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Un'Europa a due velocità per fare la Difesa comune?
La firma dei Trattati di Roma nella Sala degli Orazi e Curiazi il 25 marzo 1957
La firma dei Trattati di Roma nella Sala degli Orazi e Curiazi il 25 marzo 1957 
09 Febbraio 2017
 

L'idea di un'Europa a due velocità, lanciata dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, è stata letta per lo più come prefigurazione di un continente a “cerchi concentrici”, intesi questi come luoghi geopolitici di punti tutti equidistanti da un punto chiamato… Berlino. Ma, se così fosse, occorrerebbe anzitutto ripassare l'evoluzione del sentimento “europeo” nel corso di questi ultimi anni.

1) La “lezione” impartita alla piccola Grecia (non da ultimo allo scopo di salvare esposizioni bancarie franco-tedesche) ci ha condotti a spen­de­re centinaia di miliardi in più rispetto a quelli necessari per un sem­pli­ce salvataggio, ma senza risolvere alcunché. Atene rischia tuttora di ca­dere fuori dall'euro. E questa UE a severa trazione tedesca ha rie­vo­cato ricordi. I quali ricordi, come si sa, sono della stessa sostanza dei sogni, e possono fare la differenza in certi referendum. Ed ecco – o sorpresa – la Brexit.

2) La quale Brexit sta gettando il governo di Sua Maestà tra le braccia di The Donald, evoluzione facilitata dal comune sentimento di diffidenza verso la Germania sempre presente-latente nell'inconscio degli Anglo-Americani.

3) L'austerità voluta da Berlino ha prodotto una vasta stagnazione continentale, decisamente positiva per i grandi avanzi della bilancia commerciale e i grandi patrimoni tedeschi (meglio tutelati, indubbia­men­te, dalla deflazione che non da una moderata inflazione). Ma questa austerità ha avuto effetti decisamente catastrofici su altri paesi dell'Eurozona; ha prodotto fiammate di populismi che varcano ormai un terzo dei consensi. Sicché adesso anche la Francia (Marine Le Pen) e l'Italia (Beppe Grillo) sono divenuti paesi a rischio d'uscita dall'Euro.

4) Nonostante l'assicurazione fornita a suo tempo dal ministro degli esteri Hans-Dietrich Genscher a Mosca in cambio dell'ok russo al­l'uni­ficazione delle due Germanie sotto egida NATO – e cioè nonostante l'assicurazione per cui la NATO stessa non si sarebbe espansa a Est in funzione anti-russa – ciò nonostante, oggi l'Europa a trazione tedesca assiste in Ucraina a un'orribile guerra civile tra forze filo-Nato e forze filo-Russia. Sicché sulle prospettive di una triango­lazione europea “dall'Atlantico agli Urali” non c'è da stare molto allegri.

Rebus sic stantibus, la prospettiva di un'Europa a due velocità a trazione tedesca si presenta ardua rispetto ai paesi mediterranei, verrebbe presumibilmente osteggiata dagli Anglo-Americani, e non susciterebbe grandi entusiasmi neppure da parte russa, a meno di miracoli diplomatici e, quindi, di generosi programmi di spesa keynesiana che unter den Linden appaiono al momento un tabù.

Nonostante queste autolimitazioni geo-economiche e le recinzioni geopolitiche che ne sono derivate (a Ovest, a Sud e a Est), l'aspirazione di Angela Merkel d'inaugurare un gruppo di testa a guida tedesca nella logica delle due velocità, potrebbe pur sempre aggregare cinque-sette paesi vicini della Germania ed economicamente virtuosi. Questo “gruppo” potrebbe assommare una popolazione di circa 140 milioni di abitanti per un PIL nominale di circa 6'223 miliardi di dollari. Potrebbe anche costituire il primo nucleo degli Stati Uniti d'Europa? Un percorso di consolidamento politico-istituzionale “rafforzato” rientrerebbe certo nelle possibilità e anche negli interessi dei soggetti statuali che eventualmente decidessero di impegnarsi nell'esperimento.

A tale formazione “berlinese” potrebbe seguirne una seconda, “parigina”. Parliamo, ovviamente, dell'empire latin elaborato da Alexandre Kojève in un Memorandum che il filosofo e alto funzionario francese consegnò al generale De Gaulle nell'agosto del 1945 (qui stralci del documento in francese). L'empire latin prefigurato da Kojève – e ripreso in anni più recenti da Giorgio Agamben con un articolo sulla Repubblica che ha fatto grande scalpore – includerebbe la Francia, l'Italia, il Portogallo e la Spagna, assommando per parte sua una popolazione di circa 185 milioni di abitanti per un PIL nominale di circa 6'222 miliardi di dollari. E potrebbe costituire il secondo tassello degli Stati Uniti d'Europa.

Ma siamo già alle ipotesi di secondo grado, cioè a scenari oltremodo complessi, perché – qualora un “impero tedesco” e un “impero latino” venis­se­ro a realizzarsi – bisognerebbe poi vedere in che modo interagirebbero l'un con l'altro, ma anche con Russia, Brasile e America latina, e so­prat­tutto con gli Anglo-Americani e la Repubblica Popolare Cinese. Non si può andare oltre, in questo esercizio di scuola, perché gli scenari divengono di qui in poi incalcolabili: come sempre è nelle cose della politica e della storia, del resto. Nelle quali, infatti, regolarmente accadono eventi che nessuno aveva previsto o che, quanto meno, nessuno aveva previsto in quel modo.

Tuffandosi in questo mare magnum con moto ondoso in aumento, il liberale di centro-destra Antonio Martino (ex Ministro degli affari esteri ed ex Ministro della difesa) avanza una proposta da non sottovalutare, insinuante e insidiosa, anche se non del tutto imprevedibile, dati i precedenti istituzionali di Martino.

Nell'intervista rilasciata ieri a QN, l'ex ministro berlusconiano, già “tessera numero 2 di Forza Italia”, noto per la sua contrarietà all'intro­du­zione dell'Euro, esordisce con questa professione di fede: «Io sono un europeista della prima ora, come lo erano i padri fondatori». Il ri­fe­ri­mento ai padri fondatori implica il padre di Antonio Martino stesso, Gae­ta­no, anch'egli ministro degli Esteri, che nel 1955 ospitò a Messina i col­le­ghi ministri della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) dando un indiscutibile contributo alla fondazione dell'edificio co­munitario. Meno di due anni dopo, il 25 marzo 1957, firmò per l'Ita­lia i Trattati di Roma.

«Credo nell'unione politica dell'Europa», prosegue Antonio Martino, «ma anche che, oggi come oggi, a perseguire una soluzione intermedia ci si sia infilati in una strada senza sbocco, che ha prodotto un'Europa di grigi euro-burocrati che non piace a me e non piace a milioni di cittadini e, soprattutto, non funziona». Quindi, adesso, o si compie un deciso passo avanti, oppure l'Europa si sgretolerà.

Ma riusciranno i nostri ventisette paesi divisi su tutto a compiere il famoso “passo avanti”? E, se non ci riuscissero, esiste un gruppo più ristretto di paesi “volenterosi” disposti ad accelerare insieme? Riecco, ineludibile, la questione delle “due velocità”. Senonché, secondo Martino, qui si rischia di moltiplicare il caos attuale. Ma c'è il ma…

«Ma farei un'eccezione per la Comunità europea della Difesa», aggiunge l'ex ministro: «Su questo, e solo su questo, sarebbe bene iniziare con chi ci sta, tenendo a bordo quanti più paesi possibile. Se fatta bene, potrebbe essere un nucleo intorno al quale rafforzare un'Europa forte, che funziona, e pensare poi a un'Europa politica».

Quale sia la dimensione “politica” che Martino ha in mente, lo dice il titolo dell'intervista: “Serve un governo federale”. Ma un tale go­verno serve in vista di una federazione di Stati. E, insomma, ecco a voi la via “militarista” agli Stati Uniti d'Europa. Per chi, come noi (e i no­stri predecessori), ha sempre inteso nel progetto europeo un'utopia di pace, può apparire un boccone impossibile da mandar giù.

Tuttavia, la difesa comune rappresenta in fin dei conti un nodo ineludibile. Tu non puoi volere gli Stati Uniti d'Eu­ro­pa e, insieme, la divisione militare del continente in ven­ti­sette For­­ze Armate. La logica, la realtà e anche il più pacifico buon sen­so consiglierebbero d'integrare i comandi militari tra paesi “volon­te­rosi”, cioè propensi a un processo di unificazione dei sistemi di difesa.

E però il primo passo da compiere da parte di una futura “Comunità europea della Difesa” sulla via dell'unificazione dei comandi militari certo non può coinvolgere l'Esercito, la Marina, o l'Aviazione né, men che meno, i settori dell'Intelligence, che potranno senz'altro collaborare, ma non fondersi in tempi brevi. Oltre tutto, si fa fatica a immaginarsi la formazione di un consenso reale tra Governi intorno ad ambiti così “sensibili”. Dopo avere ceduto la sovranità sulla Moneta, le Cancellerie europee non metteranno volentieri in gioco ora anche quella sulla Spada. E se pure un qualche tecnocrate illuminato riuscisse a convincere un qualche premier coraggioso, le proteste ululanti di populisti e sovranisti sarebbero tali da inchiodare il motore al primo giro d'avviamento, pregiudicando per molto tempo l'intero percorso.

Scartate le ipotesi impensabili, restano quelle che, per quanto ap­pa­ren­temente eterodosse, aprono una percorribilità reale. E allora, sulla via del­­l'unificazione dei comandi militari tra i paesi più “volonterosi” di una Eu­­ropa a due velocità, il primo passo da compiere sarebbe la co­stru­zione di un coordinamento unificato per il Servizio civile europeo.

Qua­le persona ragionevole potrebbe insorgere contro questa prospet­ti­va? E con quali argomenti? Un grande progetto di Servizio civile – sulla fal­sariga di quello esposto da Ernesto Rossi nel suo Abolire la mi­seria, cui ci siamo più volte richiamati su queste colonne – rap­pre­senterebbe per i cittadini non (più) in formazione una possibilità ana­loga a quella offerta dall'Erasmus a un'intera generazione di stu­denti e ricercatori universitari. Questo progetto (che per certa parte si reg­gerebbe da sé) andrebbe per altro sostenuto grazie a nuovi strumen­ti finanziari comuni (Eurobonds) e potrebbe combinarsi in modo sen­sa­to con le tematiche del reddito di cittadinanza.

Nel Servizio civile europeo i Governi potrebbero testare forme di collaborazione rafforzata in un settore che rientra organicamente nelle competenze della Difesa. E potrebbero farlo senza dover mettere immediatamente in gioco i settori strategici.

Infine, anche sul piano occupazionale (di cui si deve tenere conto) con l'istituzione di un Servizio civile europeo verrebbe a formarsi una “rete di protezione” in grado di assorbire gli esuberi propriamente militari, allorché si reputasse di poter procedere a una fase più avanzata d'integrazione delle Forze Armate Europee.

 

Editoriale non firmato

(da L'avvenire deilavoratori, 9 febbraio 2017)


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