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La soluzione non è fermare i campionati
06 Febbraio 2007
 

Per i violenti doppia vittoria: lo scacco al sistema

 

Questo Paese ama compiacersi dei suoi riti ma non riesce mai a risolvere un problema che è uno. Quindi si ripetono i soliti dibattiti, sentiamo pronunciare le solite prediche («siamo tutti responsabili»), chiamare in causa la «cultura sportiva» e il «disagio sociale», costituire i soliti «tavoli permanenti» con tutte le autorità, sportive e politiche, dare (o tentare di dare) i soliti «segnali forti».

Ma l'idiozia più grossa l'ha sparata questo commissario straordinario della Figc, Pancalli: «Non è sufficiente una giornata. Senza misure drastiche non si riparte». Eppure, sono decenni che si tenta di porre rimedio alla violenza nel calcio e non sono mai state prese misure non dico drastiche, ma neanche serie. Anzi, non si applicano neanche le norme che già ci sono, né vengono eseguite fino in fondo le più basilari strategie e tecniche di ordine pubblico utilizzate in tutto il mondo civile.

Tutta questa ipocrisia, questo sdegno, servono in realtà a metterci la coscienza a posto, perché non serviranno a risolvere il problema. E questi signori lo sanno, o dovrebbero rendersene conto. Non serve farsi prendere dall'emotività del momento.

Come facilmente prevedibile, già da ieri si sono fatte sentire le pressioni dei club – il presidente della Lega Matarrese ha definito «esaltati e irresponsabili» coloro che parlano di un lungo stop del campionato e di partite indiscriminatamente a porte chiuse degli addetti ai lavori oggi Sconcerti sul Corriere e di tutto quanto ruota attorno a questo fantastico mondo del calcio, per ricominciare a giocare. È ovvio: dietro ogni singola partita c'è un mondo che lavora, gioca, perde o guadagna, si appassiona. In una parola: vive. Pensare di fermarlo non è solo illusorio ma anche profondamente sbagliato e ingiusto.

Siccome Voi Autorità non riuscite a tenere a bada qualche decina di teppisti, per dei mesi centinaia di migliaia di calciatori dovrebbero non giocare, centinaia di club vedere ridursi attività e guadagni, migliaia di addetti ai lavori e giornalisti non lavorare, un'intera economia fermarsi, milioni di appassionati perdere il loro spettacolo. Tutto questo per qualche decina di delinquenti? Ci facciamo dare scacco in questo modo? Ma soprattutto, a che serve? Funziona?

C'è qualcuno che davvero pensa che i ragazzi che stavano lì, a Catania, a scontrarsi con la polizia si «fermino a riflettere» sulla «follia» dei loro gesti? La risposta è no. Forse rifletteranno, sì, ma esaltati, orgogliosi delle loro grandi imprese. Così, oltre a regalare ai teppisti il dominio delle strade intorno allo stadio di Catania, gli avremo concesso anche quello del calcio, dei media, della politica. Saremo – anzi, già siamo – loro ostaggi.

Tra un ministro degli Interni che dopo il ritiro dall'Iraq vorrebbe ritirare la polizia anche dagli stadi e dalle strade circostanti e l'immancabile sociologia da salotto, forse ancora una volta la vera «follia» è quella delle autorità, sportive e politiche. Il problema non è il «disagio sociale», ma è vedere la polizia che arretra, che non carica cento, massimo duecento, teppistelli appena maggiorenni, e che – al limite – non esploda neanche un colpo dopo che un agente ci ha lasciato la pelle. Oggi abbiamo avuto l'ennesima conferma che anche il teppismo uccide e che non ci possiamo permettere di essere indulgenti. La soluzione non è «fermarsi a riflettere». Tutti sanno qual è la soluzione e tutti sanno qual è il «modello inglese» di cui tanto si parla. È la più ovvia, ma nessuno si vuole prendere la responsabilità di adottarla, perché è più facile fare l'autocoscienza in tv e sui giornali per una settimana o due.

Responsabilizzare le società e le reti televisive, sciogliere gli ultras, prolungare i fermi, nuovi divieti, multe e sanzioni, certezza della pena, sofisticati sistemi per individuare i violenti negli stadi possono essere misure utili, ma punitive rispetto a un evento già accaduto e, quindi, al massimo deterrenti. Ci vorranno mesi, forse anni, prima di non vedere più guerriglie intorno agli stadi. L'essenziale è che non dev'essere mai, mai permesso ai violenti di dominare lo spazio pubblico: né le strade, né le tv e i giornali. È la sensazione di dominio, sentire di avere l'intero mondo del calcio, e persino la politica, tutti piegati ai loro piedi e impotenti, è questo che li esalta, come l'odore del sangue per uno squalo. Oltre alle vite spezzate di un ragazzo di 38 anni e dei suoi famigliari, che non hanno prezzo, il danno peggiore che l'impotenza delle forze dell'ordine ha provocato l'altra sera a Catania sta nella diffusione dell'immagine stessa dell'impunità, che si possa cioè scatenare una guerriglia, uccidere un agente, mettere in fuga la polizia e farla franca.

Ma non è la prospettiva di una sentenza di condanna differita nel tempo, o di una penalizzazione inflitta alla propria squadra, che può dissuaderli. La soluzione è non permettere che dopo gli scontri i teppisti se ne tornino a casa euforici e sulle proprie gambe. La soluzione è un mese d'ospedale a riparare le ossa rotte e qualche anno di galera. La soluzione è rendere credibile, una certezza matematica nella testa di tutti, che mettere a ferro e fuoco uno stadio, o una città, è un'impresa praticamente suicida, non una ragazzata di cui il lunedì ci si potrà vantare con gli amici.

Non dobbiamo commettere l'errore di attribuire allo sport un fallimento che è di uno Stato, di un modello di società in cui la responsabilità non è mai individuale, ma sempre di tutti e quindi di nessuno, di un'idea marcia della democrazia, in cui l'autorità è delegittimata e intimidita in partenza, perché metti il caso che stasera si fosse torto un capello a uno di quei teppisti...

 

Federico Punzi

(da Notizie radicali, 5 febbraio 2007)


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