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Patrizia Garofalo incontra Mirco Denicolò al Museo Taglieschi di Anghiari
07 Maggio 2014
 

Interessante la mostra di artisti contemporanei allestita all’interno del museo Taglieshi di Anghiari. L’antico e il moderno si susseguono in accoglienza reciproca, il primo ad indicare la tradizione, la storia, il percorso dell’arte, l’altro come proseguimento dai grandi maestri nell’espressione di un’originale modernità. L’uno compenetra l’altro mantenendo la propria autonomia.

Mi colpisce il video lungo il quale scorre quasi a trabordare “la leggenda di San Brandano” di Mirco Denicolò. I pesci dai grandi occhi abitano il mare e anche la mente dell’uomo e scompaiono magicamente l’uno dietro o dentro l’altro. Li vedrò uscire dalla bocca di un personaggio che mi piace pensare sia l’autore ed insieme l’io narrante, scompaiono poi tutti e l’ultimo occuperà un non-tempo e un non-spazio sognante “in forma di rosa”.

Mi sovviene un quadro di Magritte dove una rosa campeggia nel deserto e rimando alla memoria un libro che ho molto amato, Bestiario di Cortazar.

Lungo la strada che mi conduce a casa cerco parole che uniscano le immagini che mi suggeriscono cantilene, voci indistinte, e anche silenzio stupefatto.

Contatterò Mirco nel pomeriggio che mi accompagnerà a leggere con pazienza il suo lavoro non per capire ma per com-prendere. Almeno è questo il mio desiderio.

Nel frattempo prima di incontrarlo ho visto in internet il video di Alice, altra sua creazione. Cosa potrei chiedere, io che vengo dalla scrittura, che in essa trovo il campo per me più adatto per seminare?

E quindi ascolto.

 

 

– “La Navigazione di San Brandano” è un video di ceramica animata...

Io non ho nessun messaggio, Patrizia. Quando preparo e svolgo un lavoro non penso a nulla. Mi conforta il fatto che così facesse anche il Maigret di Simenon. Non penso, mi immergo in una discarica di immagini che si organizzano, prendono forma attorno ad un tema o due che sono sempre temi formali: questioni di composizioni o di tensioni o di equilibri per me inediti o di altre cose legate alle tecniche della rappresentazione. Come questo diventi un racconto continua per me ad essere una scoperta tutte le volte che avviene, perché questo è il mio mestiere degli ultimi anni, raccontare per immagini.

Si dà il caso che io sia un ceramista e preferisca spesso le terre smaltate ai fogli di carta, si dà il caso che le tecnologie popolari mi permettano da qualche anno di animare le immagini che realizzo in ceramica, si dà il caso che stia scoprendo una cosa che viene chiamata transmedialità che si adatta molto bene al mio modo di lavorare degli ultimi tempi.

Per San Brandano ho seguito alcuni desideri: volevo, fortissimamente volevo essere il soggetto di un set fotografico che somigliasse ad alcuni spot degli anni settanta. Volevo una bombetta di feltro. Avevo voglia di farmi attorniare da pesci e dai personaggi di Segar, quello di Popeye. La storia non è stata disegnata con facilità: ho preparato una cinquantina di tavole in ceramica, ho abbondato con oggetti e soggetti, non sapevo cosa sarebbe servito e cosa no, non sapevo ancora quali sarebbero stati i protagonisti né sapevo quale storia avrei raccontato. Quando ho finito di digitalizzare tutto il materiale è cominciato il lavoro creativo vero e proprio, una sorta di gioco del domino per trovare le connessioni tra immagine ed immagine, tra oggetti ed oggetti. Mi accade molto molto spesso che l’opera sia pronta in partenza, si tratta quasi sempre di portarla alla luce in modo lucido ed amorevole. Farlo animando la ceramica è molto efficace, perché è un processo lento, per questo ultimo video sono occorsi sei mesi.

Anche ad opera finita, un’opera che si avvale di importanti collaboratori, l’animatore e i musicisti, continuo a non saperla spiegare: trovo non ci siano cose da spiegare. Ci sono, invece, molte connessioni.

La prima è con un libro di Alfred Jarry, Gesta e opinioni del Dottor Faustroll. Il romanzo patafisico di Jarry rimanda ad un altro libro, il racconto medievale di viaggi di San Brandano e dei suoi confratelli. Ho pensato di poter innocuamente inserire un nuovo capitolo, una nuova isola inventata e fasulla.

Ci sono altri collegamenti: la grafica popolare dell’epoca vittoriana, l’umorismo dei Monty Phyton, il cinema di animazione degli anni Sessanta, una ricerca che ho fatto qualche anno fa sulle rappresentazioni simboliche, la ceramica popolare, ecc.

Nel video trovo che la parte importante sia rappresentata dai movimenti: si parte da un sopra, si scende sottoterra, ma sottoterra ci sono nuvole e pesci che si muovono in un qualche tipo di cielo. Poi si sale si sale si sale, si arriva ad un cielo abitato da giganti che mangiano pesce e vomitano fiori. Si segue il volo dei fiori, si scoprono dei pupazzi che attraversano il mare, si scende sotto il livello dell’acqua, e poi sotto il mare, poi si attraversano gli strati di geologie culturali, si torna alla dimora del governatore. Non mi pare strano che il governatore dell’isola, dopo aver riposto l’isola nel suo cappello, venga rapito dai pesci.

sono parole in silenzio, che tacciono storie che chiunque può assemblare come meglio si adattano alla sua fantasia… Ma lo penso e non dico niente…

Non mi è passato di mente neppure per un attimo il problema di spiegarmi cosa significhi tutto ciò: io so che funziona, la meccanica del racconto non ha sbavature, bisognerebbe giusto tagliare una decina di secondi al piano sequenza.

In tutti questi miei anni, ne ho cinquantadue, ho ascoltato storie, raccolto e prodotto immagini: sono un vaso pieno, ogni tanto debbo buttar fuori qualcosa per poterlo vedere meglio. Perlopiù è una visione che vedo ribaltata da uno specchio, guardo le mie cose variamente ribaltate. Negli ultimi anni mi fanno tenerezza, amici fidati mi assicurano che questo è un privilegio dell’invecchiamento...

 

E Alice?

I miei amici dicono che quando parlo del mio lavoro non si capisce niente, dicono che ne parlo sempre in terza persona e loro non sanno a chi io mi stia riferendo. È vero. In effetti parlo come lavoro, tratto le immagini che realizzo come se mi fossero donate, preferisco parlare delle mie opere suggerendo piuttosto che spiegando. Ma forse hanno ragione loro e potrebbe non essere noioso raccontare come è nata questa mostra: giuro che parlerò in prima persona e che sarò sincero, per quanto mi è possibile.

Coltivo molte passioni tra cui quelle per le immagini ed i racconti.

Accumulo immagini nell’archivio imperfetto della mia memoria: il bello della memoria è che non crea gerarchie e dimentica con la stessa facilità i volti delle persone antipatiche ed i capolavori del cinema. La mia memoria è come una discarica, conserva in modo variabile quello che mi colpisce, che trovo necessario, imprevisto o, semplicemente, ben fatto.

Mi piace sentire narrare storie, sia che si tratti della vita di un profeta o delle avventure del personaggio di un romanzo, sia che si tratti di grandi racconti o di piccoli aneddoti. Sto molto attento quando qualcuno mi parla del suo lavoro; di recente ho incontrato un fabbro che mi ha intrattenuto sul modo di decidere le proporzioni nei cancelli in ferro battuto: ero deliziato. Certo, le storie più belle sono quelle inventate, ma in questo caso più che la bellezza degli eventi è importante la bravura del narratore.

Talvolta, per errore o per urgenza, tutti questi materiali debordano e si organizzano in qualcosa che ha coerenza. Perché questo succeda è importante che io mi ponga in uno stato di attesa ed il miglior modo che ho per attendere consiste nel disegnare. Lo faccio da molti anni, quasi sempre senza nessun progetto o intento particolare, una specie di scrittura automatica: non di rado le immagini che produco seguono percorsi poetici che ho coltivato inconsapevolmente, nutrendoli degli eventi che mi hanno visto partecipe o spettatore. Mi accorgo che si tratta di un buon tema quando non si esaurisce rapidamente, quando trovo varianti e sviluppi, quando, in definitiva, ne misuro la ricchezza.

Sul primo catalogo dedicato ad Alice un anno fa, ho scritto quali sono le emozioni attraverso le quali si è impressa nella mia memoria: te ne invierò il testo, se credi. Adesso dovrei commentare la fine di questo lavoro che mi ha impegnato per diciotto mesi e che si è svolto su un centinaio di pezzi in ceramica e su un numero imprecisabile di fogli di carta, adesso dovrei dire chi è Alice. Il fatto è che ancora non lo so, quindi le mie prossime affermazioni andranno prese come opinioni personali.

Io credo che Alice si collochi tra la mia coscienza e un territorio narrativo esterno a me, credo che Alice sia una creatura del sottosuolo, testimone o interprete involontaria di piccole scene il cui significato è venuto a mancare o si è trasferito altrove. Quando mi sono accorto che le assenze erano le vere protagoniste di quanto andavo rappresentando mi sono tranquillizzato: se il senso è altrove è meglio possedere un occhio solo per poterlo vedere, se il significato si è spostato in un’altra stanza i corpi e gli oggetti e gli spazi possono cambiare scala e mutare i rapporti tra loro senza farsi male.

Ho sempre avuto, invece, coscienza dei contesti e li ho governati: in alcune immagini c’è molto vento, in altre no; le luci sono sempre teatrali; ho quasi sempre usato uno stile che trova posto tra l’illustrazione xilografica ed il fumetto; ho sofferto, in ogni scena, il ricordo di molte delle immagini che ho amato e amo.

Un elemento importante che è rimasto sospeso è l’età anagrafica di Alice. Per quanto mi è stato possibile l’ho considerata una bambina, ho cercato quindi di difenderla da forme di violenza che non potesse comprendere. Solo in un paio di scene ci sono state allusioni ad aggressioni inspiegabili: ho tentato di censurare le immagini senza riuscirci e quindi le ho accettate.

E poi Alice è riuscita a stupirmi. Sono sempre rimasto sorpreso della sua capacità di stare nel mezzo alle azioni con un distacco che non mi sarei mai aspettato da una figurina concepita da me, è sempre stata distante da dimensioni drammatiche, non è mai stata prigioniera del sottosuolo. Non ha mai partecipato attivamente alla mancanza di senso del sottosuolo.

Adesso il lavoro è finito, ci sono le mostre, i cataloghi, i commenti e poi i pezzi entreranno in case che non vedrò mai, magari qualcuno cadrà o verrà rotto. Non ne sento nostalgia, era necessario svolgerlo e terminarlo perché prendesse la forza necessaria a continuare il racconto al di fuori di me. Perché Alice è stata una rappresentazione, una finzione, una commedia, una passeggiata nel sottosuolo, senza mappe e con la bussola impazzita.

Quando sono uscito dal racconto di Alice sono tornato a vivere in questo lato della vita, a morsi e a sorsi; perché da questa parte, di vita, non ce ne è mai abbastanza.

 

Grazie, Mirco. Io aspetto la scrittura di Alice e ripenserò a quello che mi hai così bene espresso della tua arte, che vorrò rianalizzare nelle possibili connessioni con la poesia che avverto esistono, sono percepibili sia nel come si muovono le immagini che nel loro prendere forma di racconto. In quel divenire, nell’attesa di cui parli, nell’assemblaggio, nella terza persona che prevale sull’io, proprio lì, a mio avviso, lo spazio poetico che avverto più forte

 

Patrizia Garofalo

 

 

Mirco Denicolò è nato a Cattolica nel 1962, ha studiato negli istituti d’arte di Pesaro e Faenza. Ha iniziato ad esporre il suo lavoro artistico nel 1985, ha lavorato come ricercatore nell’industria ceramica fino al 2003. Dal 1999 insegna all’Istituto Superiore Industrie Artistiche di Faenza. Dal 2008 insegna disegno ai bambini nella Scuola Comunale di Disegno di Faenza. www.mircodenicolo.it

 

 


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