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Moonisa: Una tra le infinite dimensioni del creato
Abuja: Airport
Abuja: Airport 
18 Maggio 2008
 

Domenica 04 Maggio 2008 - Abuja. Mi alzo alle sette. Considerando che ieri sera ho fatto molto tardi, questa è una levataccia (nel bel mezzo di un ponte festivo rilevante). Avrei potuto dormire, mi dico, con il senno di poi e, invece, faccio un po’ di ginnastica, la doccia, lo shampo ed esco, per andare a Messa. Andare a Messa, per i Cattolici, è ritrovarsi, almeno nelle feste comandate, con tutto il ‘corpo mistico’. Andarci qui, in terra d’Africa, ha delle accezioni in più, specialmente se l’esule può andare a Messa in nunziatura, meta di altri connazionali e ritrovo ambito perché richiamo-associazione di idee (nunziatura – papa – Vaticano – Italia -patria lontana - tradizioni secolari - antenati - casa).

 

Maitama, la zona delle ambasciate e della nunziatura, ha comode strade, che girano attorno a grandi isolati pieni di giardini ‘diplomatici’. Questa zona è diversa dalle altre, che hanno vie-avenue gigantesche e senza risparmio di spazi, come le aree che le circondano e che sono angoli-Africa incolti o parchi   per la gente. Questa città, che, per molti versi, non ha nulla da invidiare a molte città occidentali; ha tutto tranne un’anima e dà a chiunque abbia denaro da spendervi il diritto di costruire e/o di ‘inventare l’acqua calda’, se gli va. Accanto alle varie moderne costruzioni, compaiono, ovunque, vere e proprie foreste di tralicci-antenne di varie dimensioni-tipologie. Chiunque voglia e possa ne innalza almeno due o tre, dando un notevole apporto alla colonizzazione degli spazi africani da parte dell’elettrosmog (che qui dovrebbe essere alieno).

Esco alle nove meno venti; nonostante la levataccia, sono quasi in ritardo, perché anche asciugarsi i capelli può essere un problema, quando la corrente va e viene. La NEPA (l’enel locale) c’è a fasi alterne e, a volte, sparisce per lungo tempo. I fortunati hanno i generatori e sopperiscono ai ‘vuoti’ della nepa  di tasca propria. I momenti del ‘change over’, comunque, creano ‘vuoti’ che, quasi sempre, riescono ad essere inopportuni al massimo.  Aprire la’mia porta’ significa aprire una cancellata interna con lucchetto, prima di aprire la porta vera e propria. Aprire e richiudere, prima di uscire, perciò, mi toglie altro tempo. Calpesto quasi un varano variopinto, davanti alla soglia di casa, nella fretta, e spavento la sua compagna che, immobile, come un bassorilievo su una delle colonne che reggono la tettoia, e intenta a corteggiare i raggi ancora gentili del sole, cade e mi manca di poco. Il profumo del frangipane, avvolgendomi, rende promettente la mattina. Il guardiano originario del Niger si affretta ad aprirmi il pesante cancello metallico marrone; guardandolo avvicinarsi, alto come una montagna nella sua palandrana, mi sento nana. Non c’è ancora nessuno seduto sulla panchetta di legno, davanti al cancello, dove, di solito, qualche steward e qualche autista fanno capannello con i guardiani. Non c’è, anzi, neppure la panchetta, che di giorno serve da sedile e di notte da letto.

   

La via che divide il nostro compound, le varie ambasciate laterali e quelle di fronte, è larga e comoda. Ha marciapiedi asfaltati separati dalla carreggiata per mezzo di una siepe. Dicono che questa zona sia sicura e io così mi sento, mentre mi avvio lungo il marciapiede destro, passo davanti ai boys’ quarters e al generatore acceso, che romba, come sempre, in modo assordante. Ogni abitazione che si rispetti, qui, è dotata di tali ‘quarters’, ovvero di varie stanze, con servizi in comune: gli alloggi degli autisti e degli steward. I Nigeriani che lavorano per chi offre tale accomodation sono fortunati, perché coloro che non hanno alloggio, dalle 18.000 naira (180 mila delle vecchie lire italiane) che guadagnano, devono toglierne 10.000 di affitto, per locali senza luce e senza acqua, per raggiungere i quali devono impiegare quattro ore e dai quali devono partire alle quattro del mattino per trovarsi in tempo al lavoro. Lo steward che lavora nella mia casa è fra quelli fortunati. Ha alloggio (con corrente elettrica e servizi con acqua- anche calda) e tutta l’assistenza, guadagna tra le 22.000 e le 30.000 naira e riceve cibo e aiuto di ogni tipo.

    

Incontro due giovani Nigeriani all’altezza dell’ambasciata giapponese e mi godo la strada libera per un breve tratto. C’è il grande rustico di una casa in costruzione mai finita, subito dopo. Lì davanti, il marciapiede, la siepe  e ogni segno di manutenzione scompaiono. Gli ultimi bidoni della raccolta dei rifiuti sembrano sentinelle verdi, a guardia della fine del marciapiede e della siepe; un tubo sporge dal terreno ghiaioso e fangoso. Un uomo sulla trentina attinge acqua. Ha l’aria di chi stia sbrigando le faccende domestiche. Lo scheletro desolato, che non ha pavimento né tetto e guarda la strada con aperture buie di cemento annerito dalle piogge di molte stagioni, sarà casa per i reietti fino a quando qualcuno non deciderà di finire i lavori o di abbattere il tutto, per far posto ad altro, ma in Africa il tempo passa lentamente e chi trova un rifugio oggi non si preoccupa di domani.  

       

Passo sull’altro marciapiede. Due macchine fanno in tempo a suonare ripetutamente, mentre attraverso. Istintivamente mi secco, poi mi ricordo: sono ‘taxi’ non autorizzati; girano in Abuja, al posto delle motorette-taxi che il governo ha vietato di recente, sacrificandole all’aria internazionale che ha in mente per la capitale di questa nazione. Il risultato della perdita di identità non è mai buono; il risultato dell’abolizione dei taxi su due ruote è che qualche danaroso Nigeriano acquista auto appena vestite di decenza, le affida a chi non ha altre alternative di lavoro  e le mette in circolazione. Non essendo autorizzate come taxi, esse non possono sostare, perciò girano e girano e suonano, in attesa che qualche passante le fermi con un gesto e si faccia trasportare. La cosa non va a genio agli abitanti di Maitama, che prima godevano di maggior silenzio e di aria migliore. Ci sono vari baldacchini/mini capanna di tenda verde e marrone fissate ai muri di recinzione, lungo le vie; portano la scritta “police” e servono a riparare i poliziotti dalla pioggia e dal sole, credo, ma le ho viste sempre vuote, a dire il vero. Sulla destra c’è una villa-magione bellissima. Il giardino è così grande che la fa apparire piccola. L’esterno della recinzione è circondata di piante spinose dai fiori sempiterni e da un marciapiede affiancato da paletti con la scritta “no parking”. È sicuramente la dimora privata di qualche ambasciatore. Una casa scheletro mai finita le si affianca, circondandosi di un muro di cemento dall’esterno annerito dai fuochi-bivacchi dei poveri, che, non hanno trovato posto all’interno e che usano blocchetti di cemento come treppiedi per le loro lattine-stoviglie. I derelitti più fortunati, che sono arrivati primi, hanno inchiodato tavole all’apertura nel muro e acquisito il ‘diritto’ di andare, venire e vivere tra quelle rovine. Una macchina sosta nel bel mezzo del marciapiede e mi occlude la strada. Ha il parabrezza rivestito di giornali inzuppati di pioggia e fumanti nel sole; i suoi proprietari chiacchierano, seduti su un tronco tra cumuli di terra, davanti al rustico in cemento che si erge a sinistra, fronteggiando l’altra dimora dei poveri e ospitando la sua porzione di umanità dimenticata. Mi sono sempre sentita inutile, non potendo dire a tutta questa gente: venite con me, c’è un posto a tavola per voi nella mia casa e un letto per dormire.

   

Aggiro la macchina. Sul marciapiede, due donne, trebbiano il mais, come se fossero sull’aia del loro villaggio; non trovando angoli puliti e pianeggianti nel cantiere-rudere che hanno occupato, hanno portato un po’ di benvenuto folclore e di odore pulito sull’asfalto cotto dalla calura africana. È una scena inusuale e rara, perché, in Abuja, la vita dei poveri si svolge in sordina e senza possibilità di affiancare alle recinzioni delle case vere i bugigattoli di latta (stanziali e commerciali) o i ricoveri di stracci e cartone (caratteristici e tipici nelle città nigeriane come, per esempio, in Kaduna).

Da lì in poi, cammino al centro della strada, all’esterno della siepe, poiché il marciapiede è interrotto da un cumulo di terra ammonticchiata, spiacevole da calpestare. La via della nunziatura è già affollata di auto lussuose ovunque parcheggiate. Il marciapiede è solo sul lato sinistro della strada; gira attorno a ville coloniali imponenti e sfocia all’ingresso dell’ambasciata vaticana. Mancano dieci minuti alla messa; strano: i cancelli sono già chiusi. Mi fermo e attendo che uno dei guardiani apra: dalla guardiola, con finestra dai  vetri scuri appoggiata su un davanzale di marmo, possono vedere, non visti, i visitatori fermi davanti al piccolo cancello pedonale e imprigionati tra la guardiola e il muro,. Nulla accade. Un Nigeriano, con casacca e pantalone di fresco di lana grigio-azzurro e con il messale in mano, arrivato dopo di me, si guarda attorno, interdetto, e bussa ripetutamente al cancello pedonale, che è di metallo robusto come quello carraio. Una ragazza, bella e scura come la copertina del suo libro di preghiere, sopraggiunge e ci guarda, confusa. Altre due Nigeriane, bene in carne e accuratamente avvolte nel cotone stampato coloratissimo, tipico degli abiti locali che girano attorno alla vita e si accordano con il corpetto scollato dalle maniche bombate,  si aggiungono al gruppetto e chiedono il perché del cancello chiuso. Una delle due manifesta il suo disagio aggiustandosi ripetutamente il grande fiocco della stoffa inamidata (Ughené mi pare che si chiami), dai ricami in oro, avvolta attorno al capo. L’altra si guarda i grossi anelli che porta su almeno quattro dita. Entrambe hanno l’aria sbalordita e sembrano pensare: “Non posso credere che mi si lasci fuori come un’accattona”. Non so chi siano, ma non mi stupirei se provenissero da qualche ambasciata. Uno dei guardiani apre un infisso di ferro insospettato, sul muro, dalla parte opposta alla guardiola: si dispiace, ma ha avuto ordine di chiudere prima, perché la chiesa è già piena e non c’è più posto a sedere. Non avevo pensato di parlare, ma tutti tacciono e la mia voce si leva, mio malgrado: “Non eri tenuto ad aprire e a riferirci quanto ti è stato ordinato. Grazie per averlo fatto. Vorrei, però, che dicessi al nunzio, direttamente, se ti è permesso incontrarlo, che non mi sembra affatto cristiano chiudere la porta ai fedeli. Dicono che sia peccato perdere la messa e mancare di ‘santificare la festa’. La nunziatura di Abuja ha facoltà di cambiare le cose, a quanto vedo: chiudendoci fuori ci toglie anche l’obbligo di andare a Messa la domenica. Prioritario, a quanto pare, è lo spazio della sua chiesa (rapportato al numero delle persone che possono comodamente starvi sedute- nonché refrigerate con i condizionatori).

         

I casi sono due: o non andare a Messa non è più peccato, o ‘qualcuno’ ha il potere di decidere a chi affibbiare ‘questo’ peccato, di volta in volta. Il primo caso costituirebbe, per la chiesa di Roma, una sorta di disfatta, perché, allora, la gente vedrebbe la necessità di lasciare qualunque impegno per accorrere al suono della campana e diserterebbe le chiese. Il secondo caso è inaccettabile da parte di chi, essendo ‘accorso al suono della campana’ ed essendo stato scacciato dalla ‘mensa imbandita’, non ritiene di aver commesso ‘il peccato’. Il peccato, dunque, ricadrà sul ‘qualcuno’ che ha deciso di chiudere fuori i fedeli e la cosa accadrà regolarmente tutte le domeniche… Il numero delle domeniche moltiplicato per il numero dei ‘rigettati’ produrrà un numero impressionante di ‘peccati’ (che si accumuleranno sull’anima di quel ‘qualcuno’ e che lo accompagneranno in ogni Messa… - mentre dovrà ‘celebrare’ il sacrificio ripetuto di Cristo che si offre come Agnello sacrificale- consacrare il pane e il vino, perché diventino il corpo e il sangue di Cristo- distribuirli ai ‘fedeli’ convenuti alla celebrazione…). Tutto ciò, se non è strano, è quanto mai singolare, no? Mi domando se il papa ne sia a conoscenza. La chiesa, che io sappia, è la casa di Dio e non chiude le porte a nessuno dei fedeli, anzi le spalanca più che può e s’ingegna perché il numero di essi si faccia fiume e poi mare, possibilmente. Non si è mai visto che le chiese contino i fedeli e mettano i guardiani alle porte, come le discoteche. Le chiese, se i fedeli sono tanti, spalancano le porte e non rimandano nessuno a casa ‘rifutato e scacciato’. Questa è una cosa grave, dillo al nunzio da parte mia. Le porte delle chiese si lasciano aperte. Chi non trova posto dentro segue la Messa da fuori. Nessuna chiesa ‘scaccia’ i suoi fedeli. La chiesa che lo fa non è la casa di Dio. I ‘discepoli’ hanno ricevuto lo Spirito Santo, perché fossero in grado di essere ‘mandati’ ad evangelizzare il mondo intero (non un’elite di pochi). Le ambasciate vaticane sono ‘gli avamposti’ a cui ‘i discepoli’ sparsi nelle varie nazioni devono poter guardare. Sono l’esempio cui essi devono potersi ispirare (o, almeno, questo è ciò che io credevo dovessero essere…); se fossero soltanto ‘ambasciate’, ove la Messa si dovrebbe celebrare come un ‘optional’ destinato a pochi ‘privilegiati’, allora… tutta la visione del cattolicesimo cambierebbe. Credevo che le nunziature fossero ‘la lampada sul moggio’ del Vangelo nel mondo; se così fosse, dovrebbero ‘chiamare’ più gente possibile e ‘fare festa’ vedendola arrivare e non trincerarsi dietro le porte chiuse. Lo spazio non dovrebbe essere un problema; in Africa lo spazio è la sola cosa che non manca. La nunziatura ‘deve’ avere dei requisiti che diano apporto anche alla grandezza del ‘tempio’ dedicato a Dio? D’accordo, ma che lo spazio non diventi una scusa per discriminare i fedeli: si celebri la Santa Messa in cortile, piuttosto che scacciare i fedeli! Il vecchio e malandato papa Giovanni Paolo Secondo ha potuto trovare la forza di reggere la croce della via crucis anche in agonia, i sacerdoti della nunziatura non possono sopravvivere al caldo africano per la durata di una Messa? Molta gente polacca, italiana e di varie nazionalità si è sentita esclusa e ghettizzata dalla nunziatura, per accedere alla quale occorre un pass (che si concede a pochi). Ho cercato di rabbonire gli scontenti, in passato, ma mi rendo conto che qualcosa non va da qualche parte. Capisco che, in tempo di terrorismo, si sia portati ad agire con cautela, ma mi rendo conto anche che il Vangelo ha mandato i discepoli ‘come agnelli in mezzo ai lupi’. I missionari rischiano la vita ogni giorno, molti di loro vengono uccisi barbaramente ed altri partono per le stesse destinazioni e non si fermano davanti al rischio e si schierano al fianco del povero, del derelitto e dell’oppresso, a costo della vita. Sono loro ‘la chiesa’. Pensavo di poter dire che essi prendono la loro luce-esempio dai ‘punti-luce’ ufficiali delle varie latitudini; oggi, qui, mi rendo conto che così non è… e che è il resto della chiesa che dovrebbe prendere esempio da loro… I tempi presenti sono imprevedibili e, tra le varie insidie, nascondono anche l’intolleranza religiosa: se noi Cristiani vogliamo sopravvivere e guadagnarci il sacro diritto alla libertà di culto, dobbiamo vestirci di una coerenza estrema (che mal si sposa con privilegi- lassismo-comodità e ingiustizie piccole e grandi). Chi può ‘si cinga i fianchi’, come dice il Vangelo, e ‘porti la croce’ che gli compete (quella dell’aderenza senza deragliamenti all’ineliminabile ruolo individuale); la porti apertamente, con passo sicuro e senza sotterfugi; solo così il Cristiano può trasformare gl’inevitabili molti nemici, se non in fratelli, in amici, o almeno in buoni vicini. Tempi ancora più duri si profilano e non è arrogandoci il diritto di ‘scegliere’ chi ospitare in chiesa e chi no che potremo essere pronti a superarli, ma soltanto preparando provviste sconfinate di magazzini senza fondo di pazienza, accoglienza, disponibilità e amore sincero. Il genere umano (e la chiesa innanzitutto) ha bisogno dell’esempio del poverello di Assisi. Mai come oggi abbiamo avuto bisogno di quella figura in saio (decisa a sconfiggere l’artiglio dell’avidità, della presupponenza, dell’avarizia, dell’egocentrismo e della presunzione), perché viviamo in un’era dalle frontiere mobili e dalle migrazioni molteplici, in cui poveri e ricchi (di colori-razze-culture-religioni diverse) vengono a contatto, si mescolano, si sovrappongono e decidono quale destino dare al pianeta (che non è casa degli uni o degli altri, ma dei figli e dei posteri delle razze mondiali).  

     

Le nunziature sono piccoli esempi della pluralità umana globale e hanno il dovere di adeguarsi ai tempi (e di fare da ‘traccianti’ per il resto dei luoghi). Ogni nunziatura (e questa non meno delle altre) raccoglie attorno a sé varie nazionalità e può lanciare lontano il seme dei messaggi di cui l’umanità ha bisogno. Gli ambasciatori cristiani di tutto il mondo vanno nelle nunziature e in esse cercano qualcosa di più (del ‘privilegio’ di essere accolti alla faccia di chi resta fuori) da portare alle loro nazioni. Ogni nunziatura dovrebbe creare quel qualcosa di più e ognuno di noi dovrebbe potervi contribuire …”.

     

Gli Africani che si sono raccolti attorno a me ascoltano, con aria sorpresa. Non capisco se sia per le cose che dico o perché sembri loro strano che una ‘bianca’ sia stata lasciata fuori come loro. Ci penso per un attimo. Almeno il fatto che io sia qui fuori, tra i Nigeriani, non è di sghimbescio: per l’ambasciata vaticana, il colore della pelle non fa differenza (viva la vita!) e che ciò non accada, tra gli Africani, in Africa (dove ‘il bianco’, con il suo denaro, ha sempre corsie preferenziali) è bello, ve lo garantisco. Di colpo, mi sento più calma. “Non ce l’ho con te”, dico al guardiano, “ma sei il solo che ci dia ‘udienza’, al momento. Il ragazzo sorride e i suoi denti risaltano come perle, nel bel viso lucido come bronzo, mentre dice: “You’re right, madam. The things you said are wise. Aggiungo: “Non pensare che io ce l’abbia con questo nunzio in particolare; è una brava persona. Mi torna in mente che, appena poche sere fa, a un ricevimento ufficiale, mi diceva: ‘Costruiscono a rotta di collo in questa città… Le ditte sono tante e tutte straniere… I soldi spesi per questi palazzi imponenti e… vuoti dovrebbero servire a loro (si riferiva ai poveri che non hanno neppure da mangiare)’.”

 

Mi volto e… mi rendo conto che ho parlato a molta gente, raccoltasi dietro l’angolo, dove non ho spinto lo sguardo. Trovandomi di fronte una sorta di pubblico, mi sento avviluppare dalla timidezza consueta e non dico altro. I presenti applaudono. L’uomo con il messale dice: “Ci avranno pure lasciato fuori e privato della Messa, ma abbiamo avuto la nostra omelia… Avremo qualcosa su cui meditare durante la settimana”. In coro mi dicono: “Thank you!” Arrossisco, saluto e vado via, sentendomi goffa. Camminando, rigiro nella mente le parole che ho detto e mi sento a disagio. Ci sono già tanti cori gratuiti contro le religioni e, in Italia, ce ne sono in sovrabbondanza sulla nostra religione e, soprattutto, sulla chiesa cattolica. Non era mia intenzione dare forza a quei cori, specialmente quando derivano, prevalentemente, da un qualunquismo distruttivo e pernicioso. Io credo che tutte le religioni meritino rispetto e deferenza, perché ognuna di esse racchiude tesori di saggezza pacifica e di verità ascetiche; anche l’islamismo, piagato dall’estremismo lacerante, contiene ricchezze non indifferenti ed è nobilitato da asceti che conoscono le vie della meditazione, della solitudine, della preghiera e delle catarsi senza pesi-intolleranze-miserie terrene. La nostra religione risuona delle impronte che i calzari di Cristo (figura storica che ancora data i nostri calendari) vi hanno inciso e annoda scale unificanti tra i popoli, perché non in una sola sillaba fa intuire contegno-antipatia o disprezzo nei confronti di una sola creatura. È una religione che comanda l’amore e il perdono (anche nei confronti del nemico più efferato). La rispondenza tra uomini e Vangelo / tra essi e i tempi storici è altra cosa… (e tutti sanno che la chiesa ha attraversato tempi bui e che ha persino subito e imposto al mondo l’affronto di papi-non sacerdoti -v. i Borgia- tessitori di abissi ingiustificabili, per salvarsi dai quali i fraticelli umili e incorrotti hanno cercato l’esilio e il nascondimento - v. gli amanuensi trascrittori di tesori che avremmo perso per sempre).

   

L’importante è non cadere nelle spire del relativismo ‘non qualificato e inqualificabile’ (S. Montanelli mi presti ancora una volta, dall’al di là, le parole da lui usate, un tempo, con riferimenti ben diversi) e di un ateismo inconsapevole che sia più ignoranza che cinismo.

I calderoni popolari in cui cadono ‘cenere e panni lordi’, come si dice nel Sud dell’Italia, cioè una mistura di argomenti che vanno dalle critiche alle singole religioni e agli uomini che le amministrano, ai dubbi sull’esistenza di Dio e alle varie forme di razzismo strisciante sono di bassa lega e sono banditi dalle mie intenzioni. Le parole che ho pronunciato nel mio piccolo ‘speech’ davanti alla nunziatura non desiderano imparentarsi con essi, né entrare nel novero di chi crede in cosa-come-dove-perché.

    

Mi sento più ottimista, dopo queste riflessioni. Le case-non case dai poveri affollate mi sembrano quasi ridenti. La ragazza che si affaccia nella finestra assente ha viso sereno e tempo in abbondanza per pensare, chiacchierare e oziare. Non sembra stare poi tanto male. Gli uomini sul tronco ridono e parlano e non sembrano avere pensieri-preoccupazioni. Il giovane uomo che prima attingeva l’acqua ora sta spolverando un tappeto: non ha dormito sulla nuda terra … La giovane donna  che incontro è alta, magra e slanciata come un dipinto; è china sulla sua bambina e le aggiusta la maglietta nei pantaloni. Il bambino che porta legato sulla schiena ha faccino appagato e occhi curiosi. La madre si raddrizza, gli accarezza il sederino, prende per mano la bambina e se ne va, disseminando sorrisi. Eccomi servita con la morale che mi spettava: i molti problemi grandi e piccoli non devono impedirci di essere ottimisti; c’è tanta bellezza in questo mondo e, dove c’è bellezza c’è salvezza…

 

Moonisa 2008

continua...


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