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FAI. Una storia di Torino. Note a margine
27 Marzo 2009
 

In questi giorni a Torino si è fatto un gran parlare di merda e di ristoranti di lusso. Una storia ghiotta per i riflettori dei media, sempre a caccia di sensazioni, una storia ancora più ghiotta per i vari politici che affollano la scena istituzionale all’ombra della Mole.

Noi vogliamo parlare d’altro. Vogliamo parlarvi di sangue. Il sangue di due tunisini che, sabato 21 marzo, si sono incisi a fondo le braccia, macchiando il cortile del CIE, la prigione per migranti dove erano rinchiusi. Era il “loro” giorno: li attendevano le camionette che li avrebbero condotti al porto di Genova per imbarcarli a forza verso un paese dove non potevano né volevano più vivere.

Il video di quel sangue è stato cancellato da youtube perché certe brutture non si devono vedere. Robe dell’altro mondo, il mondo separato dei “senza carte”, uomini e donne dichiarati illegali, rinchiusi in attesa di deportazione. Per loro soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. E, a volte, ci scappa anche il morto. Come a Torino, il 23 maggio scorso, quando un immigrato, lasciato senza cure, è morto di polmonite. A Roma un algerino stava male: è stato curato a manganellate ed è morto nella sua cella il 19 marzo.

Il governo in febbraio ha deciso di prolungare la reclusione dei CIE da due a sei mesi. Da allora è partita una disperata resistenza.

Nei CIE di Torino, Milano, Roma, Bari, Gradisca, Bologna ci sono stati scioperi della fame, materassi bruciati, proteste sui tetti. A Bari in tre si sono cuciti le labbra.

La polizia reagisce a suon di botte, minacce, perquisizioni con cani, telefoni spaccati.

Ovunque, nelle gabbie per immigrati, si levano urla. Urla nel silenzio.

Viviamo tempi terribili. Tempi segnati dalla paura e dall’indifferenza.

I codici malati del razzismo e della xenofobia ne sono il segno distintivo e la chiave di accesso. La rottura dei legami che gli oppressi e gli sfruttati hanno intrecciato nel segno della libertà e dell’uguaglianza chiude un’epoca e ci consegna ad un futuro di barbarie. In questi ultimi trent’anni la separazione si è consumata passo dopo passo, delineando una rottura, che ha trovato piena espressione in un corpus di leggi che creano un diritto diseguale. Un’aberrazione persino per il più conservatore dei liberali. D’altro canto senza solide basi materiali eguaglianza e libertà sono solo vacui principi, e comunque la distanza tra la forma e la sostanza è sempre stata grande.

Nondimeno la sanzione giuridica della disuguaglianza, poiché le leggi sono rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno di una società, è il segnale che il terreno del conflitto sociale sta spostando il proprio asse: lo scontro di classe cede il passo alla guerra tra poveri.

La valenza simbolica e reale di questo evento è enorme ed apre la via ad un processo di normalizzazione violenta dello spazio sociale. Nell’ultimo anno sono stati criminalizzati comportamenti banali come il bersi una birra in strada, fare caciara con gli amici ai giardinetti, tirare tardi al bar. Una società in guerra dichiara il coprifuoco, restringe le libertà formali, accusa di intelligenza con il nemico chi si oppone al macello. Il moltiplicarsi degli uomini armati per le strade è il necessario contrappunto al moltiplicarsi di divieti e prescrizioni. I cittadini che si fanno poliziotti, incubo fascista, con il crisma della legalità rischiano di diventare rapidamente vere squadracce.

Come una marea lenta ma poderosa questi provvedimenti sono tasselli diversi che ben si incastrano nel disegnare un mosaico di guerra permanente, dove l’attitudine a trattare le questioni sociali in termini di ordine pubblico, venuta maturando negli ultimi due decenni, si dispiega senza più alcuna remora, poiché forte del sostegno dei tanti, troppi, che il lessico della paura serra in una morsa di xenofobia e razzismo.

La paura travolge ogni resistenza etica, imbriglia le coscienze, evoca barriere e filo spinato.

Se non sapremo sconfiggere la paura e la rassegnazione che attraversano le città il limite degli orrori pensabili, quelli relegati nel passato, potrebbe spostarsi ancora. La nostra società ha da tempo oltrepassato l’orlo del baratro: la discesa è sempre più rapida e violenta. Ci auguriamo di non arrivare al fondo, dove muri robusti difesi da guardie armate, non lasciano alternativa alla guerra civile. C’è chi pensa che ormai sia inevitabile e che i giusti non possano che scegliere la propria barricata. Lo riteniamo possibile ma non auspicabile, poiché in una società spezzata in due, quando alla paura degli uni fa da contrappunto la furia disperata degli altri, non c’è spazio all’anticipazione di un tempo diverso, scandito dal ritmo della libertà e dell’eguaglianza. Eppure non ci sono alternative: o si cambia davvero o non si cambia affatto, se non in peggio. Tra le rovine non si vive, si sopravvive.

Di questi tempi parlare di rivoluzione non è un anacronismo, un lusso degli scorsi decenni, ma l’unico orizzonte che non ci consegni un futuro a tinte sempre più fosche.

L’anima della rivoluzione è fatta di conflitto e prefigurazione utopica, di rotture e sperimentazioni e si costruisce giorno dopo giorno nell’humus della solidarietà, nella condivisione di un insieme di valori, nel loro inveramento nella pratica.

Stiamo attraversando il deserto e in fondo non c’è nessuna promessa. Ma il deserto si attraversa in molti modi e attraversarlo bene è importante quanto arrivare alla fine.


Non c’è più spazio per gli indugi.

Non c’è tempo da perdere. Questa è una storia che si racconta facendola, dove la resistenza necessaria si intreccia con la paziente tessitura di relazioni durature, in un continuo rimando tra un piano e l’altro, alla fin fine strettamente allacciati, fusi, indistinguibili.

L’indignazione non basta: occorre agire concretamente per inceppare la macchina delle espulsioni, il caporalato nero come quello in guanti legali, occupando metro dopo metro tutti gli spazi di libertà possibili.

Cooperative e associazioni che gestiscono i CIE, le prigioni per migranti, collaborando attivamente alla macchina delle deportazioni, non devono avere vita facile. Nelle strade, nei mercati, nei posti di lavoro ci mettiamo in mezzo per impedire o almeno intralciare l’applicazione delle leggi razziste.

Pur tra mille difficoltà cerchiamo di contrastare le retate sui tram e nei quartieri, dando solidarietà ai lavoratori immigrati in lotta, sostenendo chi si ribella ai centri di detenzione, tenta la fuga, sciopera, si rivolta apertamente.

Piccoli passi faticosi, spesso illegali, rischiosi. A volte servono, altre sono inutili. Eppure necessari, terribilmente necessari.

In un’epoca che fa di tutto uno spettacolo da consumare con rapida voracità, a volte è forte la tentazione di agire per il mero gusto di creare scalpore, avere visibilità e, di riflesso, farne avere a chi non l’ha. È una tentazione che capiamo nella sua tensione etica ma proviamo a non caderci, perché chi ha in mano le leve potenti dei riflettori sa come indirizzarli, annullando il senso del nostro agire. Intendiamoci. Ogni agire, è sempre, anche, agire comunicativo. Non se ne sfugge, come non si sfugge al giogo dell’informazione di massa che manipola e cancella. Di fronte ai moloch bisogna divenire più agili ed intelligenti, eludendo le trappole e cercando un confronto diretto con chi ci vive intorno, con i mille gangli vitali di questa città.

Torino è strangolata dalla crisi: le fabbriche han ceduto spazio ai centri commerciali e la gente fa fatica ad arrivare alla fine del mese. Il mito del capitale come unico orizzonte di benessere e felicità si infrange di fronte al mutuo da pagare, ai costi dell’istruzione, della sanità, della casa.

Il rutilante circo Chiamparino non basta più: passata la sbornia olimpica restano debiti e enormi inutili scatoloni di cemento.

E chi governa comincia ad avere paura.

Paura della rabbia di chi è venuto nel nostro paese per rosicchiare un pezzo di futuro e si trova schiavo del lavoro che rende liberi. Liberi di accettare lavori pericolosi, malpagati, usuranti solo per avere le “carte in regola”.

Paura che i lavoratori italiani comincino a capire che i loro nemici siedono nei consigli di amministrazione delle aziende, e che la precarietà per legge colpisce tutti, ovunque siano nati.

Paura che le parole e la pratica concreta della solidarietà – oggi patrimonio di pochi – divengano contagiose.

Paura che la lotta si estenda, che torni nelle barriere operaie il gusto della resistenza, un agire che prefiguri un domani nel segno di libertà ed eguaglianza.

E chi ha paura reagisce male, mette in campo tutta la potenza del suo apparato di propaganda, criminalizza, ridicolizza, umilia ogni forma di opposizione sociale.

E prepara teoremi repressivi nei confronti dei nemici politici. In particolare, ma sarebbe da sciocchi stupirsene, contro gli anarchici.

I mezzi sono i soliti, ben noti. Si mescola la merda con la polvere nera, si disegnano improbabili connubi, si scrivono genealogie fantastiche e si mette ciascuno di fronte alla poco allettante scelta tra il personaggio dell’inutile idiota e quello del criminale.

Noi non ci stiamo.

Non ci va di far la parte dei bravi ragazzi fuori dal tempo e nemmeno quello dei principi neri dell’anarchia. Roba da feuilleton.

Non abbiamo mai fatto mistero che lettere esplosive e cassonetti farciti al tritolo non ci piacciono.

Per evitare comodi fraintendimenti precisiamo di considerare doverosa la solidarietà con quanti sono stati oggetto delle attenzioni della magistratura per questi episodi, ma non vi troviamo un buon motivo per tacere le nostre opinioni.

Colpire un passante che porta a pisciare il cane o una cameriera filippina che butta la mondezza alla Crocetta è lontano dai noi come il peggiore squadrismo fascista. Ha le stesse modalità autoritarie della violenza legalizzata dello Stato. Poco ci importa se chi lo fa sia al servizio della questura o lavori gratis: la sostanza non cambia. D’altra parte chi usa un acronimo uguale al nostro per firmarle dimostra sin troppo bene che il principale destinatario di certe azioni sono gli anarchici sociali.

Vorrebbero vederci scegliere tra un ruolo da buoni e cretini e uno da cattivi e conniventi. Ancora una volta non ci stiamo. Giorno dopo giorno, non abbiamo timore ad immergere le mani nella lotta sociale, non ci preoccupiamo se il nostro agire sia legale, ma nemmeno consideriamo l’illegalità un blasone di nobiltà, perché sappiamo che la strada per la libertà e l’uguaglianza non ha nessuna scorciatoia. Un sistema basato sullo sfruttamento e l’oppressione più nera non può essere riformato, ma la radicalità del cambiamento necessario dipende dalla partecipazione attiva degli oppressi e degli sfruttati. Un mondo di liberi ed eguali si costruisce con la libertà e l’uguaglianza: la coerenza tra il fine perseguito ed il mezzo adottato è condizione necessaria ad arrivare dove si vuole e non dove conduce la strada.


Ormai da mesi media, politici, polizia e magistratura, ciascuno nel proprio ruolo, stanno tentando di criminalizzare ogni forma di resistenza alle leggi razziste, alla normalizzazione del territorio, alle politiche di esclusione sociale. Il prefetto Padoin ha detto senza mezzi termini di temere la saldatura tra opposizione politica e opposizione sociale.

E ha ragione, perché questo è il nostro obbiettivo, questo è l’obiettivo di tanti in questa città.

Ci muove un’urgenza. Rompere il fronte della guerra tra poveri, demolirne mattone su mattone la logica, rivelandone il senso e contrastandone la propaganda e la pratica quotidiana nei quartieri che viviamo. Il nostro percorso si intreccia con quello di chi, come noi, sente quest’urgenza.


Se un giorno qualcuno ci chiederà dov’eravamo quando deportavano la gente, quando le ronde imperversavano per le strade, quando uomini e donne morivano in mare e nei cantieri, quando i caporali avevano i loro schiavi, vorremmo poter rispondere che eravamo lì, con gli altri, a passare il deserto.


Torino, 26 marzo 2008


I compagni e le compagne

della Federazione Anarchica Torinese – FAI


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