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Riccardo Cardellicchio: Fermate La Pira. Romanzoweb a puntate. XV
28 Febbraio 2009
 

222.

Braibanti si becca nove anni di reclusione per plagio. Plagio di persone. Ha plagiato – secondo i giudici – i suoi allievi.

M sembra tutto così assurdo. L’Italia è assurda. Viaggia su più binari e a velocità alternata.

S’ha un bel dire che è una società in trasformazione. Ci sono troppi comportamenti che appaiono retaggio del passato. E la presenza del papa non facilita le cose.

Cerco Barbara. Non la trovo. Lascio un messaggio alla segreteria di redazione. E’ molto (troppo) che non ci sentiamo.

Nella mia giornata, fatta di noia, cerco di mettere insieme storie. Non voglio perdere l’abitudine di scrivere. Collaboro con qualche rivistina. Rebecca è andata a Ostia con Aurora. Non era il caso di seguirle.

D’agosto raggiungo la casa dei miei. L’ho trascurata e si vede.

In tutte le stanze sento l’odore della mia adolescenza. E vengono a galla delusioni ed errori.

Cerco nuovamente Barbara. Niente.

Passo una settimana in paese, da estraneo ormai. Poi mi trasferisco in Versilia. A Fiumetto. Bagno Bianca.

Ho preso una camera nella pensione Bellavista. Vita da spiaggia, in solitudine. Numerose letture. Numerosi appunti su possibili trasmissioni di storia. E racconti.

Avevlo raGIONE. L’Unione Sovietica non poteva tollerare più di tanto la Primavera di Praga. Le truppe del Patto di Varsavia invadono il Paese. Fine d’un’illusione.

La forza on ammette ragione. O la debolezza?

Il potere non accetta la libertà.

Sai che m’importa se il giorno dopo il festival di Venezioa viene contestato da registi e attori. Oggi si contesta tutto.

Avessimo la forza di proporre alternative.

Non l’abbiamo.

Ci beiamo riempiendoci la bovva di slogan. Il più praticato è la fantasia al potere. Non mi sembra un granché.

Nsisto nel cercare Barbara.

E la trovo, finalmente.

Non ha grande entusiasmo.

“Ciao, come stai?”, dice.

“Bene. E te?”

“Me la cavo.

“C’è qualcosa che non va?”

“Il lavoro”.

“Nel senso?”

“Forse devo lasciare.

“Perché?”

“Il giornale è in affanno”.

Hai alternative?”

“Una mezza parola con La Stampa”.

“Non sarebbe male. Anzi.

“£Sì, non sarebbe male”.

Non è la Barbara cvhe conosco. “C’è dell’altro, Barbara?”W

La domanda la spiazza. Non risponde subito. “Non è il caso di parlarne ora”.

“E quando?”

“Già, quando. Siamo lontani. E non abiamo fatto niente per non farla pesare, questa lontananza”.

Hai un altro?”. Lo chiedo d’un fiato, sereno.

Nuovo silenzio. Lungo più del precedente. “In pratica, no”.

“Che vuole dire?”

“Vuole dire che un collega mi corteggia”.

“E te?”

“ Cosa pensi che faccia, io?”. Ha alzato la voce. “Lo saprei se non mi trovassi di fronte al tuo comportamento. Che c’è più tra noi? Mi chiedo enon so rispondermi”.

“no, no, calma. Non devi fare così. Non devi sentirti condizionata da me, da quello che c’è stato tra noi”.

“Non pensi che una potrebbe avere dei sentimenti? Non è una questione di letto, e basta. Ala nostra età, poi”.

“le cose cambiano”.

“Oh, se cambiano. C’è chi sa farle cambiare. Eccome se sa farle cam,biare. Che ne dici?”

L’accusa è pesante. “Ce l’hai con me e, forse, hai ragione”.

“Forse?”

“Forse”.

“ Dio mio, Claudio. Non riesci a renderti conto”.

“Ho capito. Non credo che si sia in condizioni d’andare oltre”.

“Sì, è vero. Grazie, grazie di tuttio. Opra so cosa fare”.

Mette giù. Il telefono è terribile. Non si possono avere conversazioni importanti al telefono.

Barbara. Ho approfittato della lontananza per trascurarla. Non  le ho mai mandato un segnale d’attaccamento, che lasciasse almeno un baluginìo di spranza per una vita insieme, anche se costretti a stare lontano per lavoro. Ma chi vuole stare insieme veramente fa di tutto per starci. Io non ho mosso foglia. Anzi, mi sonmo fatto distrarre da Rebecca.

 

223.

A Città del Messico oltre cento morti. Un massacro a Tlatelolco. L’essercito ha sparato su una manifestazione studentesca. Oriana Fallaci, la giornalista dell’Europeo, è stata ferita in modo serio. Non mi rimane simpatica, confesso. Troppo protagonista. Prima viene lei, poi la notizia, poi l’inervistato. Con lei impera l’io. Il noi non esiste. Le regole del giornalismo non esistono, ne fa polpette.

Ma è brava. Devo ammetterlo. E’ brava. Arriva dove altri non arrivano. E ha una scrittura incisiva, graffiante. T’inchioda. Non puoi smettere di leggere anche se non sei d’accordo. E, spesso, non lo sono.

Con  Francini parlo spesso di trasmissioni di storia, ma non riusciamo a far decolare tutte quelle che vorremmo.

Mi macero. Vorrei cambiare settore. Sarei disposto ad accettare anche A come agricoltura.

Ebecca capisce il mio disagio.

Ogni tanto, quando siamo soli, mi passa una mano tra i capelli, che stanno diventando sempre più radi.

Non abbiamo molte occasioni per stare insieme. Aurora è sempre presente. E non ci va – la pensiamo allo stesso modo – di metterla a parte della nostra relazione.

Dopotutto, a me, va bene così. La bacchettata di Barbara continua a farmi male.

Le notizie sommergono tv, radio e giornali.

Nixon è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Che ci fa un personaggio come lui a capo della nazione più importante del mondo? Non sono mani giuste, le sue.

Ad Avola, i braccianti scioperano. Interviene la polizia. Spara. Due braccianti muoiono e cinquanta rimangono feriti.

L’apertura della Scala è presa di mira da alcuni studenti. Lanciano uova e e ortaggi  contro donn e impellicciate.

Contestazione ovunque e in ogni momento. Anche l’ultimo dell’anno. In Vesilia, a aria di Pietrasanta, La Bussola è al centro della contestazione del movimento studentesco di Pisa e di militanti di Potere Operaio. Intervengono, puntuali, le forze dell’ordine. Lo fanno in maniera massiccia e dura. Esagerata. Spara ad altezza d’uomo. Soriano Ceccanti, sedici anni, studente, è raggiunto da un proiettile che lo ferisce gravemente. Perde l’uso delle gambe.

E’ un consuntivo pesante, quello del 1968. Sfoglio un giornale che riassume i fatti. Mi rendo conto di quanti mi siano passati sulle testa. Come ho fatto a ignorare la morte di Giovannino Guareschi e Mario Pannunzio? E’ morto anche Padre Pio da Pietrelcina, che tutti dicono santo. E Salvatore Quasimodo, il Premio Nobel. E Antonio Pietrangeli, il regista. E Vittorio Pozzo, il commissari tecnico della nazionale italiana, di due vittorie ai mondiali di calcio.

Rebecca dice che Aurora è fuori con le amiche. “Stiamo insieme?”.

 

224.

All’estate dei carri armati, in Cecoslovacchia, è subentrato il silenzio. Un silenzio vivo, lo definisce il quotidiano Il Giorno. Un silenzio misto ad angoscia.

Sono i giovani a mettersi in evidenza.

Hanno deciso di farlo con un gesto estremo, per attirare l’attenzione del mondo sull’occupazione sovietica, sul male che ha provocato l’invasione dei tanks, d’agosto.

Tra  quei giovani c’è Jan Palaci. In piazza Venceslao, a Praga, si cosparge di benzina e si dà fuoco.

Non ha scampo.

Ha voluto fare come i bonzi.

Un gesto che raccapriccia.

Che cancella quel che i sovietici vorrebbero far credere: che l’occupazione è avvenuta per volontà popolare.

“Io – ha lascato scritto Palaci – ho avuto l’onore di essere estratto a sorte per primo, di cominciare a essere la prima torcia”.

Ventuno anni, studente di filosofia.

Impressione enorme.

Il segnale della disperazione.

Un milione di persone ai funerali.

Meno male che il regime decide di stare a guardare.

Palaci ha detto la verità. E’ stato la prima torcia.

Altre ne arrivano, suscitando orrore.

Ungheria e Polonia non hanno insegnato niente ai sovietici.

Dice, Rebecca: “Per me, è segno di debolezza”.

Anche per me. Quando s’arriva al punto di sottomettere un popolo con la forza, vuole dire che non si hanno altri strumenti efficaci per convincere sulla bontà della nostra azione politica.

Rebecca è arrivata a  convincersi che è bene dire ad Aurora come stanno le cose tra noi due.

Io non ne sono convinto. Anche perché non so bene cosa provo per Rebecca.

I Beatles tengono il loro ultimo concerto a Londra, sui tetti della Apple.

Aurora stravede per loro.

“Allora?”, mi chiede Rebecca.

“No, meglio di no. Lasciamo passare ancora un po’ di tempo”, dico, e mi sento vigliacco. Non è la prima volta che mi succede.

“Ho capito”, dice Rebecca. E si fa di ghiaccio.

 

225.

Per Pasqua – è il 6 aprile – sono a Firenze.

Sindaco è Bausi. Non è un grande sindaco.

Sono a Firenze sull’onda dei ricordi.

Poi Firenze, di primavera, ha un fascino particolare.

Chiedo notizie di La Pira, ma non sanno darmele.

Vagabondo in cerca di qualcosa che non c’è più. Sono tentato ricercare Lucia, ma è un attimo. Allora opto per la sede Rai. M’accolgono con sorrisi.

“Perché non torni?”, mi chiede una collega.

Vorrei rispondere: non mi parrebbe il vero, almeno tornerei a sentirmi utile, vivo. Invece mi limito a sorridere.

La colombina fa la brava. E tutti pensano al meglio.

Da Firenze mi sposto alla casa dei miei.

Una vicina mi dice che i ladri hanno tentato d’entrarci, ma lei e suo marito li hanno fatti scappare. La ringrazio.

“Perché non l’affitta? Ci sarebbe mia nipote interessata”.

“No. La tengo per avere il pretesto di tornare. Ne ho bisogno”, rispondo.

 

226.

I giovanii – universitari, provenienti da architettura – invadono via del Corso, diretti a piazza del Popolo. Gli slogan sono pesanti. Ma non vanno oltre gli slogan.

Vogliono sfogarsi. Vogliono parlare in piazza del Popolo.

Ma la polizia non lòo accetta. Non lo capisce. E carica.

Provoca la reazione.

C’è rabbia nei giovani.

Non ci va per il sottile, la polizia.

Alcuni agenti paiono nervosi. Quasi spaventati. Gente non all’altezza.

Hanno detto loro che quella manifestazione, non autorizzata, l’hanno organizzata gli estremisti rom,ani di sinistra, gente violenta. E qualcuno spara ad altezza d’uomo. E qualcun altro lancia la camionetta sul mucchio.

I lacrimogeni fanno il resto.

Caos.

Urla.

Insulti.

Un giovane e una giovane rimangono a terra.

“Assassini”, urlano i loro compagno. “Assassini”.

La piazza si gela.

I poliziotti si fermano.

Intorno ai due corpi c’è chi piange, chi guarda muto, incredulo.

La notizia arriva in redazione un’ora dopo, portata da un ispettore.

Rachele diventa pallida e sviene. Accorriamo.

All’ispettore chiedo cos’è successo. Risponde imbarazzato: “La figlia della signora è morta durante una manifestazione di studenti a piazza del Popolo”.

“Com’è morta?”, chiedo, mentre Francini s’attiva per arrivare a un medico. Rachele non riprende.

“Sono in corso accertamenti”, dice.

“Le avete sparato?”, chiedo con cattiveria.

“Non sono tenuto a risponderle”, dice guadagnando la porta.

“Siete assassini”, dico tra i denti, divorato dalla rabbia.

Arriva il medico. Rachele si riprende piano piano. Ha parole di disperazione.

M’attacco al telefono. Voglio sapere come sono andate le cose. Un amico della carta stampata mi dice che Aurora è morta sparata, mentre l’altro studente è deceduto travolto da una camionetta.

Rachele s’alza e mi tende una mano. “Aiutami”, dice.

 

227.

C’è un mare di gente – giovani, soprattutto – al funerale.

Rachele avrebbe voluto che fossero privati. Senza clamore Ma il fatto è stato troppo grosso per pensare a un funerale con pochi intimi. Per Aurora e per il ragazzo.

“Claudio, voglio seppellirla nel cimitero del mio paese. E’ lontano. Ma è quella la mia terra, la nostra terra. Anch’io voglio essere seppellita lì”. Rachele quasi m’implora.

“Non preoccuparti. Me ne occupo io”.

Non piange. Non ha mai pianto. Mi preoccupa questa reazione. Il medico di famiglia le ha dato un calmante. Ma nonm può esserne l’effetto. Ogni tanto il suo sguardo divernta terribile, crudele.

Stringe le mani con gesti meccanici, senza pronunciare parola.

“Non ne posso più”, dice a un certo punto. “Quanta falsità c’è in giro”.

“Gli amici di tua figlia non sono falsi”, dico.

“o, loro no. Loro sono vittime. Sono le vittime”, dice, il tono alterato, tagliente.

Vuole venire anche lei. Con la mia auto seguiamo il carro funebre, dopo il rito nella basilica dei santi Ambrogio e Carlo.

Ora siamo soli. Lei e io. E quella povera salma.

“Era la mia vita.L’ho cresciuta da sola con enormi sacrifici. Suo padre non l’ha mai vista. Non si è mai preoccupato di vederla. Quando l’nformai che ero incinta, scappò. Non si sentiva pronto, disse. Aveva in testa la carriera nel gioco del calcio. E l’ha fatta. E quando s’è sentito pronto per il matrimonio, ha pensato bene di sposare un’altra. Una che lo cornifica. Li sa bene”.

 

228.

Rebecca è un’altra persona. Fredda. Gelida. Silenziosa. Indifferente, quasi, al lavoro della redazione.

Anche nei miei confronti. Non sembra avere più bisogno del miol aiuto. Ho provato a invitarla a pranzo. Ha risposto di no, guardandomi come se fossi un estraneo.

Io vivo di rabbia. Che cerco di sfogare nell’unico modo che conosco. Ho comprato un ciclostile per stampare fogli pieni di rabbia. Che poi, la notte, spargo per la città. Nei loghi che ritengo più frequentati o che contino di più. Sono fogli che hanno una testata significativa: Potere al popolo. Alcuni giornali se ne sono accorti, e ne parlano. Parlano di un foglio clandestino, prodotto da un gruppo extra parlamentare molto pericoloso. Fanno paure le idee che vi vengono espresse. Incitano alla rivolta, alla violenza, all’odio. Non è così. Scrivo cose che altri, la maggior parte dei giornali, non hanno il coraggio di scrivere.

 

229.

Sono a casa dei miei, il 20 luglio, quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin sbarcano, per primi, sulla Luna. Apollo 11. Non si parla d’altro. Dura otto giorni, la missione spaziale.

Mi chiedo a cosa sia servita. Mi chiedo quanto sia costata. Mi chiedo se sia giusto buttarci milioni di dollari.

Sono anni che Stati Uniti e Russia si sfidano a colpi di missioni nello spazio.

E’ un altro effetto negativo della guerra fredda, della divisione del mondo in due.

Penso a La Pira e alle sue battaglie in nome della pace.

Sono in redazione, il 19 novembre, quando l’Apollo 12 si posa sulla Luna (molti giornali scrivono atterra e altri parlano di allunaggio) con gli astronauti Charles Conrad e Alan Bean.

Sono in redazione quando, il 12 dicembre, l’Italia è scossa dall’attentato di piazza Fontana a Milano.

Vorrebbero dietro a questo atto vigliacco la mano di un anarchico. E un anarchico prendono. Pinelli. Che si butta (o lo costringono a buttarsi?) da una finestra durante un interrogatorio. E un altro anarchico finisce in mano alla polizia. Valpreda. Accusato d’essere il killer. Il mostro.

Ho tanti dubbi e li esterno nel ciclostilato. Lo faccio con puntiglio, mettendo in evidenza le incongruenze dell’azione della polizia. E parlo di strage fascista, di una strategia che tende a tenere l’Italia sulla corda, a impaurire la gente.

I fogli clandestini – come sempre rigorosamente anonimi – finiscono sui giornali. Vengono riportati ampi stralci degli articoli. C’è chi lo fa per confutare le mie tesi.

Rebecca s’è data malata, chiedendo – tra l’altro – d’essere spostata. Le va bene anche l’archivio. Sostiene che fa fatica, che con la testa non ci sta.

 

230.

Il festival di San Remo è un insulto al buon gusto. Hanno fatto vincere una canzone che offende. S’intitola Chi non lavora non fa all’amore. L’hanno cantata Adriano Celentano  e sua moglie Claudia Mori, cantante senza voce com’è attrice senza film..

Vivo isolato.

Rebecca s’è rintanata in archivio ed è inavvicinabile. A Francini dispiace. Anche a me. Non so che farci, purtroppo.

Cerco Barbara e scopro che s’è sposata e lavora alla Stampa.

La mia giornata è fatta di poche parole scambiate sul lavoro.

A casa, mi sfogo con il  ciclostile.

Non mi dispiace il guasto alla navicella Apollo 13.

Vorrei parlare con Rebecca.

Possibile che non senta il bisogno di scambiare almeno due parole con me?

L’aspetto all’uscita.

E’ pallida. Si trascura.

“Non puoi ignorarmi”, dico.

“La mia vita s’è messa su una strada diversa”.

“Non sono un tuo nemico”.

“Il mio nemico, ora, è il mondo”.

“Capisco il tuo stato d’animo. Ma non puoi…”.

“Cosa non posso? Non devo odiare? Non devo fare di tutta l’erba un fascio?”

“Sai che ti voglio bene. E i momenti che abbiamo passato insieme non possono essere cancellati. Io li ho ancora dentro di me”. Mi guarda. Aggiungo: “Voglio che tu riprenda a vivere. Sento la tua mancanza”.

“Mi hanno ammazzata con lei”, sussurra.

“Vieni con me. Andiamo a mangiare in via del Gesù, in quell’osteria che ti piace”.

“No. Preferisco di no. C’è troppa confusione. E non ne ho bisogno, ora. Un’altra volta. Sarà per un’altra volta”.

 

231.

Giacomo Mancini è il nuovo segretario del Psi. Non se ne dice bene, in giro. E’ una notizia che non mi fa né caldo né freddo. Approvo, invece, il varo dello statuto dei lavoratori e che ci siano, finalmente, le elezioni regionali. Il potere non più tutto a Roma.

M’assale un’idea: perché non ti fai avanti per l’ufficio stampa? Non è il massimo per un giornalista, ma almeno ti togli da questo limbo. Ma non ho appoggi. Non mi va di rivolgermi a La Pira. Che conta più, ormai?

Contano comunisti e socialisti e io non so a chi rivolgermi. Non ho più, da tempo, la tessera del Pci.

Raggiungo casa dei miei Continuo a definirla così, perché m’illudo, ogni volta, di riannodare un filo che, invece, il passare del tempo logora, senza che io possa farci niente. E’ il tempo il mio grande nemico. M’incalza e non mi fa apprezzare niente.

Il 17 giugno vivo, e soffro, da solo la partita Italia-Germania Ovest che finisce 4-3. La gente, a notte fonda, sciama nelle strade. L’Italia è in finale. Si gioca il campionato del mondo con il Brasile di Pelé.

Ma è un’Italia inquieta. Non c’è giorno che non vi siano notizie tutt’altro che esaltanti.

A Reggio Calabria, all’insegna del boia chi molla, i fascisti mettono su  una gazzarra per l’assegnazione di capoluogo regionale. L’antagonista è Catanzaro.

A Gioia Tauro, sei morti e oltre cento feriti, nel deragliamento della Freccia del Sud. La polizia non trova di meglio che denunciare i macchinisti.

No, dico. Non è possibile. Lo scrivo nel mio ciclostilato. ER quelli di Lota Continua la pensano come me. E’ un attentato fascista.

La politica, quella ufficiale, non sa dare risposte concrete, chiare, credibili.

A Milano, stabilimento Sit-Siemens, trovano un volantino firmato Brigate Rosse. S scaglia contro l’imperialismo che domina ogni nostra azione, che ci rende schiavi.

Inaspettatamente, arriva una telefonata di Barbara.

“Che sorpresa”, dico.

“Ti disturbo?”, chiede.

“No”.

“Come stai?”

“me un bischero”, dico ridendo.

“Dimmi la verità”.

“e vuoi che ti dica che soffro, gte lo dico. On è che oggi abbia qualcosa, io, per non soffrire”.

“Stai con qualcuna?”

“Non ho fortuna con le donne. Meglio: non ci so fare”.

“Ti stai maltrattando”.

Da un pezzo ho preso atto d’una grande verità”.

“Ti stai facendo del male”.

“E’ il mio carattere”.

Un secondo di silenzio. Poi: “Claudio, non è andata”.

“Sì, non è andata tra noi”.

“No, volevo dire che il mio matrimonio non è andato”.

“Mi dispiace. Sinceramente”.

“Ho sbagliato a dire di sì. L’ho detto senza rifletterci su. Certi passi hanno bisogno di più sale in zucca”.

“Posso esserti d’aiuto?”

“Vengo a Roma. M’ospiti per un fine settimana?”

“Devi venire a Roma o possiamo vederci a casa dei miei? E non hai impegni, al mio paese stiamo meglio”.

“Vengo, vengo al tuo paese. Mi riporta indietro nel tempo”.

 

232.

Oriana Fallaci s’aggiudica il Bancarella con Niente e così sia. Ho un bel dire che rimane antipatica. La verità è che scrive bene e si fa leggere.

C’è Colombo al governo, ora. Ha preso il posto di Rumor. Non so cosa cambi. Non è uno spettacolo bello a vedersi.

Arriva Barbara. La trovo stanca, invecchiata. Ha più d’un capello bianco.

Ci abbracciano e baciamo come se nulla fosse cambiato tra di noi.

“E’ quel che provo per te che mi ha fregata”, dice, un mezzo sorriso sulle labbra prive di rossetto.

“Non hai creduto in me”, dico a mo’ di battuta.

“Sei un gran figlio…”.

Fa caldo.

“perché non andiamo al mare?”

“Che auto hai?”

“Un 110. Non è una lumaca. Ho abbandonato la Cinquina da un pezzo”.

“E vada per il  mare”.

“Si va a Vareggio, al Balena”.

“Non sai staccarti dal passato”.

“E’ la mia àncora di salvezza”.

“Ma prima d’andare al mare…”. E’ provocante e non so resisterle.

 

233.

Non parla del matrimonio e io non m’azzardo a farle domande.

Passiamo tre giorni sereni.

“Vorrei rimanere”, dice.

“Rimani”.

“Potessi”.

“Allora torna quando vuoi”.

“Mi stai tentando”.

“Dico quello che sento”.

“Da quanti anni ci conosciamo?”

“Sono tanti, ormai”.

“Ricordo i primi tempi a Grosseto”.

“Ogni tanto mi ci va il pensiero. Avevo ambizioni e mi sentivo stretto in quel posto. D’altra parte non potevo pretendere altro in quel momento”.

“E ora?”

“Ora sono un fantasma che s’aggira in un luogo immenso senza che qualcuno se n’accorga”.

 

234.

Roma non parla d’altro. La storia si presta. E’ morbosa al punto giusto. Il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino ha ammazzato la moglie Anna Fallarino, una quarantenne davvero bella, e Massimo Minorenti, studente di venticinque anni. Ha usato un fucile da caccia, che poi ha rivolto contro se stesso.

Era un triangolo consenziente. I settimanali pubblicano le foto di lei nuda e in posizioni provocanti. Foto scattate dal marito. Foto di un gioco messo su da un impotente. Che poi deve essersi guardato allo specchio e aver concluso che quella non era una vita decente.

Rebecca viene a trovarmi in redazione.

“Sei libero stasera?”

“Sì”.

“Andiamo a mangiare fuori?”

“Con gioia”.

 

235.

Francini mi chiede se me la sento di rimettermi in gioco come cronista.

“Accidenti, sicuro che mi va”, rispondo emozionato.

“Al telegiornale”, precisa Francini.

“Diomio, è un bell’impegno”, dico.

Non so che incarico ti dànno, ma te accetta comunque”.

“Stai sicuro”.

“E’ una buona soluzione. Qui la produzione ristagna e non voglio che ti senta mortificato”.

Lo racconto a Rebecca che si mostra contenta. “Esci dal limbo”.

Mangia poco. E lo si vede. E’ dimagrita.

“Non puoi andare avanti così. Devi reagire. Lo so, faccio presto a dirlo, io. La perdita di un figlio è il dolore più grande che una donna possa avere. Ma non puoi reagire concludendo che la vita non ha più senso”.

“Non farmi la predica. Prendimi, ora, come sono. E’ già tanto che sia qui con te”.

Da via del Gesù a via dell’Oca, dove ho casa, non c’è molto. Non è lontana neanche piazza del Popolo. E vorrei evitarla. Rebecca, invece, decide d’entrare in piazza e di arrivare fino alla colonna, in pratica al luogo in cui la figlia è morta.

“Volevo venirci da giorni”, dice. Poi si dirige verso via dell’Oca. “Posso salire?”

“Certo”.

Si siede nel tinello. “Ti sei sistemato bene”.

“E’ una casa da scapolo disordinato”.

“Non hai nessuno per le pulizie?”

“Sì, viene una pensionata ogni due giorni. Sono la sua croce”.

“Ti dispiace se dormo qui?”, dice all’improvviso, come se seguisse un suo pensiero.

“No. Anzi”.

“Non chiedermi di fare l’amore”.

“Non te lo chiedo”.

“Decido io”.

“D’accordo”.

Decide a notte fonda. Con passione straordinaria. Con furore.

 

                                                                        Riccardo Cardellicchio

 

 

 

 

 

Fine quindicesima parte


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