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Vetrina/ Maria Lanciotti. Araldica
03 Dicembre 2014
 

 

 

Araldica

 

Un cane fu sepolto vivo

sotto lo sguardo inorridito dell’infanzia.

Acquattato nella fossa

quietamente uggiolava

mentre il padrone infieriva a colpi di vanga,

a colpi di scarpone,

e con palate di terra soffocava

gli ultimi guaiti.

 

Ancora mi schiacciano il cuore, quelle

palate di terra.

 

Non posso più combattere.

 

Per un fuoco di paglia

per una ciotola d’acqua sporca

per un tetto di sterco,

barattai armi e ragioni.

 

A chi chiedere perdono,

se pensai allora d’avere una sola vita?

 

Non a me: mai mi perdonerò

per aver smesso di credere.

 

A te, amore infelice, infelice

amore mio?

 

No, non a te.

Non mi tendesti la mano

quando t’implorai di farlo.

Mi sarebbe bastato il tuo mignolo!

 

Alla tua mente acuta,

diamantina?

 

No, non chiederò perdono alla tua

finissima intelligenza.

Tarantola mortale che entrambi ci ha imprigionati

nella sua tela stregante.

 

Al tuo cuore, chiedere perdono?

 

No, il tuo cuore ha servito l’inflessibile,

crudele intelligenza.

 

Al tuo corpo!

 

Sì, amato corpo dell’amato mio!

A te, chiedo perdono!

A te, per tutt’e due.

 

E al corpo mio, al corpo mio

di donna, vulcano e sorgente,

fiore e frutto, profumo e vento!

 

Oh, il corpo tuo!

Le dita. Le mani. I capelli.

La fronte. Gli occhi.

La bocca,

che sapeva respirarmi tutta.

 

Le spalle. Il petto tuo. Le braccia.

I tuoi fianchi.

Le tue gambe.

Le tue reni.

Il capo tuo, indomàto.

 

I tendini. Le vene. Le ossa.

I battiti. Gli arresti. I sospiri.

I respiri.

La voce. I silenzi. Gli sguardi.

I palpiti.

I tremori.

 

Il riso (oh il ridere tuo, che nasceva

da dentro! quando arrivava alla tua bocca,

lo bevevo!).

Le ciglia.

L’odore tuo, di te.

 

Le forme.

Le linee.

Il petto tuo.

I tuoi capezzoli (“oh li sento, attraverso

la camicia! Si ergono, come i miei!”).

 

Il nome tuo.

L’amore tuo (“faremo l’amore come tu vuoi,

ma anche come piace a me!”).

Oh, tu non hai imparato mai l’amore mio,

tu non m’hai insegnato mai

l’amore tuo!

 

Mai e mai più, per mai più!

 

Il modo tuo di toccarmi.

Di toccarmi con gli occhi, con la mente,

con l’anima, con le vene.

Il modo tuo di toccarmi in ogni modo

senza toccarmi in alcun modo!

 

I tuoi polsi.

Le tue caviglie (“oh, io non visto

mai le tue caviglie!

Non ti ho mai guardato i piedi.

Come sono i tuoi piedi?”).

(“Ho cinque dita in ogni piede”).

 

(“Io non ti ho mai visto dormire”.

“Io non ti ho mai vista svegliarti”).

 

Anima mia. Corpo del mio uomo.

Non posso pensarci.

Abbiamo afferrato l’amore

e il senso d’ogni cosa.

E ancora, per sempre ancora,

ogni cosa è senza senso.

 

L’amore non ha diritto ancora di esistere,

o il tempo dell’amore non è esistito mai

e mai esisterà?

E perché?

Il dio è geloso?

Ma cos’è il suo universo,

l’eternità, in confronto a un attimo

d’amore?

 

Sei geloso, dio?

Che t’ingoi intero l’universo

e ti risputi uomo!

Per soffrire, come un uomo.

Per lottare come un uomo,

per arrivare a godere dell’amore

d’uomo.

 

Piangi con me, cielo. Con me. Per me.

Le lacrime mie non mi bastano più.

 

Come fune d’acciaio più volte

annodata, il reticolo di nervi

mi sta dilaniando.

 

Perdono.

A te chiedo perdono,

ventre mio di donna.

Perdono chiedo a voi, membra

mie e membra del mio amore,

ghiacciate e inerti.

 

(Le unghie. Le ossa.

La pelle, i pori, i nei.

Ogni cellula ch’è universo)

 

Insieme. Insieme in noi.

 

Per un paradiso che sia semplicemente

il mondo.

 

È stato un turbine.

Mi ha travolta, prostrata,

non mi ha redenta.

Sono stata la bocca spalancata nell’urlo

d’una umanità irrisolta.

 

Ridicola sfida.

 

Come un lupo ha ululato il corpo

mio, ritorto sulla sua stessa fame.

 

Due lupi siamo, amore mio.

 

Non più feroci:

in tregua.

In sospensione di lotta.

In attesa del perpetuo abbraccio.

 

Maria Lanciotti

(Inedita)


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