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Rosario Amico Roxas: Il diritto di parlare e il dovere di tacere. Nuovo Catechismo.
05 Febbraio 2009
 

Il 15 agosto 1997 il cardinale Ratzinger, presidente della speciale commissione incaricata di redigere il Nuovo Catechismo, consegnava al Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, il testo di tale documento, ma non per una valutazione di merito, bensì per l’approvazione, stante il circuito di potere del quale lo stesso cardinale si era circondato, e con il quale decideva scelte di fondo, in preparazione alla successione, per la quale si cera adoperato per anni.

Con tale Catechismo la Chiesa intervenne nei campi più propriamente specifici e di propria competenza, ma come grimaldello per inserirsi in altri campi assolutamente estranei all’insegnamento di Cristo e spesso discordanti e contraddittori.

L’esercizio del diritto alla parola non può sovvertire il dovere al silenzio, quando l’argomento dovesse risultare estraneo al ruolo; ma quel catechismo chiarisce, in tempi non sospetti, diventati sospetti adesso con l’elezione al massimo pontificato del Cardinale Ratzinger con il nome Benedetto XVI.

Si evince, con grande determinazione, come taluni passi, estremamente significativi, non rappresentano altro che la preparazione al proprio pontificato, nel quale vengono costantemente esaltati i molteplici ruoli che l’allora cardinale sapeva di dovere ricoprire, ma a sua immagine e somiglianza.

In alcuni passi del catechismo si esalta il ruolo dottrinario, totalmente privo di trascendenza, che pretende interpretare il mondo alla luce delle conoscenze scientifiche e dimensionare tali conoscenze alle capacità gnostiche dell’uomo, come quando scrive:

 

283 La questione delle origini del mondo e dell'uomo è oggetto di numerose ricerche scientifiche, che hanno straordinariamente arricchito le nostre conoscenze sull'età e le dimensioni del cosmo, sul divenire delle forme viventi, sull'apparizione dell'uomo. Tali scoperte ci invitano ad una sempre maggiore ammirazione per la grandezza del Creatore, e a ringraziarlo per tutte le sue opere e per l'intelligenza e la sapienza di cui fa dono agli studiosi e ai ricercatori. Con Salomone costoro possono dire: «Egli mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi [...]; perché mi ha istruito la Sapienza, artefice di tutte le cose» (Sap 7,17-21).

 

Non c’è commento da fare se non la presa d’atto che la stessa creazione viene collocata nel tempo e nello spazio, come se l’Altissimo disponesse di un “orologio cosmico” che in dato momento segnò l’ora esatta per la creazione, perché “prima” sarebbe stato troppo presto e “dopo” sarebbe stato troppo tardi. Ma il prima e il dopo sono categorie di comodo che l’uomo di è dato per capire, per collocarsi nel tempo e nello spazio; prima di cosa o di chi ? Dopo cosa o chi ? Ma se Dio è Creatore avrebbe sempre creato, e allora dove sono le sue creature così limitate nel tempo e lontanissime dal concetto di “sempre”.

La dottrina, come è espressa in questo catechismo, non spiega, anzi confonde e conduce all’incredulità, nel suo assurdo itinerario di coniugare trascendenza ed immanenza dentro un contenitore limitatissimo. Il prima e il dopo non sono altro che la rappresentazione del passato e del futuro, dimensioni dentro le quali l’uomo regola se stesso; parliamo anche al presente, ma per comodità, per convenzione, perché il presente per l’uomo non esiste: o ancora non è, e si tratta del futuro, oppure è già stato. e allora si tratta del passato, tertium non datur.

Tra la parola detta e la parola da dire, secondo la comprensione umana, trascorre uno spazio di tempo che riteniamo limitato o limitatissimo; in realtà con la parola detta e la parola da dire

affrontiamo l’immensità del tempo, dove la parola detta appartiene al passato e la parola da dire si trova, ancora, nel futuro. Discutere in questi termini di Dio, del Creatore, dell’Altissimo, diventa blasfemo, perché si pretende coinvolgere la “Sapienza” dell’uomo, che sarebbe capace di comprendere la struttura del mondo, nella quale viene collocata l’idea di Dio, non più noumeno ma fenomeno. La dimensione del presente ci è ignota, perché non riusciamo a viverla; se, infatti, si potesse vivere il presente, lo si potrebbe anche dilatare o fermare.

Si scontrano, dopo essersi confrontate la fantasia, di pertinenza immanente e la fede di pertinenza trascendente. Non c’è dubbio che il mezzo più veloce di locomozione a disposizione dell’uomo è la fantasia; più veloce della luce, capace di trasportarci anche fuori dal mondo. L’elaborazione fantastica è frutto degli impulsi del cervello, quegli impulsi che si materializzano in onde elettriche, registrabili e verificabili; attivi anche nel sonno che si popola dei sogni incontrollati. Ma le onde elettriche sono materia, lo dimostrò Einstein con il suo relativismo, e altri uomini gli conferirono il premio Nobel.

Con il suo relativismo lo scienziato escluse la conoscenza proponendo un metodo, idoneo a superare le contraddizioni meccanicistiche. Einstein negò l’esistenza un “moto” assoluto, così come di un “tempo” e uno “spazio” assoluti, ovvero che questi concetti sono “relativi”.

 

In ordine allo spazio cosmico la Luna è “vicina” alla Terra; in ordine allo spazio individuale la bottiglia dell’acqua è “lontana” dal commensale che desidera bene e non la raggiunge.

In ordine alla cronologia cosmica l’orologio del tempo scandisce miliardi di anni; in ordine alla cronologia umana valutiamo anche un centesimo di secondo e lo sa bene Valentino Rossi, quando per un centesimo di secondo arrivò secondo, perdendo il podio.

 

La pretesa dottrinale di voler imporre una personale considerazione come Verità conquistata, tale da generare le “radici” di un popolo, assume, così, la dimensione dell’assurdo; non si discute l’ipotesi “relativa”, perchè basta negare il relativismo, trascurando di commettere uno stortura contro le dimensioni trascendentali, racchiudendo la conoscenza dentro i confini del fenomenico e legiferare nel merito.

Il Dio del “prima” e del “dopo” è una invenzione da sacrestia perché concede il potere di identificare il giusto dal non giusto, il vero dal falso, valori che  perdono il loro relativismo e diventano la legge da osservare.

Dio steso identificò la Sua dimensione affermando:

Io sono Colui che sono”;

non disse “Io ero Colui che sono

oppure “Io sono Colui che sarò”.

 

Il divenire, il farsi della storia non appartengono a Dio, perché Egli tutto include nella sola dimensione che gli appartiene: l’eternità del presente.

 

Come si potrebbe mai capire tale dimensione?

Come si può esercitare tale dimensione?

Non lo so! Non posso saperlo! Per questo ci credo!

 

Rosario Amico Roxas


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