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Asmae Dachan. Siria, otto anni dopo
18 Marzo 2019
 

Diciotto bambini e l’inizio di una rivoluzione. Marzo 2011, a Dar’a città nel sud della Siria, non lontano dalle alture del Golan e dal confine con Libano e Giordania, alcuni ragazzini di una scuola media scrivono sul muro della loro scuola una frase: “Il popolo vuole la caduta del regime”. È lo slogan che in quei giorni ripetono molti giovani nelle piazze di diversi Paesi arabi coinvolti in manifestazioni contro i rispettivi regimi. I grandi network internazionali hanno le telecamere puntate su quelle piazze e le immagini fanno il giro del mondo. Arrivano anche in Siria.

Muawia, Yussef, Samer, Ahmad, Issa, Alaà, Mustafa, Nidal, Akram, Bashir, Nayef, Ahmad Shukry, Ahmad Sami, Abderrahman, Mohamed, Ahmad Naief, Nabil, Mohamed Amin: sono questi i nomi dei ragazzini che hanno cambiato il destino della Siria. Sono stati arrestati e condotti a Damasco, in un ramo dei servizi segreti dove sono stati torturati. Ai genitori che ne chiedevano il rilascio è stato risposto che “potevano scordarsi di avere dei figli, che potevano farne altri, ma se non ricordavano come si facesse un figlio, potevano portare lì le loro mogli”.

Era il 15 marzo del 2011 e sono passati otto anni da allora. La gente è scesa in piazza pacificamente per chiedere il rilascio di quegli innocenti, invocando riforme, diritti umani e libertà. Per la prima volta in quasi mezzo secolo era stato violato il cosiddetto “stato di emergenza”, una legge imposta nel ’68 quando la famiglia degli al Assad e i clan alawiti alleati (un’oligarchia affaristico-militare) ha preso il potere in Siria, impedendo di fatto ogni manifestazione pubblica e accentrando su di sé tutti i poteri. Lo stato di emergenza è stato abolito formalmente nel 2011 col decreto 55, ma è stato un provvedimento solo di facciata, perché resta ancora valido il decreto 64 del 2008, che garantisce l’immunità a tutti i membri delle forze di sicurezza. In questi anni il regime ha commesso crimini indicibili e mentre riempiva le carceri di oppositori e manifestanti pacifici, ha liberato tramite diversi provvedimenti di amnistia centinaia di terroristi che avevano combattuto per al Qaeda in Iraq.

La rivolta inizia laica, pacifica e organizzata dal basso. Centinaia di vittime inermi nelle strade e l’ordine di iniziare con le operazioni di assedio e bombardamento portano alla fine 2011 alla scissione dell’esercito. Nasce l’Esercito Siriano Libero, un gruppo di disertori che vogliono difendere i civili anziché massacrarli. La situazione precipita. Iniziano i bombardamenti massicci, stragi di civili, fughe di massa. Mentre la comunità internazionale è intrappolata nelle sue contraddizioni, tra veti e vertici fallimentari, i civili siriani pagano un tributo di sangue sempre più alto. I siriani all’estero danno vita al Consiglio Nazionale Siriano, un organismo transitorio che rappresenta le richieste dei siriani che si oppongono al regime; il CNS viene inglobato poi nella Coalizione Nazionale Siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione. Sul campo, intanto, nascono diverse formazioni combattenti, alcune dichiaratamente radicali come al Nusra. Insieme alle forze del regime si schierano le milizie sciite di Hezbollah e le forze iraniane. È il caos. In Siria inizia gradualmente una guerra internazionale. Le grandi potenze finanziano gruppi che combattono per procura e gli oppositori del regime si trovano a combattere contro altre formazioni che vogliono prendere il controllo.

Il regime intanto usa svariati tipi di armi, anche non convenzionali, come le armi chimiche e i barili bomba. Nel 2014 fa il suo sanguinoso ingresso l’Isis, il sedicente Stato Islamico della Siria e dell’Iraq, che prende di mira città in mano ai ribelli e zone abitate da minoranze etniche e religiose come Curdi, Yazidi e cristiani, infliggendo alla popolazione sofferenze e abusi e imponendo le sue leggi oscurantiste e criminali. È la peggiore caricatura dell’islam, un crescendo di violenza e oppressione che arriva a decapitare ogni persona considerata nemica e schiavizzare donne e bambini. I terroristi dell’Isis provengono da diversi Paesi del mondo, Arabia Saudita, Russia, Cecenia, Tunisia e anche dall’Europa. Non hanno nulla a che spartire con la causa del popolo siriano, di cui calpestano dignità e diritti. Nel 2014 oltre sessanta Paesi si uniscono nella Coalizione internazionale a guida americana contro l’Isis. Nel 2015 scende apertamente in campo la Russia, schierando la sua aviazione che contribuisce a bombardare le città siriane sotto il controllo delle opposizioni e dell’Isis. Da Ginevra i colloqui si spostano a Sochi e Astana, dove sono i russi, gli iraniani e i turchi a dettare le regole. Nel 2017 le milizie turche entrano nel nord della Siria.

In Siria tutti bombardano e tutti si sentono legittimati a farlo. Sulla Siria tutti vogliono decidere. E i siriani? Oltre mezzo milione sono quelli che hanno perso la vita, 13 milioni sono i profughi e gli sfollati su un totale di circa 22 milioni di abitanti. La Siria è un cumulo di macerie, i siriani sono feriti, umiliati, traditi da tutti. I bambini nati negli ultimi otto anni non sanno cosa sia la pace. Ospedali, pronto soccorso, scuole, luoghi di culto, interi quartieri residenziali sono stati deliberatamente colpiti. I siriani hanno conosciuto la paura, l’assedio che ha portato alla fame e alla mancanza di cure, la tortura, la violenza di genere come arma di guerra.

Al Assad è ancora lì sulla sua poltrona e parla di “vittoria della guerra contro il terrorismo”. Per il governo di Damasco, va ricordato, tutti coloro che si oppongono al governo sono considerati terroristi e una minaccia alla pubblica sicurezza. Si parla di ricostruzione e sono molti i Paesi che non vogliono perdere l’opportunità di questo business miliardario. La riabilitazione di Al Assad è iniziata anche grazie ad una narrazione manichea che negli ultimi anni si è concentrata nel racconto regime contro Isis, parlando di scelta del minore dei mali. Ma ci sono i siriani, dentro e fuori la Siria, che non ci stanno, che nonostante tutto hanno ancora la forza e il coraggio di opporsi al regime, condannare il terrorismo e rivendicare le loro legittime aspirazioni. I siriani ancora chiedono libertà e giustizia. Chiedono che il governo degli al Assad e tutte le parti che si sono macchiate di crimini contro l’umanità vengano processate e punite. Lo spirito dei siriani non è morto.

Proprio a Dar’à, dove tutto è iniziato otto anni fa, lunedì 11 marzo il regime ha ben pensato di ripristinare la statua che raffigura Hafiz al Assad, come a rimarcare il territorio, a ricordare ai siriani e al mondo che la Siria è la Siria degli al Assad e non esiste alternativa. Per amore della vita, della libertà e per onorare la memoria dei siriani caduti in nome della libertà, a Dar’à la gente è tornata nelle strade per dire no al regime. Otto anni dopo, la rivoluzione siriana non è morta e il mondo ne deve prendere atto, anche se sarebbe più facile dire che è tutto finito.

Diario di Siria è nato nel 2013 dopo il mio primo viaggio ad Aleppo. Volevo creare uno spazio dedicato al racconto di questa tragedia, alle storie che non trovano spazio sui media. Sei anni dopo, vorrei continuare a raccontare con la stessa sete di verità e giustizia le storie dei civili siriani dentro e fuori la Siria. Perché attraverso la libertà dei siriani passa anche la libertà degli altri popoli. Perché i siriani hanno un volto, un’anima, una sensibilità, una dignità che non possono essere consegnati all’oblio. Perché ci sono persone che in questi otto anni sono scomparse nel nulla e i loro familiari e amici ancora li aspettano. Come Abuna, Padre Paolo Dall’Oglio, di cui non si hanno ancora notizie certe, ma che sarebbe stato avvistato a Baghouz, dove si sta combattendo l’ultima battaglia contro l’Isis. Perché tanti colleghi giornalisti e fotografi sono morti in Siria per raccontare la verità.

 

Asmae Dachan

(da Diario di Siria, 14 marzo 2019)


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