Dicono alcuni che Beethoven non avesse il senso del teatro lirico, dei suoi ritmi e delle sue combinazioni di pieni e vuoti, persuasioni e suggestioni, parti recitate e cantate. Della propria unica opera – accolta tutt’altro che trionfalmente – scrisse più di un’ouverture, la cui potenza parve ad altri e a lui stesso sproporzionata per l’equilibrio d’insieme. E tuttavia il Fidelio, fin dall’edizione del 1805, conteneva una scena dalla straordinaria efficacia icastica, e di tale vastità ideale che andrebbe posta accanto alle pagine emblematiche del motivo portante della Quinta sinfonia (‘il destino che batte alla porta del nostro animo’) e al “Freude, Freude!” (“Gioia, Gioia!”), su testo di Schiller, del coro della Nona. Si tratta del momento in cui emergono dall’oscura profondità del carcere alla luce, da tempo solo sognata e ora quasi per loro accecante, i prigionieri della violenta tenebra dell’ingiustizia.
Ludwig aveva solo 17 anni quando a Praga, nel 1787 – due anni prima della Rivoluzione francese – Mozart lanciava e reiterava in crescendo nel Don Giovanni il settenario tronco “Viva la libertà!” (su un pretesto apparentemente frivolo: il “Venite pure avanti, vezzose mascherine; è aperto a tutti quanti” di Leporello). Ne aveva 20 nel 1790, quando Così fan tutte si rivelò non un semplice scherzo, ma ancora un canto di emancipazione; e per di più femminile, per quanto allora possibile. Un anno dopo – l’ultimo di Mozart – si sarebbero affacciate sulla scena popolare di Vienna le intuizioni massoniche e l’ascesa verso la luce di Tamino e Pamina nel Flauto magico.
Per Mozart la libertà è naturale, la luce una conquista. Per il Beethoven del Fidelio è la libertà che va conquistata, e la luce è natura che a quel punto torna a premiarci riaccogliendoci in sé.
Non altrimenti, nel 1832, Goethe – che Beethoven ammirava, ma con il quale non riuscì a capirsi – concludeva la sua vita chiedendo “Mehr Licht”, “Più luce”.
Questa tensione dello spirito o della mente appartiene a noi tutti che cerchiamo un luogo d’arrivo e confidiamo che sia possibile raggiungerlo. Ci sentiamo a quel luogo idealmente legati – legame nella libertà, scelta consapevole, elaborata dalle nostre esperienze e non dettata da presunte rivelazioni: tutt’al più suggerita da Kant o da Locke. È questo che non ho problemi a chiamare religiosità laica ed atea, nel senso etimologico del termine ‘religione’ proposto dal Calonghi che ci ricorda come il latino religio derivi da religare (‘legare’, ‘connettere’) ed indichi in sé coscienziosità, lealtà, e solo per successive estensioni l’attaccamento alla propria idea di sacro, poi a quella di divino, infine a varie divinità e ritualità definite da altri.
Libertà e ‘luce’ potrebbero essere obiettivi individuali; ma sappiamo che l’uomo è un animale sociale. È nell’intersezione fra personale ricerca e diffusione di quanto da alcuni trovato che si può generare l’imposizione di un Vero di regime, del credo unico, di ciò che si definisce come acquisito e si proibisce di rifiutare o negare. Imprigionare una comunità nelle credenze e nei riti di una religione ‘rivelata’ è tipico dei regimi che usano la religiosità come instrumentum regni – abitudine antica, realtà attuale in molti Paesi, tentazione montante nella Russia di Putin e nell’Italia democristiana e togliattiana, mussoliniana e craxiana, berlusconiana e veltroniana.
In questa rapida discesa all’irrazionale arriva prima chi si lascia franare del tutto, e gli altri vanno ad affogare nel fondo senza nemmeno la falsa gloria della primazia: non ci si illuda di potersi permettere di scivolare solo fino a un certo punto se non si hanno appigli molto saldi.
Le propensioni salvifiche di Bush o le concessioni verbali di Sarkozy alle gerarchie vaticane erodono ma non sono sufficienti a sgretolare negli Stati Uniti o in Francia la struttura laica dello Stato, la separazione fra questo e le Chiese. La debolezza del sistema italiano rende invece più grave ogni ulteriore cedimento alle pretese del confessionalismo cattolico, e presto a quelle di altri fondamentalismi. Perché il deserto avanza, in ogni senso: o si riesce a contenerlo ove già esiste, a invertire il processo, o sarà la sua sabbia a coprire foreste, campi, città, a penetrare più profondamente nelle aule dei tribunali e nelle nostre camere da letto, negli ospedali e nelle farmacie, in università e redazioni.
L’immissione in una determinata società di numeri elevati di persone che in maggioranza sembrano avere atteggiamenti intolleranti, violenti, integralisti è una scossa alla quale occorre essere preparati. Si pensi all’uccisione del regista Van Gogh in Olanda, alle esecuzioni di ragazze accusate di ‘immoralità’ da parte del clan familiare in Italia o in Gemania, ai rifiuti di insegnanti donne per alunni maschi e agli attacchi antiebraici da parte di gruppi di recente immigrazione in Francia: episodi più seri della microcriminalità diffusa. Ma la peggiore delle reazioni possibili è la chiusura in un’identità presunta, centrata sulla ritualità di una religione. E un’altra risposta erronea, in apparenza meno arrogante ma vile, è il compromesso con i riti, i dogmi, le richieste di denaro e di privilegi dei rappresentanti più o meno autoproclamatisi delle due o tre religioni più diffuse o minacciose: li si riunisce e si concedono ore di indottrinamento nelle scuole, finanziamenti, macellazioni rituali, facoltà di derogare ai principi di non discriminazione, spazi televisivi, titolarità a definire le linee di governo su temi ‘eticamente sensibili’.
Tutte le comunità hanno attraversato momenti o epoche di intolleranza, anche estrema. Quelle che ne sono uscite lo hanno fatto con la ragionevole, paziente articolazione di rapporti interpersonali di complessità crescente, e che la storia ha provato folle tentare di semplificare. La semplificazione basata sull’identità nazionale, etnica o di culto contiene germi patogeni fra i più virulenti.
Noi non nasciamo né tolleranti, né civili: con l’atto stesso della nascita acquistiamo diritti umani, mentre siamo del tutto inconsapevoli di appartenere ad un gruppo di qualsiasi tipo. Crescendo accade che si scoprano vincoli, ma il fatto è che non scegliamo i nostri antenati. Spesso non siamo in grado di ricostruire la vita di chi ci ha preceduto in linea biologica per più di tre o quattro generazioni. In Italia, salvo pochissime eccezioni – ad esempio fra alcune famiglie ebraiche – è impossibile documentare con qualche credibilità un’origine che risalga all’epoca classica. Eppure tanti sembrano ritenere che in quanto italiani si debba essere titolari di più diritti, forse anche di un più elevato rango internazionale di altri per il fatto di essere in qualche modo ‘eredi’ degli antichi romani o dei celti della Padania; una forma latente di nazionalismo, che più riemerge quanto più risorgano nostalgie autoritarie, statolatriche o campanilistiche.
Siamo in realtà solo i custodi di una parte di quanto la Roma antica, ed ogni altra civiltà sviluppatasi in Italia, hanno lasciato attraverso i millenni. Ma qualsiasi sia il luogo della nostra nascita o la cittadinanza dei nostri progenitori, non ci può essere negato di selezionare taluni paradigmi di diversi modelli di civitas e di renderli nostri: al punto che potremmo dirci greci se siamo attratti da una certa essenza di democrazia, etruschi se avvertiamo con profondità il fascino per l’ultima soglia della vita, fenici o galli o daci o ogni altra cosa se cogliamo, fra quanto crediamo di sapere di quei popoli e scartandone gli elementi anacronistici o sgraditi, idee o messaggi che sentiamo nostri. E ci diremo inglesi per il Parlamento, statunitensi per il federalismo e la separazione dei poteri, amerindi per il rapporto con la natura, e molto altro e quasi tutto; e ‘romani’ se riconosciamo che orrendi crimini contro l’umanità furono da Roma compiuti ma che furono romani i semi del diritto, le pietre fondanti della costruzione della legge – la sola struttura al mondo in grado di ospitare tutti e ciascuno.
Di molti dei monumenti di Roma percepiamo l’epifania attuale, ma di essi ci sfuggono alcune caratteristiche. Immaginiamo che i bassorilievi sovrapposti della Colonna Traiana siano bianchi da sempre, quasi che il bianco ne fosse una cifra essenziale – cifra della solennità, del potere, dell’ordine. E invece erano dipinti d’azzurro, di vermiglio, di oro, e la maestosità della colonna era policroma; come molte statue di allora. Allo stesso modo nella nostra vita di ogni giorno noi non vediamo che il monumento – o monito – che più dovremmo curare della Roma antica è stata la costruzione del diritto. Fra contraddizioni e riflussi, come in ogni cosa umana; ma sempre l’unica alternativa alla forza. E questo è valido anche in campo internazionale. Dagli ambasciatori ateniesi che, come scrive Tucidide, spiegarono agli abitanti di Melos che «il diritto, per come va il mondo, è in questione soltanto fra soggetti che hanno la stessa forza, mentre i forti fanno ciò che possono e i deboli subiscono ciò che devono», al Virgilio che esorta a regolamentare la pace, parcere subiectis et debellare superbos, si era compiuto già un passo importante. Sarebbe stato tradito più volte e molte altre ripercorso e innovato: fino a quanto noi stessi tentiamo di fare, fino alla moratoria della pena di morte ed alla prima giurisdizione internazionale permanente per i crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio.
Qui è la portata, transnazionale ed etica, del Preambolo allo statuto del Partito Radicale, che «proclama il diritto e la legge diritto e legge anche politici del partito». Questa è la scelta di un’ideale cittadinanza, questa di tale cittadinanza è l’offerta.
O accettiamo, sosteniamo, promuoviamo il diritto e la legge, su cui fondare una cittadinanza elettiva; o ci gettiamo nella spirale della barbarie. E tutto questo esula totalmente da ogni nostra ascendenza biologica.
Antonio Stango
(da Notizie radicali, 27 maggio 2008)