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Gordiano Lupi. Un reduce, L'Avana, l'ambiguità del male
23 Settembre 2009
 

Giorni fa ve ne avevamo dato anticipazione editoriale. Da oggi ufficialmente il nuovo libro di Gordiano Lupi è reperibile in libreria. Qui di seguito vi proponiamo ora il 1° Capitolo e, ve l'assicuriamo, la lettura del diario del reduce-cubano-cannibale prosegue a ritmo di samba, rapida e allucinata, ininterrotta fino alla fine... La guerra in Angola è truce, sporca e cattiva, 'inutile' come e più di tutte: vien alla mente il Vietnam, la Cambogia, ma il trattamento riservato a 'disfattisti' o 'spie' ricorda anche la Grande Guerra sulle cime e per le valli delle Dolomiti. Eppure, non dissimile sarà l'intima guerra che il 'nostro' dovrà continuare a combattere una volta rientrato all'Avana. Con moltiplicato, orrorifico, nefasto effetto. E corollario di 'peccato originale', disvelato nel finale. (e.s.)



1 Ricordi d’Angola


Mi dà un dolore atroce ricordare quella maledetta guerra.

Però è cominciato tutto là. Ed è colpa di quei negri se sono finito qua dentro a marcire. Di quei negri e di Fidel, che Dio se lo porti. Tanto ormai non mi fa più paura. Per tutti sono solo un povero pazzo e posso dire quello che voglio. Nessuno mi fa caso. Nessuno mi ascolta. Finirò la mia vita al Mazorra, questo è certo. In ogni caso meglio che un plotone d’esecuzione. Meglio che andare sotto qualche metro di terra al Cementerio Colon.

Il giudice ha detto che non sapevo ciò che facevo. Infermo di mente, è stata la sentenza. In realtà ho avuto solo un bravo avvocato, perché io non sono pazzo. No che non lo sono. Sono soltanto uno che ha dato gli anni più belli della sua vita per una maledetta guerra. Uno dei tanti che non gliene importava un cazzo di quei fottuti negri e che pure è dovuto andare a combattere insieme a loro. Come non me ne fregava niente del comunismo e l’ho difeso di là dall’oceano. Ho perso una moglie e ho conosciuto mio figlio che era già un bambino di cinque anni. E la mia vita è cambiata, laggiù. Purtroppo.

Ricordo quando lasciai Clara nel solar di Casablanca, una casa di una sola stanza attaccata ad altre venti, con un tetto in comune e una sottile parete in cemento a fare da separazione. Rammento che si sentivano i rumori di tutti, persino i sospiri e i pianti dei bambini, i gemiti di chi faceva l’amore prima di addormentarsi e il brusio della televisione. Eravamo poveri. Andare in Angola mi avrebbe portato qualche soldo in tasca, pensai. E poi non potevo fare diversamente. Mi avevano detto che la guerra sarebbe durata poco, il tempo di ammazzare qualche negro e sarei tornato a rivedere L’Avana e il Cristo gigantesco di Casablanca che si affaccia sulla baia.

«Alberto, lo sai che sono incinta?» disse Clara prima della partenza.

«Lo so, ma che posso farci?» le risposi. «Se rifiuto di partire mi sbattono in galera e resti sola lo stesso».

Clara pianse davanti alla nave da guerra che partiva per l’Africa dal porto dell’Avana. Mi salutò con un’espressione stupita e addolorata che le ricordo ancora. Fu l’ultima volta che la vidi.

Nel suo bel corpo da mulatta s’intuiva che stava crescendo un bambino, ma io non lo avrei mai visto nascere.

Salutavo L’Avana e un triste Malecón dove correvano come sempre vecchie carcasse d’auto. Le onde del mare si frangevano sul muro in granito, screpolato e distrutto in più punti. Dove si faceva più forte il sapore di mare i palazzi colorati di rosa e giallo mostravano alla forza del vento un antico splendore. E l’acqua entrava in strada mentre bambini giocavano a rincorrersi, fingendo di evitare di bagnarsi. Lasciai la capitale in una mattina d’estate, portando fissa negli occhi l’immagine d’un mare nero che si gettava in strada allagando un marciapiede semidistrutto da tempo e salmastro.

La nave prendeva il largo per un lungo viaggio, io pensavo a Clara e a quel figlio che sarebbe nato senza padre. Pensavo a lei, alla guerra che mi attendeva. Una guerra che non capivo, in una terra lontana, dove dei maledetti negri si ammazzavano tra loro. Sapevo solo che qualcuno mi ci aveva spedito e dovevo cercare di tornare a casa prima che potevo, possibilmente vivo.

Mi destinarono alla guarnigione di Namibe, in mezzo alla steppa e al deserto, in una regione sperduta nel sud, dove non era difficile ricordare con tristezza L’Avana. L’avrei rimpianta comunque, mi dicevo. Ma in quel posto spettrale, dove una città con pochi abitanti era l’unica cosa viva nel raggio di molte miglia, mi sentivo morire giorno dopo giorno. Vedevo palme frondose dal fusto esile e pensavo alle palme reali, lasciate davanti alla statua del Cristo di Casablanca che faceva da sentinella di marmo alla baia dell’Avana. Nei momenti di disperazione era lui che pregavo, sperando che mi proteggesse. Non sono mai stato religioso, in vita mia. Però quando un uomo si trova in difficoltà cerca di aggrapparsi a qualcosa di soprannaturale. Mi restava solo Dio, in mezzo a quei negri e ai loro strani riti che mi ricordavano le cerimonie santére. Alla mattina ci svegliava una tempesta di bombe che scendeva da un cielo colore rosso fuoco. Un’assurda benedizione calava sui nostri giorni. Le bombe seminavano morti e distruzione, pianti di madri disperate, bambini falciati nel fiore degli anni. La guerra si nutriva di sangue innocente e noi eravamo là per fare qualcosa, perché quello scempio finisse prima possibile. Ma sapevamo che era difficile. Le strade delle città erano piene di morti che si moltiplicavano come erba di campo sotto la pioggia. La terra non ce la faceva più a sopportare il peso dei suoi morti e quasi rifiutava di ingoiarli e di dare sepoltura. Non si faceva in tempo a sotterrare una salma che ne uscivano fuori altre dieci. Le ambulanze correvano avanti e indietro in questo oceano di morti e cercavano di svuotarlo. Ma era un’impresa disperata.

Namibe era un città moderna costruita nel deserto. Sabbia e caldo, un caldo secco, asfissiante, specialmente d’estate. Alcuni compagni di guarnigione dicevano che l’Angola non era tutta così, c’erano anche foreste tropicali e vegetazioni selvagge, però nell’interno, molto lontano da noi. È stato là che la mia vita è cambiata. E adesso dicono che sono pazzo e mi tengono rinchiuso in quest’ospedale, dove gente strana vaga da una stanza all’altra con sguardi allucinati ed espressioni inebetite e spente. Loro sono pazzi. Non certo io. Io sono solo un soldato che ha fatto una sporca guerra. E di quella regione dell’Africa che non avrei mai voluto vedere ricordo soltanto un deserto infinito.


Gordiano Lupi

(Una terribile eredità, Perdisa, € 12,00)


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