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Una storia di “giustizia” ordinaria, Giuseppe Misso
Giuseppe Misso
Giuseppe Misso 
14 Settembre 2006
 
Il testo che segue giunge ai Radicali da una cella carceraria italiana. È una cella che si trova nel carcere di Spoleto, sezione dedicata al “41 bis”, più precisamente nell’“area riservata” della sezione stessa.
In quella cella sopravvive – detenuto in attesa di giudizio - Giuseppe Misso, divenuto “Missi” per la distratta anagrafe del Comune di Napoli dell’immediato dopoguerra.
Misso, ritenuto la mente della storica rapina al Banco dei Pegni di Napoli, viene nel 1985 imputato dal pubblico ministero Piero Luigi Vigna per la strage sul treno “rapido 904”. Condannato all’ergastolo in primo grado, verrà assolto in Appello – dopo un’odissea processuale e carceraria – «per non avere commesso il fatto».
Nei lunghi anni di detenzione (sette in isolamento) lo scugnizzo del Rione Sanità riflette, s’interroga, legge i grandi testi letterari e filosofici. Arriva alla scrittura.
Nel 1999 pubblica la raccolta di poesie e prose I ragazzi del rione.
Nel 2003, per i tipi dell’Arte Tipografica di Napoli, vede la luce il suo romanzo autobiografico I Leoni di Marmo.
Nella prefazione Daniele Capezzone scrive tra l’ altro: «quel che importa è che questo non è solo un romanzo che racconta la Napoli (o l’Italia) “criminale”: semmai, e molto di più, descrive – ovviamente, dal punto di vista di Misso – la Napoli (e l’Italia) “ufficiale”».
 
Michele Capano
(da Notizie radicali, 13 settembre 2006)
 
 
Istigazione al suicidio
di Beppe Misso
 
Si chiamava Guido Cercola, nativo di Roma, giustiziato nel carcere di Sulmona. Era uno dei miei coimputati nel processo per la strage del rapido 904, ma non c’eravamo mai conosciuti; e prima di allora nemmeno sapevamo dell’esperienza l’uno dell’altro. In realtà l’accusa si basava su di un teorema alquanto sillogistico e, per certi versi, stravagante. Insomma, come succede spesso nel paese delle meraviglie, bisognava consegnare all’opinione pubblica dei colpevoli da mettere alla gogna. Vittime vive tra le vittime morte.
Nell’aula dell’Assise addobbata per le grandi occasioni, in cui veniva rappresentato l’“autodafè”, c’erano telecamere sparse un po’ ovunque e decine di giornalisti dell’intero globo. Quel luogo, a Firenze, divenne ben presto una sorta di pellegrinaggio, giacché la condanna all’ergastolo era già stata scritta ancor prima di essere pronunciata. A giorni alterni, in quell’aula, si portavano anche gruppi di scolari e boy scout guidati da inconsapevoli maestri che propinavano loro esercizi mnemonici per le facce di noi “pravi” rinchiusi nelle gabbie. Dopodiché nel processo d’Appello assolsero me e i miei amici, ma a Guido Cercola e ai suoi venne confermato il carcere a vita nonostante l’acclarata innocenza dimostrata dalle risultanze dibattimentali.
Alla lettura della sentenza, Guido Cercola rimase impietrito con lo sguardo perso nel vuoto. Con evidente imbarazzo cercai di rincuorarlo. Lui scandì le seguenti parole: «Se la Cassazione dovesse confermarmi la pena, io mi ucciderò». Non era un mafioso e dunque non dimenticò la promessa fatta a se stesso. Ma intanto la sua agonia durò vent’anni! Vent’anni scontati da innocente di cui dieci trascorsi al regime incivile del 41bis. Un po’ come accade a quei condannati in America ai quali fanno scontare lunghissimi anni di galera per poi ucciderli a sangue freddo con tutti i crismi della legalità, con la sola differenza che a Guido Cercola diedero l’onere di fare tutto da solo. Quella notte infatti, come tante altre notti, Guido Cercola vegliava nella penombra della cella. Si alzò deciso dalla branda, vergò un biglietto in cui ribadiva per l’ultima volta la sua innocenza; poi avvicinò lo sgabello alla finestra e ci salì sopra. Annodò alle sbarre e al collo le stringhe delle scarpe e coi piedi lasciò cadere lo sgabello. Nel cielo c’era una luna piena che sempre più s’ingrandiva… Nell’attimo supremo rimembrava l’immagine della sua adorata mamma quando fanciullo lo stringeva al petto e lo baciava per acquietarlo, addormentarlo...
Lo ritrovarono lì, nel piccolo bagno della cella, appeso alle sbarre, come tanti altri che l’avevano preceduto… Sembrava un fantoccio. Aveva la faccia livida e rigata di lacrime prosciugate, ma gli occhi erano chiusi.
Qualcuno disse: «Il suicidio dimostra che ci sono mali più grandi della morte».
Eppure quel grido di disperazione, di giustizia, di libertà è rimasto soffocato con lui in quella gelida cella. Quel biglietto non è stato mai pubblicato. Immobilismo assoluto, nessun moto di indignazione. Prevalse ancora una volta un colpevole silenzio mentre la sua vicenda giuridica aveva suscitato tanto scalpore. D’altronde si asseriva che c’era il rischio dell’emulazione (sic!). Di conseguenza il cadavere venne inserito nel macabro novero delle statistiche. Questi bravi Soloni intendono occuparsi solo di casi specifici da cui ricavano il proprio tornaconto politico e/o pubblicitario. Inoltre sono maestri nel ficcare il naso in faccende, seppur drammatiche, di altri Paesi e rifuggono il lezzo della propria pattumiera. Le loro verità, che vanno a propinare in giro sono sempre mediate e conformi al pensiero dominante. Il linguaggio di questi tuttologi è rigorosamente stilizzato con abbellimenti artificiali simili agli orpelli. Un filosofo sfogava la sua amarezza così: «Ma dov’è finita tutta la bontà, tutto il mio pudore e tutta la mia fede nei buoni? Dov’è finita quella mentita innocenza che possedevo una volta… L’innocenza dei buoni e delle loro nobili menzogne». Carceri fatiscenti, sovraffollamento endemico, sporcizia, promiscuità, violenza, prevaricazioni, isolamento sistematico, giustizia all’ingrosso, mancata assistenza medica e psicologica, tossicodipendenti lasciati al loro destino: naufraghi alla deriva del nulla. Tutto ciò diventa funzionale al suicidio se non proprio un’istigazione, ma non è tutto. In isolamento non c’è un pulsante per chiedere soccorso in caso di malore: si muore strozzati dal dolore. Intanto nel pianeta carcere si applica rigidamente la legge antifumo, perché il fumo uccide (?).
Il Paese dei paradossi ci porta a fare un raffronto con gli Stati Uniti d’America dove vige la spietata legge del taglione. Una popolazione di 275 milioni di abitanti per 2 milioni di detenuti con mille condanne a morte eseguite negli ultimi trent’anni. Da noi invece la pena di morte fu abolita con l’entrata in vigore del codice Zanardelli nel 1889. Il fascismo poi la reintrodusse per alcuni reati comuni. L’art. 27 della Costituzione vigente dichiara la pena di morte inammissibile, salvo per i casi previsti dalle leggi militari di guerra. Sostanzialmente, quindi, la pena di morte è stata abolita (?).
Allora perché si continua a morire dietro le sbarre con una cadenza impressionante? Chi sono i colpevoli di questa vera e propria mattanza? Ebbene dal 1990 al 2001 nelle patrie galere si sono suicidati 598 detenuti. Nel 2004, 57 suicidi e 22 morti per cause in corso di accertamenti. Dal 2005 ad oggi si sono registrate un centinaio di vittime. Purtroppo mi mancano i dati per completare la statistica degli ultimi trent’anni. Ma si può facilmente dedurre che abbiamo superato di gran lunga le mille esecuzioni capitali avvenute negli Stati Uniti. Allora perché tanta indignazione quando viene eseguita la condanna a morte in quel Paese? Perché per i nostri condannati nemmeno un briciolo di commiserazione? Bisogna ancora tacere perché c’è il rischio dell’emulazione? Ma dobbiamo ridere o piangere?
Salvo la fievole voce di Radio radicale e dei suoi, non ricordo un solo intellettuale, un giornalista, un’organizzazione umanitaria, un partito, che abbia fatto di ciò che vi ho accennato una battaglia di civiltà e di concreta difesa della vita.
Alla prossima indignazione.

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