietra, si spalancava il vuoto sotto! Un vuoto che nemmeno protendendo l’intero braccio potevo scandagliare. Di sorpresa in sorpresa, vi ficcai la testa e guardai verso l’alto: lì per lì non vidi nulla, ed era ovvio, ma una corrente d’aria tirava diritta e forte verso lassù. Dunque vi era uno sfogo. Sdraiatomi di schiena, sporsi nel vuoto il capo, e vi stetti paziente. Il mio sforzo fu ripagato: gli occhi, sensibilizzati al buio, a poco a poco scòrsero là in alto un buio meno denso, poi un fantasma di chiarità appena percettibile, proveniente dalla medesima parete da cui mi sporgevo. Dedussi che vi fosse un’apertura non mediocre, da cui penetrava il lume della luna, che quella notte era piena. Stordito dalla scoperta, mi ritrassi, chiusi l’usciolino. E perché non si notasse il taglio netto che avevo tracciato nell’intonaco, spostai con cautela meticolosa la branda a ridosso di quel cantone: copriva solo per tre quarti l’apertura, ma con il guanciale alzato spariva del tutto.
«Una guardia mi chiese sbadigliando perché avessi spostato ancora una volta la branda. Risposi che là stavo meglio, pativo meno freddo. Era una fortuna che in effetti avessi già spostato la branda tre o quattro volte, così che quella non destò sospetto. La scusa era buona: dalla finestra doppiamente ferrata, ma per il resto sempre aperta sia d’estate sia d’inverno, l’aria entrava liberamente, facendo corrente con la finestrina dell’uscio, che chiudevano soltanto la notte, allorché anche le guardie volevano dormire e quel refolo le disturbava. Passai giorni e giorni pensando all’origine di quell’apertura, così piccola e collocata in quel punto scomodo, e al perché fosse stata murata in modo quasi provvisorio. Era chiaro che le pareti divisorie delle celle erano state erette in epoca ben posteriore alla costruzione della torre. Soprattutto mi chiedevo a che fosse servito un tempo quel condotto che, per il suo tiraggio risoluto, intuivo stretto e lunghissimo, forse quanto l’intera torre. Dedussi che secoli addietro fosse stato adoperato per tirare su l’acqua o l’olio da versare poi bollenti sui nemici, e che, dismesso l’uso, il condotto e i suoi annessi erano stati occlusi, calcinati e scialbati, e infine dimenticati. Se così era, quella specie di tubo arrivava in cima alla torre! La relativa apertura sulla piattaforma, da cui borieggiava sulla città la immensa bandiera del Tiranno, doveva essere stata bloccata, dato che non aveva emanato il minimo chiarore. Rimaneva quello spiraglio laterale, a cui in seguito mi sarei affacciato. Calcolando che la mia cella si trovava al terzo piano e che essa era alta circa sette braccia, e che il piano-terra era alquanto rialzato di alcuni gradini, quell’apertura laterale doveva essere a due piani sopra il mio, ad almeno trentacinque braccia dal suolo. Questi calcoli si rivelarono in seguito piuttosto precisi.
«Ma come potevo esplorare, anche solo con gli occhi, quel budello verticale? Di giorno non avrei mai potuto addentrarmici: le guardie ogni tanto aprivano lo sportello, ero sempre sotto il loro controllo. Ma di notte il buio vi era di pece. Mi occorreva una candela. Passai ore e ore, giorni e giorni a studiare un piano indefettibile per impossessarmene. E al centocinquantaduesimo giorno, la grande occasione. La guardia anziana si ammalò, forse di tifo, e dovette essere sostituita. Lo fu con una molto più giovane, un biondastro di campagna, di forse vent’anni. Era un ragazzone ingenuo e le altre guardie lo scherzavano pesantemente. In più costui, avvezzo ai vasti spazi aperti, in quel ristretto tenebrose si trovava in un cupo disagio. Io presi allora a rivolgermi a lui con gentilezza, a iniziare un colloquio tra me carcerato e lui carceriere, il quale subito comprese che aveva a che fare con una persona istruita, e non un delinquente comune, e mi chiese perché fossi dov’ero. Io gli dissi la verità: avevo cospirato contro il Tiranno. Il giovanotto ne restò impressionato, e credendomi obliquamente più pericoloso di un delinquente, prese le distanze. Lo avevo messo in conto, ma non volevo passare da bugiardo. Dopo qualche giorno i nostri rapporti tornarono quelli di prima, anzi migliori: quasi cordiali. Dovevo trovare il modo d’impossessarmi di candela e fiammiferi: sapevo che c’erano sul tavolaccio nella guardiola, poco là fuori. Temevo che la guardia precedente tornasse guarita, e con quella non si trattava. Il tempo fuggiva lentissimo, ma fuggiva. Un giorno chiesi distrattamente al giovane che ne fosse della guardia sostituita da lui. Mi rispose con indifferenza che era morta e che lui sarebbe rimasto per sempre al suo posto. Fui contentissimo.
«Ogni quindici giorni mi cambiavano le lenzuola, sostituivano la mia casacca di prigioniero con una pulita, facendomi lavare in una piccola vasca di zinco piena d’acqua stiepidita: date le sue dimensioni nemmeno mi ci potevo accucciare. Era il minimo d’igiene per non far venire la rogna o di peggio ai prigionieri. Avevo chiesto di essere rasato, ma non era concesso. I capelli erano pareggiati di tanto in tanto con un colpo di cesoie che forse eran servite per tosare le pecore. Non potevo vedermi allo specchio, ma con quella barba incolta dovevo sembrare un cappuccino trasandato. Mentre mi portavano nella stanzetta accanto alla cella per la bisogna ricorrente, avevo adocchiato il tavolino, la scansia, qualche sgabello, la branda per il sonno della guardia, posti nella guardiola di fronte. Sulla scansia stavano diversi oggetti, fra cui un cestino di vimini, delle candele con i fiammiferi, due bicchieri, una caraffa d’acqua, un piccolo fiasco certo con il vino, e altre cianfrusaglie. Nella mia mente si erano stampati quel cestino, quelle candele, quei fiammiferi. Dovevo arraffarli. Ma come? E come fare in modo che non venissero poi a cercarli nella mia cella?
«Se un carcerato ha il corpo incapsulato in un cubo di pietra, dispone però d’immensi orizzonti di tempo per pensare. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, mi si stava infibrando nella mente un piano di fuga. Dovevo avere quel cestino e almeno una candela con qualche fiammifero. Il resto lo possedevo, e lo avrei posseduto: intendo la corda. Intanto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, contro il davanzale di pietra della finestra, a cui arrivavo a stento, arrotavo il bordo del manico del cucchiaio, tanto da renderlo tagliente come un coltello. Dovevo conquistare la fiducia, di più, la simpatia della mia nuova guardia, che per dodici ore condivideva la mia reclusione. Sull’altro carceriere, taciturno e diffidente, e chissà da quanti anni là dentro, non facevo alcun conto. Dovevo fare in modo che il giovane non fosse soggiogato dall’anzianità ed esperienza dell’altro, e che confidasse più in me che in costui. Presi così a parlargli attraverso la finestrucola dell’uscio: prima poche parole su questa o quella cosa, poi presi a chiedergli notizie di casa sua. La nostalgia lo divorava, la mancanza degli spazi aperti lo soffocava di un’asma spirituale. Faceva il carceriere perché la sua famiglia contadina non poteva tenerlo con sé, si era rovinata con i debiti e le malattie. Ma rimpiangeva i campi, le vigne, le vacche, l’odore del fieno e del mosto, perfino l’odore, mi disse, dello sterco vaccino. Così allargò il suo cuore con racconti noiosi e intensi sulla vita di campagna. Nulla raccontavo di me, perché sapevo che gli era stato detto di diffidare dei prigionieri politici, tutti istruiti e infidi: eravamo considerati più pericolosi degli assassini, dei ladri, degli stupratori. In un paio di settimane ero riuscito a renderlo più socievole, a fidarsi di me.
«Quando rivenne il turno dei lavacri e del cambio di biancheria, mentre stavo per infilarmi in quella piccola vasca, col piede provai la temperatura dell’acqua. Dissi che era fredda; siccome non stavo bene, me ne occorreva altra più calda. Il bravo giovane, di nulla sospettoso, prese il mastello per riempirlo alla stufa che si trovava al piano di sotto. Svelto afferrai il cestino, una candela e qualche fiammifero e corsi a nasconderli in cella sotto la branda. Poi disposi gli altri oggetti sulla scansia, in modo da togliere gli spazi vuoti: in effetti, là in ombra non risaltava a prima vista alcun cambiamento. Il giovane tornò col mastello d’acqua bollente, del quale lo ringraziai cordialmente. Era una brava persona, ingenua, inadatta a quel mestiere, e mi dispiaceva ingannarlo; ma come potevo agire altrimenti? Ritornato in cella, nascosi meglio il mio furto appendendolo con un legaccio, già sfilato dalla coperta, sotto la rete della branda. Quindi, scesa la notte, lo nascosi di nuovo, ancora più al sicuro: aprii l’usciolino e deposi cestino candela e fiammiferi sul largo davanzale che dava sul profondo. E feci benissimo. L’indomani, cambiato il turno, la guardia anziana si accòrse che mancava qualcosa sulla scansia. Al cambio successivo ne chiese al giovane carceriere, che cadde dalle nuvole. L’anziano non lasciò perdere, gli fece fitte e severe domande. Ma lui non sapeva che dire. Allora la vecchia guardia aprì la mia porta e fece una ispezione. Non c’erano di certo molti nascondigli: scrutò sotto la branda, ma non spostandola, e poi nel buglione sporco e fetido, e poi lassù sul davanzale della finestra. Dove altro potevano essere quegli oggetti? Dovette arrendersi. Richiusa la porta, udii che accusava il giovane di aver preso quelle nullità. Lui si discolpò, e poi, che furto era quello di un vecchio cestino sconnesso e di una candela? Forse erano serviti a qualche guardia di passaggio. La cosa finì lì.
«Per me iniziò il lavoro serio. Di notte riaprii con la solita cautela l’usciolino e ne presi cestino e candela. Sfilacciando la coperta, avevo già intrecciato un cordino robusto. Come sottogola, lo infilai e legai ai bordi del cestino, facendone una specie di casco: mi stava a misura. Poi sulla base di vimini introdussi, dal dentro verso l’esterno, quel chiodo che mi serviva per scalfire il calendario, e ce lo fissai bene con della mollica di pane che avevo maneggiato per giorni. Quindi sul chiodo infilai profondamente la candela. Ecco, disponevo di qualcosa simile a un casco da minatore, che mi sarebbe servito per procedere nel budello verticale. E attesi il momento propizio. Ora che disponevo di quei mezzi, poveri ma indispensabili, dovevo trovare la cosa più necessaria: il coraggio per entrare là dentro. Soffrivo di vertigini. Non avrei guardato verso il basso, tanto più che era buio e che la mia fioca luce avrebbe schiarito non più di qualche braccio sopra di me. Per giorni e giorni mi concentrai con tutto me stesso su quanto stavo per compiere: mi fingevo le possibili difficoltà, come un piede che si sarebbe incastrato o la candela che si fosse spenta… Tale evento sarebbe stato terribile, addirittura fatale. Tanta fu la paura che accadesse che provvidi con un foglio di carta, avuto dalla guardia, a farne un paravento a tronco di cono come quelli delle candele alle processioni. Alla fine mi sentii pronto e deciso all’impresa.
«Scesa la notte, quando udii la guardia ronfare con il sonno robusto dei suoi vent’anni, spostai con cura la branda e aprii l’usciolino. Il fatto è che non potevo accendere la candela a causa della forte corrente d’aria che di colpo si formava per il tiraggio verticale del budello, una vera ciminiera. Dovevo prima chiudermi alle spalle quel logoro diaframma di legno e fissarlo in modo che non si riaprisse, e dovevo farlo stando accucciato sullo spazio del davanzale, per me ristretto. Passai un lungo cordino, figlio ancora di quella sfilacciata coperta, intorno a una gamba della branda e la tirai verso di me, facendo in modo che venisse a premere contro l’usciolino, finché questo fu richiuso sufficientemente. Ora mi ritrovavo in un buio assoluto, seduto, talmente rincantucciato che dovevo tenere le gambe sospese sul vuoto. Le gambe, dalla paura, mi diventarono di legno. Mi concentrai senza fretta, ripercorsi mentalmente tutti i gesti precisi che avrei fatto, respirai a lungo e profondamente. E quindi con mani tremanti accesi la candela e mi legai in testa il casco.
«Provai una fitta d’orrore a guardare sopra di me in quel vuoto cilindrico che, dapprima schiarito, s’infiniva lassù nelle tenebre. Ma il destino m’imponeva di salire! Sia alla mia destra sia alla mia sinistra, contrapposte, lungo le pareti erano delle buchette regolari, a circa mezzo braccio una sull’altra. Capii che erano servite per la costruzione del pozzetto e forse per la sua manutenzione: forse un tempo vi incastravano dei travicelli come pioli di una scala. Non mi restava che ficcarci i piedi e tirarmi su a forza di braccia. Osai, e subito imparai il ritmo di un’ascesa bradipeda, prudentissima e decisa. Quella fu la mia prima salita, quando mi affacciai dalla monofora e vidi la fuga dei tetti e il mare aperto e udii lo sbattere della enorme bandiera. In seguito, la seconda volta, arrivai fino in cima, dove il pozzetto sbucava sul pavimento della piattaforma. Con grande sforzo delle mie braccia già provate, sollevai la botola di pietra, pesantissima: la sollevai appena, quanto bastava a scorgere di fronte a me la base del grosso palo a cui era legata la bandiera, che garriva al vento violento di tale altezza. E di colpo cader lasciai la botola perché avvertii il vortice d’aria che si stava formando: avrebbe spento la candela. Meno male avevo previsto il paravento! Non c’era più servizio di guardie lassù, da quando la pirateria saracena era stata sgominata e la fortezza trasformata in carcere. Tornai quindi, provato in ogni membro e sopraffatto dalla tensione, alla mia cella. Giunto, notai che, dopo due ascensioni, mi restava ormai un mozzicone di candela, appena sufficiente a quella risolutiva. Per la fuga attesi il novilunio.
«Ebbi quattro giorni per ritemprarmi e sciogliermi i muscoli, per ripresentarmi passo passo tutto il percorso: mentalmente lo rifeci venti, trenta volte. Non dovevo fallire, pena la morte. E venne la notte senza luna, e siccome era anche nuvolosa, il buio era totale. Il campagnolo, che sconsolato aveva un po’ alzato il gomito, si mise a ronfare prima del solito. Allora presi le due lenzuola e con il cucchiaio affilato le tagliai in tante strisce, abbastanza larghe e forti per sostenere il mio peso. Ogni spanna vi facevo un gran nodo per appigliarmi meglio. Annodate tra di esse le strisce, ne feci una corda lunga quasi nove tese, abbastanza robusta. Me l’avvolsi a tracolla e riaprii l’usciolino. Avevo preparato la branda in modo che vi sembrassi addormentato: anche un’ora di tempo in più, al mattino, mi sarebbe stata utilissima. Quindi ripetei meccanicamente tutte le operazioni per la salita e, fatti tre immensi respiri, presi ad arrampicarmi nel budello. Il cuore mi batteva a martello. Arrivato alla monofora, dove la prima volta avevo sostato per riposarmi, tirai diritto. Però, passandovi davanti, percepii il denso rumore della pioggia, iniziata nel frattempo. Ormai nulla doveva fermarmi. Poco più su sollevai con tutte le mie forze la botola, la spostai tutta di lato, e la pioggia mi percosse in faccia, spense immediatamente la mia fiammella. Mi tirai su con la forza della disperazione, ricaddi sul pavimento. Ero stremato. E ancora non era finita. Già quell’émpito d’aria fresca e di pioggia fu un battesimo di libertà, mi lavò anima e corpo di quei mesi rintanati. Ma non avevo un momento da perdere.
«Al buio inchiostroso, ammainai l’enorme e mencia e fradicia bandiera, e con il cucchiaio arrotato presi a tagliarla e lacerarla a strisce e a farci quei nodi intermedi per meglio aggrapparmi. Che soddisfazione fare a pezzi il simbolo del Tiranno, superbo nei cieli, e più ancora adoperarlo per la fuga! Già questo mi ripagava di tutti i miei sforzi. Durò più di un’ora quell’operazione, mi risucchiò molte energie. Poi annodai tutte le strisce di tela massiccia. In quel fradiciume buio ogni atto risultava maldestro e faticoso. Non smetteva di piovere, ma finalmente riuscii nell’intento. Misurandola a braccia tese, la nuova corda ne contava ventuno e mezza. Mi parve sufficiente per l’altezza della torre. Comunque vi aggiunsi in coda anche quella ottenuta con le lenzuola. Quindi legai saldamente la corda al palo vedovo della bandiera e la lasciai cadere oltre i merli, nel vuoto. Tanto denso era il buio che nulla scorgevo più in là di quattro cinque braccia, ma certo la corda arrivava in fondo. Ora tornava il batticuore, soffrendo io di vertigini. Salii sugli spalti, tra due merli, e mi girai di schiena per non vedere in basso. Però quel buio pesto mi favoriva: il baratro era solo mentale, non visivo, e dunque le vertigini erano abolite. Ma la pioggia si rivelò un’insidia micidiale: le mani non facevano molta presa sulla tela bagnata, io facevo uno sforzo disumano per non scivolare giù a rotta di collo: quei grossi nodi intermedi furono la mia salvezza, ma le mie mani presto sanguinarono. Quando infine sentii sotto i piedi la durezza liscia del camminamento lungo la cortina muraria, piansi di contentezza, lacrime e pioggia. Mi trovavo sui vecchi spalti, non più usati per la ronda da quando la fortezza era un carcere. La pioggia tratteneva i sorveglianti nella guardiola in fondo al cortile: ne intravedevo, a filo d’angolo, il lume lumacoso. Inoltre la pioggia attutiva ogni altro rumore e abolivano il fiuto dei neri mastini, anch’essi al coperto. Ringraziai la buona sorte mandatami dal cielo. Ma ora dovevo calarmi fuori della cortina.
«Recisi con la mia grezza lama tutta la corda d’avanzo che potevo. Il muraglione che dava sul mare era molto più basso di quello rivolto alla città: meno di venti braccia, e poi cominciava il declivio del promontorio, piuttosto ripido. Legai la corda a un merlo e mi calai. Stavolta fu uno scherzo rispetto alla torre. Finalmente i piedi si posarono sulla rude, fangosa, carissima terra! Il suolo era accidentato e scoglioso, la pioggia lo rendeva scivoloso. Nella notte illune e piovosa non vedevo niente poco oltre il mio naso, solo dalla pendenza del terreno intuivo dove avanzare, così che procedevo stentatamente. Forse impiegai un’ora, inciampando e ammaccandomi, a scendere a filo della riva ghiaiosa. Dove potei camminare più speditamente. Le mie scarpe, già consunte, erano a pezzi. La fortezza incombeva tenebrosa su di me come a volermi schiacciare. Lanciai un pensiero turbato ai miei compagni che ancora vi languivano, se già non erano morti. Ringraziai la mia sorte e proseguii.
«La notte era nelle sue ore più profonde e fuor che lo sciabordio dei frangenti e la pioggia, peraltro molto calata, nulla si udiva. In quel buio, esisteva soltanto il mio ansimare. Dovevo allontanarmi il più possibile, cercare un rifugio sicuro per ritemprarmi e magari mangiare qualcosa. Dovevo evitare tutti quei luoghi in cui la sbirraglia sarebbe subito venuta a cercarmi. Non volevo compromettere amici e parenti. Arrivato al porticciolo dei pescatori, la pioggia cessò del tutto. Avevo il freddo e l’umido fin dentro le ossa, ma che importava? D’impeto mi decisi. Presa una piccola barca, mi sarei allontanato a remi lungo costa. Mi dispiaceva per il pescatore, gli avrei causato un grave danno. Ma certo avrebbero ritrovato lo scafo dopo qualche giorno, e dunque intuito il mio percorso. Per allora dovevo essere fuori mano. Così feci. Sciolsi la barchetta più piccola che c’era e con le mie forze residue, che miracolosamente mi rifiorivano, remai attraverso il breve golfo e puntai a ponente. Remai per circa due ore, strenuamente. Finché, stavolta proprio esaurita ogni riserva d’energia e temendo di svenire, approdai a una lunga e stretta spiaggia. Mi trascinai al riparo delle rocce sporgenti, dove il terreno era asciutto. E avvenne un altro miracolo. Toccatomi per caso la tasca della casacca, vi scoprii due fiammiferi, gli ultimi rimasti, che io avevo avvolto strettamente nella bambagia tolta al materasso e poi in un pezzetto di carta. Erano asciutti! Raccolsi i legnottoli sparsi là sotto, e usando la bambagia e la carta come ésca accesi un focherello. La sorte continuava ad assistermi! Caddi di colpo addormentato.
«Mi ridestai, umido e dolorante ma rinfrancato, che il sole era quasi al suo vertice. Dovevo fuggire, fuggire senza fermarmi! A quell’ora dovevano essere già sulle mie tracce. Divelsi degli arbusti e delle frasche per nascondere alla meno peggio la barca, e quindi presi a salire sulla costiera brulla, punteggiata da qualche curvo pinastro, da bassi ginepri e da cespugli di ginestre. L’aria salmastra della libertà mi ubriacava, mi girava un po’ la testa, ma molto dipendeva dalla fame. Salito in cima a quella piaggia deserta, vidi la città distante due o tre miglia. Erano poche per darmi anche una minima sicurezza. Procedetti a passo deciso verso le colline boscose e forrose, e perciò attraversai campi di grano primaverile e prati di foraggio, finché non giunsi ai piedi dei poggi. Non intendevo inoltrarmici, vi sarei morto di fame. Li avrei costeggiati, in modo che vi sarei potuto fuggire se avessi scorto i miei inseguitori. Temevo tremendamente i mastini neri, con le zanne come coltelli: avvistatomi, due minuti e mi avrebbero sbranato! Per fortuna la pioggia aveva abolito ogni mia usta.
«Cammina cammina, avvistai una modesta casa di contadini, fumava il comignolo. Fatti altri cento passi, ecco un contadino con la zappa in ispalla, che si apprestava ad andare nel campo, fumido al sole già alto. Dovevo avere un aspetto spaventoso: la casacca sporca e strappata, la barba incolta, i capelli ispidi come un istrice. Mi fermi a dieci passi da lui e gli parlai in modo urbano, così che non mi prendesse per un pazzo o un disperato alla ventura. I contadini hanno un senso profondo della vita, delle vere necessità della vita. Egli mi disse di seguirlo, così tornammo fianco a fianco alla casa. Avvisò la moglie dei miei bisogni, ed ella non rimase punto sconvolta alla mia vista, mi guardò in modo compassionevole. Circondato da ragazzini scalzi e curiosi, in tavola mi misero davanti un piatto di zuppa fredda e tanto pane e una mezza caraffa di vinello. Senza farmi domande. Quando ebbi diluviato quel pasto, quasi stordito dalla beatitudine, dissi loro chiaramente chi ero e perché fuggivo. Mi guardarono con simpatia, perché i contadini detestano solo i ladri, che ammazzerebbero, ma vedono di buon occhio chiunque è in contrasto con lo Stato. Mi fornirono degli stracci, destinati a uno spaventacchio. Se non altro non ero riconoscibile per la casacca carceraria. Dissi di bruciare i miei stracci, ma la massaia rispose che non ci pensava nemmeno: li avrebbe usati per dare il cencio in terra. Mentre parlavamo, rientrò uno di quegli animaletti scalzi e gridò che c’erano dovunque le guardie con i cani, sparse per i campi. Mi cercavano con i mastini! Erano il mio terrore. Mi fecero scappare dalla parte posteriore, che dava sui poggi boscosi, e mi fornirono una sacca con tre grossi pani. Li benedissi di cuore e fuggii.
«Presto iniziai a salire nel sottobosco fitto e brusco, che mi frustava la faccia. Volevo mettere la massima distanza tra me e i cani. Ma che usta seguivano, se ero evaso sotto la pioggia e poi per mare e ora avevo gettato i miei panni? Un fulmine nero mi percosse la mente: il residuo odore dei miei panni poteva condurre i cani alla casa del contadino, che ne avrebbe subito le conseguenze. Sperai vivamente di no. Ed ecco capii con quale usta le guardie indirizzavano i segugi: con la rozza coperta in cui mi ero avvolto per tanti mesi! Era essa che parlava di me alle avide narici delle bestie! Correvo in salita ansimando, ma nemmeno avvertivo la fatica. Dopo mezz’ora di quel passo forsennato, dovetti fermarmi. Stavo per vomitare quella zuppa, e non me lo potevo permettere. Mi gettai a terra, respirando profondamente, premendomi lo stomaco dolorante. Sonnecchiai una mezz’ora. Il sole tra i rami, gli uccelli che strimpellavano le loro canzoni: la fanciullezza irruppe in me come una ventata che fa sbattere i vetri. Salito un altro poco, dalla sommità potei lanciare un ampio sguardo sulla piana sottostante. Scòrsi lontanissimi tre gruppi di uomini con dei puntolini neri. Avanzavano sparsi a ventaglio e nel loro raggio stava, fra le altre, la casa dei miei contadini. Non potevo sperare bene per loro. La mia casacca, serbata, forse li avrebbe rovinati!
«Sarebbe lunghissimo e futile raccontare i giorni successivi durante i quali attraversai poggi boscosi e valli coltivate. Sapevo bene che il Tiranno non avrebbe desistito dal dare la caccia a un avversario politico, mentre un assassino lo avrebbe lasciato perdere in mezzo alla gente. E un giorno davanti a me apparve una montagna bellissima. Si innalzava conica verso il cielo e la sommità era velata di nubi. Vidi la mia salvezza: non ci ragionai sopra, la vidi e basta. E così fu. Lassù, tra pastori e taglialegna, mi nascosi per mesi. E i mesi divennero anni. E gli anni decenni. A volte le cose avvengono da sé. Ti ritrovi in un luogo e ci rimani, il luogo ti si incolla ai piedi. Io, che un anno prima avevo progettato di rivoltare eroicamente il mondo, mi ritrovai a fare il capraio e il taglialegna, secondo le occasioni. Da lassù vedevo la pianura con i suoi campi e i suoi villaggi, e remota sull’orizzonte la città del Tiranno… Nei limpidi giorni d’inverno potevo scorgere, piccolissima come una pulce, la fortezza, e su tutto sporgere la torre: la capocchia di spillo che mi aveva imprigionato. Avevo ormai una barba lunga, ingrigita, e grigi capelli che nemmeno più tosavo. Presso i boscaioli e i pecorai, che mi avevano dato da lavorare, passavo per un uomo saggio, ritirato lassù perché solo sulle montagne l’esistenza è veramente vissuta per quella che è. Presi ben presto ad abitare in una grotta, asciutta e poco profonda. Quei bravi uomini mi avevano offerto di costruirmi una capanna di legno, ma nella grotta io mi sentivo più sicuro. Lo so, era irragionevole, ma ormai mi fidavo solo dell’istinto. Credevo che, abitando io là dentro, i neri mastini non avrebbero fiutato la mia presenza. Era irragionevole, lo ripeto, ma chi ha detto che la ragione abbia sempre ragione? Passati i giorni e le settimane, non c’era più usta che resistesse, e poi col tempo quei terribili cani erano morti, come tutte le creature terrene. Ma io mi sentivo al sicuro nella mia piccola caverna, protetto come se fossi in una prigione. Da lì non sarei mai fuggito. Ma il tempo, sentivo, fuggiva da me. Io stavo fermo, eppure fuggivo ancora!
«Un giorno, non so più quando, perché lassù non graffivo i giorni sulla roccia, un giorno di primavera, arrivò fin sul monte un cacciatore con due cani pezzati: quelli non mi facevano paura. A vedermi rimase imbarazzato. Ero ormai vecchio. La barba bianca lunga fino all’ombelico e i bianchi capelli a mezzo dorso mi stavano come una casacca. Mi fissò a lungo: non riusciva ad aprir bocca. Anche io stavo in silenzio, del resto parlavo ormai pochissimo, con sempre meno parole, e quelle rare che mi uscivan di bocca erano una musica sdentata e ombrosa. Mi chiese se fossi un eremita, e io lasciai che lo pensasse: che altro ero del resto? E dalle voragini della memoria mi sgorgò spontanea una domanda: era sempre vivo il Tiranno? C’era ora suo figlio sul trono? Fui anche tentato di chiedere se il mio nome di patriota e martire fosse ricordato da qualcuno, ma quella bolla di vanagloria mi si dissolse in gola… L’uomo, un borghese elegante vestito di velluto, mi guardò in modo strano, quasi sospettoso: con chi aveva a che fare? Rispose che non c’eran più tiranni da almeno trent’anni, e aggiunse, con un sorriso ironico, a parte le banche… Il Paese era stato liberato e unificato da un Eroe Biondo… La Storia era andata avanti, e sempre più andava avanti… Poi rimase come inceppato: di che altro poteva parlare con un uomo fuori del mondo com’ero io? Salutò con un cenno e se ne andò, fischiando ai cani che lo seguirono scodinzolanti. Da quel giorno i mastini neri sparirono dai miei sogni definitivamente.
«Come ogni anno, all’inizio d’inverno, una notte la vallata echeggiò dovunque di campane, come remoti richiami dal buio fosforoso di villaggi, sotto l’immensità del cielo sfolgorante di stelle simili a brilli di sale. Mi sentii solo, perdutamente solo nell’universo. La Via Lattea era troppo lunga da percorrere con gli occhi, e più ancora con i passi della mente… Eppure io ero qualcosa di certo in tanto smarrimento. Mi scesero delle lacrime… Da quanto non piangevo? Rammentai che l’ultima volta, da qualche parte, mi pioveva sul viso, lacrime mie e del cielo… E un nome antichissimo e misterioso, imparato nell’infanzia immemorabile, salì alle mie labbra. E la vita mi apparve terribile e dolce, nella sua fulminea interezza. Morii nella grotta quella notte medesima, al cadere della prima neve. Ricordai che si chiamava Natale, quel giorno. Ritrovarono il mio corpo a primavera, intatto, quando i pastori tornarono con le greggi sulla montagna».
 
L’Anima, cessato il suo racconto, tace, e appoggia gli avambracci sui ginocchi, seduta sulla panca al pari di tutte: quante mai sono! Tutte hanno detto qualcosa di sé, anche poche sillabe. Poco più in là un’altra Anima, schermandosi lo sguardo con la mano, per tutto il tempo che lei ha parlato ha pianto in silenzio, specie al suo nominare il Tiranno. Da quanto tempo stanno là? Ma per loro il tempo non passa: il tempo è, eternamente. Il suo flusso è avvertito non per l’arido gocciolio di un orologio o lo scorrere del rigo d’ombra su una meridiana, ma con la percezione che la loro esperienza è interamente compiuta, senza scorie di rimpianti, di sensi di colpa, di nostalgie. Siedono là, quelle migliaia di Anime, tutte assorte nel loro nuovo stato: ogni fuga verso chissà dove è cessata. Non c’è altro luogo che questo, il Luogo dell’Attesa.
Ed ecco una luce vasta e percussiva preme contro il portale perimetrandolo di splendore. E il portale si spalanca abbagliante, e un gigantesco Che rùbo dai mille occhi, perché l’intero suo corpo è fatto di occhi, si staglia sulla soglia del Regno della Luce e proclama alle Anime che l’attesa è finita e che possono accedere alla Verità.
 
Marco Cipollini

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