Quando compii quindici anni – periodo in cui occupavo il mio primo posto come umile impiegato – mio padre mi fece un regalo singolare. In quel giorno mi convocò nella sua stanza da infermo. Con voce resa stanca dagli anni, mi disse:
– Figlio mio, ho camminato per tutta la mia vita. Molto prima di compiere gli anni che oggi tu compi, cominciai a camminare per quelle strade. Prima lo feci da corriere: così cominciamo e terminiamo noi della nostra famiglia; più tardi occupai un posto in uno studio; anni dopo mi sposai con tua madre, fui maestro di scuola, volli migliorare e frequentai gli uffici dei ministri; vennero i figli, le necessità furono maggiori e il camminare si fece più spietato. Quando caddi finalmente in questa poltrona per non alzarmi più, ammazzai il tempo ricordando il movimento delle mie gambe per lunghi anni per le strade della grande città. Ricordando e ricordando, vedendo le mie gambe in tali anni per tali strade, pensai che la sola giustificazione per quelle tristi peripezie sarebbe stata poter sapere il numero di chilometri percorsi. Pensa che ho un gran rimorso, un sacro dubbio con me stesso. Se almeno avessi potuto, di fronte al fallimento della mia vita, presentare un’attenuante alla colpa; leggere con voce esultante in questa stanza di morte il numero esatto di chilometri percorsi da queste gambe! Non credi che sarebbe stata come una sorta di apoteosi?
Si guardò le gambe; io piangevo commosso. In quel momento entrò mia madre e vedendo il mio volto bagnato di pianto chiese se avessi commesso qualche mancanza. Mio padre, con sorriso celestiale, le assicurò che si sbagliava, che il mio pianto era dovuto al timore naturale che tutti abbiamo di fronte a una situazione sconosciuta. Una volta che lei si fu ritirata, mio padre aprì il cassetto di un mobile che era alla sua portata. Da lì estrasse un oggetto circolare molto simile a un giocattolo.
– Vedo dall’espressione del tuo volto che stai pensando che sto per regalarti un giocattolo. No. Niente di tutto questo. Devo tenere ben presente che la sola cosa che ti sarà consentita d’ora in avanti sarà camminare e ancora camminare. Camminerai senza sosta fino a cadere stremato nella corsa. Non voglio nasconderti niente; se ti parlo chiaro, se sembro crudele è perché voglio salvarti dal rimorso degli ultimi giorni. Guarda – e mi allungò l'oggetto. – Ho qui la tua giustificazione.
Presi con mani tremanti quel misterioso manufatto, non più grande di un orologio da tasca. Proprio come un orologio, aveva una sfera, ma sopra non apparivano disegnati i numeri. Sconcertato, lo girai e lo rigirai tra le mie dita. Infine, mio padre, vedendo la mia costernazione, disse:
– È un contachilometri.
E non senza un certo orgoglio aggiunse:
– L’ho costruito con le mie stesse mani. Guarda, ogni passo che faranno le tue gambe sarà misurato da questa efficace invenzione – restò un momento silenzioso e quindi proseguì: – Il giorno che le tue gambe non riusciranno più a trascinarti, sia perché il tempo le abbia sconfitte, sia perché un incidente ti abbia inchiodato definitivamente a letto, sia perché un colpo di fortuna ti favorisca (ma no, quest’ultima cosa non è possibile, la fortuna non è fatta per te), quel giorno, dico, alza questo coperchio che adesso io sollevo – vidi come le sue dita ossute sollevavano, in effetti, il coperchio, – e potrai leggere il numero di chilometri che le tue gambe hanno percorso nella tua vita. I tuoi dubbi, le tue angosce si calmeranno con una lettura così rivelatrice: allora potrai morire giustificato!
Caddi in ginocchio e abbracciai le sue gambe. Anche se ero molto giovane e non potevo misurare esattamente la grandezza del dramma, non per quel motivo mi rattristava meno la definitiva condanna di mio padre, condanna ancora più aspra se si considera che, al tempo stesso, lui si dava da fare per la mia totale giustificazione.
Mi ordinò di denudarmi (e dico che me l’ordinò, perché in quel momento la sua voce fu come quella di un re che pretende vassallaggio). L’ordine era così tassativo che mi tolsi i vestiti.
– Figlio mio – e mi contemplò a lungo, lasciando scivolare il suo sguardo verso le mie gambe, – in questa data solenne dei tuoi quindici anni, io ti decoro con l’ordine del Gran Fallimento – e così dicendo e facendo mi mise dalla parte del cuore, legato con una fascia, il funebre manufatto.
Respirò profondamente, e come per terminare con una scena che per lui doveva essere estremamente penosa, aggiunse queste ultime parole con voce spezzata:
– E non dimenticare di caricare l’apparecchio ogni mattina. Che quello sia il tuo primo atto del giorno. Da questo momento forma parte della tua stessa esistenza. E adesso, vattene tranquillo a camminare...
(Da: Virgilio Piñera, Cuentos fríos, 1956)
Traduzione di Gordiano Lupi