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Riccardo Cardellicchio. La ragazza del paese dei calanchi
24 Luglio 2009
 

Mi disse, un giorno, il piovano, quando mi sorprese a guardare l’Elvira, che passava con la brocca dell’acqua sulla testa, di ritorno dalla fonte del bosco delle Purghe: – Dà esca al fuoco, quella.

Ero nell’età ingrata. L’età delle fantasie, dei sogni. Che consumavo nei campi.

Io, libero, volavo oltre i muri marciti, i genitori impegnati a ridare dignità alla vita, alla nostra vita, per vent’anni nel limbo imposto. Libero, io, con la fantasia a conquistare spazi, avventure impossibili, vincitore sempre, il trionfo goduto sotto gli occhi di tutti.

Hanno ammazzato l’Elvira nel bosco delle Purghe –, urlò una donna. Era il Corpus Domini.

Me l’avessero date a sangue, avrei patito di meno.

Feci per andare, il cuore un colpo dopo l’altro, rapidi, duri come martellate...

Mi dissero che non potevo, che non era spettacolo per me.

Rimediai passando da un capannello all’altro. Non perdendo una parola. E cercai, anche dentro di me, una risposta alla domanda scontata, ripetuta fino all’ossessione: “Chi ha potuto tanto?”

Dissero, dopo qualche giorno: “È stato il fidanzato, l’Ugo”. Un contadino giovane, famiglia senza fronzoli, una vita di lavoro.

Non riuscii a odiarlo. Quando me lo trovavo davanti, dicevo: “È una pasta di ragazzo”.

Non ce lo vedevo nella parte dell’assassino.

Accecato dalla gelosia?

Non ci credevo.

Non poteva essere.

C’era qualcosa d’altro, di diverso. Doveva esserci.

Che non venne mai fuori.

Ugo fu processato, anni dopo, e assolto per insufficienza di prove.

Che festa in paese.


Non ricordo più chi se n’andò per prima: se la famiglia d’Ugo o quella dell’Elvira.

So che quel pugno di case, in mezzo ai calanchi, diventò un’altra cosa dopo quel Corpus Domini.

Si stava più chiusi in casa. Non s’aveva voglia di parlare. Come parlavi, tanto il discorso cascava sempre lì. Sulle aie non si fece più festa.

Io andavo spesso al cippo, posto sulla strada, con la foto di lei. Bella. Un sorriso che non potevi far finta di niente. E gli occhi neri. Neri come i capelli lunghi.

Andavo anche al cimitero, sulla sua tomba. E ci lasciavo un fiore di campo. Uno.

E anche lì c’era la foto, quella foto.

Quando se n’andò, la famiglia dell’Elvira, decise di portare anche lei. La dissotterrarono e la trasferirono altrove, nel cimitero del paese dove avevano deciso di prendere casa. Per rompere con il passato. Cambiare vita. Completamente.

Quando c’entra il veleno, in un paese, è la fine.


Un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro. La gente s’abbracciava e diceva: “Dobbiamo andare”. “Non c’è più vita qui”. “Ci rivediamo”. “Dobbiamo rivederci”.

È duro rimanere –, diceva mio padre, che non aveva più l’età per entrare in una fabbrica, caso mai alla Piaggio.

Morì sotto un olmo, serenamente.

La mi’ mamma lo pianse per un mese a diritto. Poi disse che in quel modo non si sarebbe andati lontano. Si rimboccò le maniche e disse che bisognava continuare a vivere. Con dignità, aggiunse. Il podere non poteva aspettare i nostri comodi.

È morta vecchissima.


Ci sono giorni che passo ore sull’uscio ad ascoltare il silenzio, ingoiando bocconi di ricordi, che la memoria tira fuori con prepotenza.

Mi dicono, spesso, che non dovrei. Che così rinuncio al meglio della vita. Scòto la testa. E rispondo che no, che non è così. Che è l’inverso. Tutto sta a capire cos’è la vita.

Io l’ho intesa così. L’intendo così.

A ogni notizia d’una partenza, a ogni abbandono, dicevo: “Ma dove vai? C’è tutto di te, qui”.


Nel pomeriggio, con qualsiasi tempo, vo al cimitero – piccolo, un francobollo – sulle tombe de’ mi’ genitori e de’ mi’ nonni. È tutta lì, la mi’ gente. Ma non trascuro le altre tombe. Non mi va di vederle abbandonate. Sono morti che conoscevo, parenti di gente che conosco, che ogni tanto incontro. Quando viene su per le feste e per Ognissanti.

Poi mi metto sul muretto del ponticello, che mostra i suoi anni, e incuria. Io, ogni tanto, m’azzardo in un rattoppo. Poca cosa. Ci vorrebbe un intervento risoluto. Ma vaglielo a dire, a quelli del Comune. Fanno spallucce. Non si spendono soldi in un paese che ha un solo abitante, un testardo, uno – insistono – che è contro la logica. Uno che ha scelto d’ammuffire in solitudine.

È terra di calanchi, questa. Di botra. E Toiano delle Botra si chiama. Anche per distinguerlo da Toiano di Vinci.

Uno spicchio di Valdera. Fuori mano. Per arrivarci, da Palaia, ci s’infila in una strada stretta, dioneguardi se becchi una buca.

Toiano delle Botra.


Che ci facciamo te e io, qui? –, mi disse il piovano, l’ultimo, tant’anni sulle spalle. Ridotto su una sedia. Anche lui senza più nessuno. E un parrocchiano soltanto, il sottoscritto.

Io so che farci qui, piovano. Ma lei? Non ci sono più anime da salvare, se non la mia. Che ce ne vòle.

Io sono un peso –, dice lui sconsolo. – Non voglio finire in qualche casa di riposo in mezzo ad altri preti, a fare discorsi da preti smessi, né in un convento di suore troppo premurose. Basti te per quel poco di cui ho bisogno.

Già, io.

Fu lui a correre al bosco delle Purghe, tra i primi, e a vedere il corpo scempiato dell’Elvira.

Fu lui a consolare la famiglia di lei. E il fidanzato. E il paese, che si trovò di fronte a un fatto incredibile, un omicidio. Ed ebbe paura.


Aveva vent’anni, la bella Elvira, e la faceva girare – la testa – agli uomini. Giovani e anziani.

La guardavo e mi dicevo: com’è bella. E se pensavo ch’era d’un altro, mi veniva il magone, come se avessi avuto l’età di farci un pensierino. Eppoi sbottavo: non dovrebbe essere di qualcuno.

C’erano sere, sull’aia di casa sua, che non ci si girava, tanti ce n’era, di uomini. Venuti lì per lei. Con la scusa del ballo, di fare quattro salti dopo le fatiche nei campi. Fisarmonica e chitarra senza sosta.

Battute.

Risate.

Allusioni.

E gli occhi, tutti gli occhi, su di lei.

Con chi balla, ora?


Una mattina, lo chiamo, il piovano. Non risponde. È sul letto, la faccia immiserita da una smorfia... È mezzo morto. Mi ce ne vòle per farlo portare all’ospedale.

Dura due giorni.

Fu la Curia a pensare ai funerali.


Un pastore, che viene su di primavera, uno che gli togli una parola di bocca a ogni morto di papa, s’è lasciato andare e m’ha detto che non sa come fo a vivere qui solo. Lui c’è abituato, a stare solo, deve starci per lavoro. Ma io? Io non sento il bisogno di stare con gli altri?

La risposta – gli dico – me la sono data quando ho capito quanto sono attaccato a queste case antiche, a questi calanchi, a questi boschi. Li sento nel sangue, nel cuore. E qui – ma questo non glielo dico – c’è il ricordo di lei, della bella Elvira. Il sogno.

Voglio continuarlo, il sogno.

E mi batterò contro i vampiri di memoria.

S’aggirano da queste parti. Li ho visti. Pensavano, forse, d’averla fatta franca. Sono venuti anche di notte. Ma la notte è mia amica. Sento chi l’abita e chi la corrompe.

Nella notte, i sussurri sono urla. E li ho sentiti parlare d’un progetto, del proposito di trasformare il paese in un villaggio di vacanze per stranieri.

Ho scritto al sindaco, il cuore indurito. Gli ho scritto un no grande quanto una casa.

Non si può cancellare una storia.


Riccardo Cardellicchio


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