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Le parole sono pietre
31 Luglio 2008
 

Il carattere eversivo del governo appare anche dalle parole che mette in circolazione e dal tipo di comunicazione politica che diffonde, tutta sopra tono e imprecisa, allusiva: manda “avvertimenti”.

Parte dell'opposizione lo copia e parte sembra la mangusta affascinata dal cobra, ripete stanche sorprese che non sorprendono più nessuno e si lascia trascinare nello stesso discorso.

Avete sentito il ministro Ombra dell'Interno Minniti (foto): attacca Maroni solo per chiedere più polizia; e Veltroni, anche se servito di presenze televisive quasi scandalose, dice impacciate frasette senza prospettiva. Di Pietro fa da cassa di risonanza e gareggia.

Se non si riesce a riprendere parola in modo autonomo distinto differente, antagonistico, il guaio è grosso. E per essere antagonisti, adesso che il governo è eversivo, bisogna stare nella legalità anche della comunicazione. Va bene l'ironia il sarcasmo la critica motivata l'indignazione, l'entusiasmo morale, la citazione dei testi costituzionali e di legge, e un tessuto linguistico che aborra la pessima retorica governativa.

Gli antichi che avevano pochi mezzi e un pubblico molto scarso dato che gli alfabetizzati erano una infima minoranza, di cui le donne non facevano parte quasi in blocco, dovevano puntare sulla parola e ne avevano esaminato con cura la tecnica; i cristiani addirittura adopravano la pittura per farsi capire dagli analfabeti, se la pittura di Giotto venne chiamata Bibbia dei poveri.

Ma, in breve, gli antichi fino a tutto il Rinascimento e più in là distinguevano vari tipi di linguaggio, dicevano che la poesia “rappresenta”, la filosofia (e la scienza) “dimostra” e l'oratoria “persuade”.

I tre linguaggi non dovevano essere mescolati. La poesia secondo gli antichi aveva la straordinaria facoltà di rendere presente una cosa anche lontana o inventata; la filosofia o la scienza usano un linguaggio reso costrittivo dalle regole del ragionamento e della logica: alla fine del teorema di Pitagora non si può dire “non sono d'accordo”; si può dire solo “va bene, è così” oppure “non ho capito”. Ma l'oratoria, cioè il parlare politico persuade, ovvero mira ad ottenere il consenso, facendosi capire dagli ascoltatori e conducendo la ragione e il sentimento ad accogliere nel profondo il messaggio che l'oratore invia. Naturalmente se l'oratore è un demagogo, invece che persuasione, c'è seduzione, cioè una cattura non razionale.

Più di recente abbiamo appreso che la persuasione o consenso modifica attraverso l'uso di termini linguaggi motti ecc. le sinapsi del nostro cervello: in questo modo attraverso consenso e costruzione di immagini linguaggio motti ecc., si forma una cultura politica.

Faccio alcuni esempi: aver chiamato “suffragio universale” il diritto di voto di tutti e solo i maschi, ha tagliato fuori le donne addirittura dal discorso, dalla narrazione politica. Chiamare “poveri” gli impoveriti e impoverite rende la loro condizione un fatto naturalistico e non l'effetto di una politica economica che li e le ha rese più poveri/e di quanto non fossero. Non aver voluto fare una legge per la pensione alle casalinghe, ha consentito al governo di usare l'assegno sociale per impoverire ulteriormente gli e le immigrate; e ora con la indecente “correzione” il governo rivela che in verità la legge è fatta apposta perché non ne fruiscano i migranti, cioè è una legge discriminatoria. E come si pensa di accrescere la sicurezza riducendo una parte della popolazione alla fame alla disperazione? Con più polizia, dice Minniti, sciaguratamente.

Insisto su questi esempi per dire che dal Pd ci separa ormai una cultura un linguaggio, ed è una lontananza grande.

 

Anche perché se si parla di “poveri” e di “ultimi”, si sa che si sta usando un linguaggio cristiano nella sua accezione preconcilare (se ci si riferisce alla tradizione cattolica) e alienante: i poveri vengono lodati perché poveri, e si dice che li avremo sempre con noi. Una interpretazione molto alienante e superficialmente consolatoria del Vangelo che è tornata in auge dopo la breve parentesi del Concilio fa sì che si venga indotti a pensare che alla povertà non c'è rimedio, né si oppongono diritti, ma solo attenuazione conforto beneficenza assistenza, cioè concessioni. E che -dando una interpretazione al massimo spiritualistica- il rimedio è nell'aldilà. “Gli ultimi saranno i primi” ma dopo la morte. Il messaggio cristiano serve per far passare una idea rassegnata e indiscutibile di ineguaglianza “naturale”.

Credo che sbagliamo a non prendere più in considerazione i testi marxiani e di Engels sulla religione. Marx non dice solo che è l'oppio dei popoli (da scacciare con la laicità), dice anche con grande intelligenza e finezza analitica che è «il sospiro della creatura oppressa» cui predica rassegnazione e alienazione, alla quale la chiesa cattolica fornisce conforto consolazione (e beneficenza subentrando allo stato che non è più sociale e non garantisce i diritti). È tempo di fare una vera lotta culturale in proposito, visto che la religione (non la fede), diciamo l'Altare sta avendo un grande rilancio proprio come alleato dei vari Troni esistenti (che per lo più si chiamano poteri forti). E anche la famiglia deve essere riconsiderata con argomenti solidi e precisi: per ostacolare il suo rilancio nella forma più tradizionale, come si vede anche nel tenace rifiuto di qualsiasi normativa che non sia quella della famiglia detta “naturale”. C'è molto da discutere e da innovare.

 

Lidia Menapace


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