Huc-hùi aveva appena dischiuso gli occhi sul ristretto mondo circostante, che subito provò il desiderio di essere altrove. Si mosse appena e si trovò in una regione sconosciuta popolata di ebbrezza e di sogni e di ira, e spaventato richiuse gli occhi e ricadde nella sua immobilità. Le radici lo avvilupparono così fortemente che egli si fuse con gli alberi e con le pietre e respirava attraverso le foglie e si cibava dei frutti e degli insetti che gli si insinuavano tra la bocca che non era capace di chiudere, e con la quale emetteva quegli strani suoni che non poteva reprimere: una specie di colpo di tosse quando gli animali strisciando, volando e arrampicandosi su di lui lo scuotevano fin nel profondo, e quando uno strano miscuglio di sensazioni lo faceva torcere tra piacere e dolore strappandogli una serie di mugolii senza senso, ma sicuramente dai toni interrogativi.
Il tempo passava e Huc-hùi si ricopriva di muschio. Il mantello vellutato era diventato la sua pelle. Dal capo gli scendeva una fittissima chioma verde dalla quale non trapelava nemmeno un raggio di sole o di luna, o uno spiffero di vento.
Le stagioni passavano e Huc-hùi aveva sempre più freddo. Solo, in piedi, fisso, era diventato il centro del luogo. Ogni tanto passava da quelle parti qualche suo simile che gettava una occhiata diffidente a quell’ albero difforme e nano e tirava via, e nel sentire quei passi che si avvicinavano e subito si allontanavano Huc-hùi provava un fremito doloroso che lo scuoteva tutto e dalla bocca gli usciva suo malgrado un fiotto lamentoso di huc, huc, ui? ui?. Finché un giorno, quando il parossismo di Huc-hùi raggiunse la massima intensità e violenza, e si fece il vuoto attorno a lui, qualcosa di tiepido e di morbido si raggomitolò ai suoi piedi e un dolce calore salì per tutta la notte lungo le sue membra, salì e salì, e al mattino gli esplose nell’inguine in una fiammata.
“Huc huc huc, hùi hùi hùi!” gemette e poi ululò senza ritegno Huc-hùi.
La cosina tiepida e morbida si agitò stringendosi più forte al manto di vellutino, si girò e rigirò, poi si stirò e stiracchiò facendo dei versi bruschi e rumorosi:
“Etcì etcì etcì, etciù etciù etciù!”.
Ormai l’equilibrio pressoché stabile dell’uomo-albero era rotto. Huc-hùi risentì l’ebbrezza e l’ira impossessarsi ancora di lui e prese a scrollarsi con tale vigore da mandare in pezzi la sua pelle posticcia, che prese a cadere a pioggia sulla cosina che gli stava abbrancata addosso, volendo scalarlo come una montagna.
Quando ebbe le mani libere Huc-hùi si strappò la lunga e folta chioma che gli aveva stretto la testa come un duro elmetto senza visiera, stropicciò gli occhi che non si volevano spiccicare, si chinò scricchiolando tutto e temendo di spezzarsi in due, anchilosato com’era. Fu una operazione lunga e dolorosa, quella di rimettersi in moto, ma finalmente verso sera Huc-hùi riuscì a posare lo sguardo sulla cosina raggomitolata ai suoi piedi, che a sua volta aveva osservato dal basso in alto, con grande curiosità, tutte le sue difficoltose acrobazie.
“Etcì, etciù! Brr, brr”, si lamentava la cosina sempre più fiocamente, mentre diventava sempre più piccola, come abbozzolata in se stessa.
Huc-hùi moriva dalla voglia di toccare la misteriosa creatura ricoperta di una pelle vaporosa e soffice che cambiava colore col cambiar della luce, ma aveva paura di fare movimenti sbagliati e perciò restava impacciato incerto sul da farsi, mentre un languore struggente gli allargava i polmoni in tanti sospiri profondi, che lo estenuavano. Finché, con un gesto incontrollabile, non allungò la mano e penetrò con le dita quella pelle di sogno, color delle stelle ora che era calata la notte. La pelle non era una pelle, ma una lunga chioma che lui poteva scompigliare e riavvolgere, e sotto quella chioma c’erano due grandi occhi color tortora che lo fissarono senza paura e senza affezione, un visino tondo e cicciotello, e due braccine tenere che lo afferrarono al collo senza volerlo più lasciare.
La sorte di Huc-hùi era segnata.
“Eccì-brr”, la chiamò dolcemente. Ma essa non gli rispose perché si era già addormentata, sfinita, fra le sue braccia.
Huc-hùi sedette su un masso e non si mosse per tutta la notte. Aveva fame e freddo, e ciò gli fece capire che anche Eccì-brr aveva fame e freddo. Presto si sarebbe svegliata e toccava a lui provvedere alle sue necessità. Era stata lei, quella cosina tiepida e morbida a strapparlo alla sua immobilità, a fargli sentire il fuoco nei fianchi col solo movimento del suo corpicino inquieto. Anche volendo, Huc-hùi non avrebbe più potuto tornare alla sua precedente condizione di falso vegetale: il desiderio di risentire quel fuoco, che risalendo dalle viscere gli aveva incendiato il capo, era troppo forte.
Forse si appisolò. Vide una caverna rivestita di pelli e illuminata da una luce calda, e al centro la soffice creatura che mordeva golosamente un frutto, mentre il succo le colava sul mento ed egli con la lingua lo raccoglieva e anche lui ne gustava.
“Piffete”, lo salutò la piccola al suo risveglio.
“Puffete” le rispose ansimando Huc-hùi, ansioso di proseguire il discorso appena iniziato.
Cominciarono a scambiarsi i suoni e prima di mezzogiorno già si capivano. Venivano da luoghi diversi e avevano poco in comune, e quel poco bastò perché essi volevano stare insieme. Nessuno dei due voleva tornare alla forma di vita di prima, volevano una vita nuova.
Huc-hùi si era sempre nutrito di erbe e degli insetti che per sbaglio gli erano entrati in gola. Eccì-brr si era sempre nutrita di carne, strappata a forza a quelli del suo gruppo o agli animali quando già erano sazi.
Huc-hùi non si era mai mosso, se non per cercare erba nei dintorni. Eccì-brr, curiosa come una scimmia, aveva gironzolato in continuazione rubando ovunque esperienze.
Usciti entrambi dai loro gruppi, chi per troppa pigrizia e chi per troppa solerzia, unirono le loro forze per creare la loro nuova, piccola tribù.
Huc-hùi si mise a lavorare la pietra per farne armi e diventò cacciatore.
Eccì-brr alla vista della prima succulenta preda ricordò come faceva il capo della sua tribù a fare il fuoco, e si mise a strofinare a lungo e con forza due pezzi di legno. Quando si levò la prima scintilla, a Huc-hùi si spezzò il respiro. Credeva di morire, invece semplicemente pianse di commozione davanti alla magia compiuta dalla sua piccola compagna, che non gli arrivava nemmeno alla vita, ma aveva un intelletto più alto del suo.
Ecco, il sogno si era avverato: la caverna, il fuoco, il cibo, la femmina. Huc-hùi pensò che non si sarebbe mai più mosso da lì, dove sarebbe cresciuta la sua numerosa tribù.
Ma non aveva fatto i conti con lo spirito intraprendente della sua compagna. Eccì-brr, quando vide che la sua pancia cresceva e l’inverno si approssimava, decise di discendere verso la pianura dove il clima era più mite, i frutti più dolci e la selvaggina più abbondante.
Un mattino Huc-hùi si svegliò e la trovò pronta a partire.
“Noi andare” gli disse Eccì-brr, e iniziò il viaggio.
Huc-hùi avrebbe voluto picchiarla. Con due salti la raggiunse e voleva riportarla a forza nella caverna, ma lei gli sorrise e lui si sentì sciogliere il sangue. Seguì contento la sua femmina alta una spanna e piena come una bacca, con la sua arma di pietra in mano e la sfida del grande cacciatore negli occhi.
Dovunque sarebbero andati, lei avrebbe acceso e custodito il fuoco, e avrebbe arrostite le carni al suo rientro.
Iniziò così la nuova avventura dell’uomo.
“Oh, Eccì!”
“ Noi fatta molta strada, Huc, e molti cuccioli”, disse fiera la piccola morbida creatura, scostandosi i lunghi capelli dai grandi occhi color tortora, colmi di affezione.