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Elisabetta Brizio: I Novissimi tra poetica e poesia
22 Marzo 2009
 

Una allegoria, più di altre, mi ha abbagliato negli

ultimi tempi con la suggestione di un possibile

concetto generale, quella, p. e., che la poesia

stava e sta attraversando una stagione invernale,

un vero e proprio inverno-inferno, che poi,

debordando dai limiti estetici, ci compete e

compenetra tutti. Credevo che, per omologia o

parallelismo, alla discesa del rigore invernale

si appaiasse quello stile testamentario, refertuale,

che si riscontra, con opposte ragioni, da Montale

a Sanguineti, la fascinazione di una poesia-prosa

prossima al grado zero, ridotta, non senza una

certa grandiosità, al rivolo musicale, al balbettio

e al silenzio. Ora scorgo anche l’altra faccia

della medaglia, l’altro versante di una scrittura

dalla qualità semantica altissima. Come accade

per i crepuscolari, quello che poté sembrare un

tramonto “decoroso” conteneva gli stessi indici

dell’alba prossima. Non si tratta di pessimismo

o di ottimismo, ma della binarietà di una poesia

necessariamente ambigua e ossimorica e che

non dipende dal luogo comune delle epoche di

transito o di crisi. In sostanza, noto in tutti i poeti

più significativi di questi anni il medesimo atteg-

giamento: giunti alla fine del tempo e della storia,

ai confini della lingua, inalberano una non rasse-

gnazione alla morte, una tenace resistenza.

Questa non fa leva su un panpoetismo salvifico

né sfonda in una gestualità romantica e

disperata, ma staziona “perenne” e dialogante

con e sulla precarietà assoluta.

Remo Pagnanelli1

 

 

Queste parole dell’indimenticabile Remo Pagnanelli sorgono sulla consapevolezza che i presupposti e le motivazioni estetiche che avevano ispirato l’acceso e intenso dibattito teorico e critico degli anni Sessanta erano ormai consapevolmente oltrepassati, e il percorso della poesia approdato a una visione forse meno problematica (o forse soltanto più assorta e raccolta in se stessa) dal punto di vista delle ragioni pre-testuali, ma non per questo meno feconda sul piano dei risultati più propriamente poetico-espressivi. E, pertanto, le osservazioni di Pagnanelli (che peraltro introducono un breve paesaggio della poesia italiana successiva agli anni Settanta, da Caproni a Bertolucci, da Giudici a Zanzotto, fino a Franco Loi) potrebbero costituire quasi una sorta di ideale conclusione - nel senso che ne tratteggiano il dopo - al discorso sulla Neoavanguardia italiana e sulle sue esigenze di innovazione, per intraprendere il quale occorre guardare più indietro nel tempo.

In uno dei suoi saggi su Guido Gozzano,2 Edoardo Sanguineti si propone di periodizzare la poesia italiana di un Novecento ormai concluso e autonomo, di cui la stagione crepuscolare costituisce, storicamente, l’inizio, e in una prospettiva categoriale l’esperienza chiave. Una linea crepuscolare - secondo una visione metastorica e allargata del crepuscolarismo - critica, eversiva, demitizzante, attraversa tutto il Novecento da Gozzano a Montale, e particolarmente da I colloqui a Le occasioni, senza includere quelle esperienze poetiche di carattere assertivo - tale è, in ultima analisi, quella di Ungaretti - e ripiega, estenuandosi, in forme di vuoto epigonismo, con assenza di echi. Esiste una omologia di significazioni tra i vari enunciati crepuscolari circa la rinuncia (Corazzini), il divertimento (Palazzeschi), il nulla da dire (Moretti), la vergogna (Gozzano) di essere poeta e la prima cosciente esemplificazione di una religione poetica negativa, apofatica, in cui sopravvive la crepuscolare polemica carenza di ragioni ideali: vale a dire la montaliana inattitudine a trasmettere formule definitorie e la sua irrisione nei confronti dei “poeti laureati”. Il poeta riproduce ciò che sperimenta di non essere, esibisce un sintomatico non-contenuto, l’idea di una poeticità come ricognizione in negativo. L’iterazione dell’avverbio di negazione “non”, fino alla duplice negazione nell’epifonema che chiude il montaliano Non chiederci la parola, altro non è che la suprema tragica legittimazione del già crepuscolare rigetto della falsa identità tradizionalmente ascritta al poeta e della stessa funzione vaticinante della poesia. Ma intanto, negli anni Cinquanta, l’ispirazione rinunciataria e al contempo “concorrenziale” dei poeti appartenenti alla condizione crepuscolare si era da tempo esaurita. Nel 1954, in sostanza, Edoardo Sanguineti mostrava - più che una generica insoddisfazione - una piena consapevolezza di dover operare in un altro Novecento - e, al limite, di fondarlo - e non tanto di accordarsi il compito di concludere, esasperandola all’estremo, la linea crepuscolare. Sanguineti parla piuttosto di una “crisi aperta”, da colmare attraverso nuove proposte poetiche, pur non potendo ancora prevederle:

 

diremo che Montale, con il suo gesto di poesia,

prolunga sino all’estremo limite di resistenza, e limitando

al limite le sue innovazioni formali, una linea e una stagione,

proprio come Gozzano una linea, quella medesima linea

crepuscolare, e una stagione, apriva. Il resto, poiché pure vi

fu poi e vi è, su quella linea stessa, fu ed è mera divulgazione,

fu ed è soprattutto mera involuzione. E oggi, su questa come

su ogni altra linea di un Novecento concluso, è crisi aperta.

È la nostra stagione. È storia, dico, che non si racconta, ma,

quando si può, se si può, si fa.3

 

Scriverà di lì a poco Luciano Anceschi che la poesia è un incessante riflettere e indugiare su sé stessa, in una imprescindibile meditazione sincronica tra la critica e la pratica della versificazione. La saggistica allora si insinua nell’arte e si mette alla prova come contenuto. L’essere e il fare poetici sono un operare concomitante del critico e dell’artista, una collaborazione dell’uno con l’altro ”per una sorta di invenzione continua di strutture per una poesia che delle strutture stesse fa il proprio motivo”.4

Non è più solo o tanto, come voleva il Valéry di Situation de Baudelaire, il poeta “classico”, ma precisamente il poeta moderno, sperimentale, d’avanguardia, ad avere «un critique en lui-même». Al Baudelaire simbolista e parnassiano della linea Mallarmé-Valéry (quella, cioè, del simbolismo e del post-simbolismo più eburnei, algidi e cerebrali) si sostituisce, nell’ideale costellazione di referenti della Neoavanguardia, il Baudelaire poeta della perdita d’aureola, della modernità urbana, demistificante e antimitica.5

In quest’ottica, il nesso e il nodo, caratteristici e fondanti della Neoavanguardia come dell’intera modernità letteraria, tra il piano della poetica e quello della critica e quello della creazione si legano strettamente, e divengono anzi funzionali, alla adorniana dialettica negativa (o alla benjaminiana dialettica del tempo storico) che connota il rapporto - dinamico, problematico, conflittuale, e dunque spesso iconoclastico, deformante, straniante - che questo movimento intrattiene con la tradizione e il canone, pur, e anzi (forse proprio perché) profondamente conosciuti e indagati con i più acuminati e agguerriti strumenti critici e metodologici.

Il Gruppo 63 si rifà - almeno nella sigla, nella consuetudine ai convegni come occasioni di incontro e di confronto, nell’intenzione di anteporre l’aspetto formale rispetto ai contenuti ideologicamente caratterizzati - al Gruppo 47, movimento letterario sorto a Monaco nell’immediato dopoguerra allo scopo di riattualizzare la letteratura tedesca dopo l’annientamento anche intellettuale seguito all’esperienza nazista. Intorno al Gruppo 47, il cui iniziatore fu Hans Verner Richter, gravitano artisti diversi come Heinrich Böll, Ingeborg Bachmann, Günter Grass, Paul Celan, Peter Handke, Peter Weiss che si distinguono per un accentuato descrittivismo e per un indulgere all’assurdo e al paradossale (quanto alla Bachmann e a certo Handke, nondimeno, la componente soggettivistica non pare del tutto marginale). Pur nella sostanziale diversità del contesto storico, il modello tedesco suggeriva l’idea di un costante e proficuo confronto; e malgrado la distanza tra i presupposti storici (rispetto al “deserto” tedesco in Italia imperava una cultura retrograda, spossata e al tempo stesso pretenziosa e autorevole, segnata dall’ossessione per l’impegno civile in cui avrebbe dovuto calarsi lo scrittore) pressappoco le stesse erano le intenzioni che accomunavano gli autori italiani a quelli tedeschi: ma da noi l’avanguardia si venne all’inizio configurando nei termini di una sfida, più o meno esplicitamente avviata fin dai primi libri.

Non estraneo allo spirito, al ritmo e finanche ad alcune delle ragioni estetiche dei neoavanguardisti è il richiamo alla beat generation, rispetto alla quale essi si pongono un po’ come Baudelaire rispetto al romanticismo, vale a dire come una sorta di “raffreddamento critico”, di razionalizzazione teorica, di modellizzazione procedurale sul piano delle prassi esecutive e costruttive del testo letterario. Motivazioni peraltro private di quel carattere mistico, quasi soteriologico, accordato dai beat alla poesia, vista e praticata quasi come una sorta di devozione, di surrogato della religiosità, di ambigua santità che si esprima attraverso una versificazione, alla Kerouac, spontanea, senza mediazioni, né ripensamenti. Tanto la Neoavanguardia che la beat generation erano in qualche modo legate alla musica (jazz e bebop in America, dodecafonica da noi). Il bebop in Kerouac si poneva come esempio sovrano da trasferire nell’arte in vista del conseguimento di una modulazione lunga e ininterrotta del verso, come avviene anche nel ginsberghiano Howl, dove il senso si disperde in un debordare linguistico tra profetismo ebraico, slang, locuzioni quotidiane, in una lingua ubiqua, visionaria, ossessiva. Come recita il “credo” del kerouachiano Tridecalogo della prosa moderna, è dentro la vita che va rinvenuta una ispirazione che non sia convenzionale e che non si esprima convenzionalmente: «le cose veramente sentite hanno sempre una forma» (5); «rimuovendo le inibizioni letterarie grammaticali e sintattiche» (13); «lavorare con il pietoso occhio interno nuotando nel mare della lingua» (18); «creando con impeto, furia, senza freni, in purezza, dal di dentro: quanto più folli, tanto meglio» (28). Sembrerebbero quasi dichiarazioni di poetica tratte dagli scritti teorici dei neoavanguardisti, i quali nondimeno, diversamente dai beat, dimostrano di scrivere non solo per una - in fin dei conti - solipsistica esigenza di autoredenzione, ma si pongono anche la questione del destinatario e della decodifica del testo poetico.

Né - e soprattutto - la Neoavanguardia è ignara della lezione del Pound dei Cantos e del Joyce di Finnegans Wake, che per essa sono maestri taciti, impliciti, celati, non dichiarati, quasi rimossi con imbarazzo: antecedenti colossali e ineludibili di sperimentazione linguistica, di pastiche verbale e citazionistico, di assidua invenzione espressiva e manipolazione semantica, mentre lo “sperimentalismo” pur dichiarato, di Pasolini restava, come i novissimi non mancavano di rimproverargli, ancorato a scelte linguistiche e stilistiche legate alla tradizione, tra il simbolismo pascoliano e Verga, e dunque avrebbe presupposto e lasciato trasparire una visione sostanzialmente arcaica e antimoderna della società e dell’uomo. Basterebbe aprire quelle due opere a caso (la seconda, del resto, oggetto di analisi da parte di Eco, vicino al movimento con la sua teoria dell’opera aperta) e balza istantaneamente all’occhio che la procedura, il protocollo, il modulo compositivi sono gli stessi di Laborintus.

A quei giovani poeti che - qualche anno dopo le perplesse riflessioni di Sanguineti, di cui si diceva sopra - avrebbero fondato il movimento della Neoavanguardia la letteratura italiana del dopoguerra appariva consolatoria, sentimentale, e oberata da contenuti sociologici; a questa stagnante immobilità parteciperebbero anche Fortini e Pasolini nella misura in cui continuano a sovrapporre all’argomento trattato una coscienza morale. Nel 1959 Alfredo Giuliani6 scriveva che l’attività letteraria contemporanea era ancora segnata da una tonalità emotiva incline al rimpianto e alla nostalgia, da un intrattenersi sulla stasi, da un rinnovato indugiare sulla “natura matrigna”, da vacue lamentazioni sull’infelicità storica, da una intonazione, in altri termini, neocrepuscolare, che finisce per blandire il lettore piuttosto che aggredirlo, coglierlo di sorpresa e trasfondergli una maggiore vitalità. Quando, nel 1961, usciva l’antologia I Novissimi7 con alcuni testi di Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini e Antonio Porta, Giuliani dichiarava che lo scopo della poesia contemporanea era quello di incrementare la vitalità del lettore, precisando che i novissimi avevano della vitalità una concezione puramente linguistica. La poesia deve essere contemporanea alla lingua attraverso cui la realtà attuale (un “calco reificato e irrigidito degli avvenimenti”, diceva pressappoco Th. W. Adorno) si manifesta con segni confusi, omissivi, elusivi, e per evitare di ricadere in forme pedagogiche e neocrepuscolari deve raggiungere una certa incisività verbale e distinguersi per un modo di fare che diventa il contenuto stesso dell’arte. Nello stravolgimento dell’istituto linguistico è implicita l’esigenza di tentare una riproduzione - insieme a una decifrazione - di una realtà altrettanto devastata, infigurabile, indescrivibile se non per via sperimentale. Scrive Giuliani:

 

il nostro compito è di trattare la lingua comune

con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica

della tradizione, e di portare quest’ultima a misurarsi

con la vita contemporanea. (…). S’intravede, in altri termini,

l’opportunità di riconquistare, almeno nei sentimenti e

negli atteggiamenti, una proporzione tra l’io il mondo e la

società, tra il non-convenuto disordine a noi semanticamente

necessario e lo sfondo storico con le sue forme altamente

pregiudicate.8

 

 

Un uso critico, imprevedibile, vertiginoso, antepredicativo e asintattico dei mezzi espressivi, un rifiuto del carattere “contemplativo” e “argomentante” - di tipo leopardiano - della lingua, uno straniamento della parola, il non-finito, la dissociazione creativa consentirebbero a una poesia concretamente contemporanea di sottrarsi al continuo logoramento che la consuetudine conduce sulle parole. Attraverso un linguaggio che - in una libera associazione come criterio  estetico fondante - ridescriva la vita traendola dall’abitudine che la avvolge snaturandola e che faccia astrazione dalle obsolescenti abitudini retoriche e dalla stessa fuorviante musicalità della lingua, un linguaggio non astratto tuttavia, ma che si definisca come l’esito dell’immedesimazione nella realtà e di una sua decodificazione, la poesia eviterebbe di omettere il proprio scarto dalla vita e dalla sua profonda, sostanziale complessità. La lingua letteraria deve calarsi nel processo del mutamento per venir còlta nella fase del suo compimento e rinunciare dunque al privilegio di una posizione frontale rispetto alla realtà per inquadrarsi all’interno di essa, trasformandosi - come ha scritto Angelo Guglielmi - da «specchio riflettente» in «accurato registratore di processi»9. L’essere poetico sta essenzialmente nel risalimento al progetto e nel disvelamento del legame tra la realtà e la sua raffigurazione estetica. Fare poesia equivale a portare alla superficie la traccia del processo generativo. In tale prospettiva la poesia acquista un carattere di provvisorietà - anziché di perennità -, di precarietà come luogo creativo. E scrive ancora Giuliani, nell’ormai citatissimo passo della seconda prefazione a I Novissimi, quasi un manifesto programmatico retrospettivo:

 

L’affettività turbata dallo sconvolgimento dei termini

di relazione, l’intelligenza che registra la dissociazione

degli eventi mediante la distorsione semantica, le

conseguenti stesure intrecciate del discorso, i giochi

linguistici (neologismi, schizofasie), la similarità tra

il linguaggio del sogno e l’espressione della psicosi, la

giustapposizione degli elementi di logiche diverse, il

linguaggio-sfida, il non-finito: tutto ciò coincide con un’attitudine

antropologica che precise condizioni storiche hanno esaltato

fino alla costituzione di un linguaggio letterario che fa epoca e

da cui non si può tornare indietro. Strozzata apparizione, rito

demente e schernitore, discorso sapiente, pantomima

incorporea, gioco temerario, la nuova poesia si misura con

la degradazione dei significati e con l’instabilità fisiognomica

del mondo verbale in cui siamo immersi, ma anche con se

stessa, con la sua capacità di invenzione.10

 

Più avanti Giuliani nota come l’affermazione di Adorno dei Minima moralia, secondo cui attualmente lo scopo dell’arte sarebbe quello di destrutturare l’ordine costituito, appare del tutto insufficiente. La realtà dovrebbe piuttosto essere assunta quale oggetto nella visibilità del dispiegarsi del processo linguistico e creativo.

Montale stesso, qualche anno dopo, finirà per introdurre nella propria lingua una componente straniante che la violenta e la destruttura, attraverso una opzione non troppo dissimile dalle scelte espressive dei poeti neoavanguardisti. Scriverà la crisi del linguaggio in termini di “antitesi” quale eminente allusione alla drammatica insensatezza della storia. Una antitesi - scrive Maria Corti - «che è essa pure un leit-motiv di Satura, espansione di una figura retorica sino all’altezza riservata un’esperienza umana, a un privato meditare».11 L’ultimo Montale, a partire da Satura, può essere avvicinato alla Neoavanguardia per il suo carattere “postmoderno”, per il suo prosaismo e per il suo colloquialismo, per quel gusto dell’accumulazione caotica che evidenzia impietosamente il carattere materialistico e degradato della realtà contemporanea. Scrive Matteo Veronesi che in Satura «l’artificio dell’enumerazione caotica - reiterato fino alla nausea, come presunto segnale di realismo e di concretezza espressiva, nella poesia di fine Novecento - esprime efficacemente, ma forse senza il necessario impegno etico ed estetico di critica e di rifiuto, l’indifferenziato mélange, quasi si direbbe post-moderno ante litteram, in cui ogni identità perde, dopo una vana ‘lotta’, contorni e caratteri». E, più avanti, che malgrado con Satura Montale mostri quasi di muoversi in un terreno comune alla Neoavanguardia, meglio, di accondiscendere a «un avanguardismo di maniera», nella propria solitudine intellettuale egli si situa piuttosto «alle soglie del non senso, pericolosamente ed irresolutamente sospesi tra parodia e adeguamento, caricatura e omologazione, satira e ludus».12 Peraltro Montale non era troppo apprezzato dai Novissimi, né egli mostrava di apprezzarli a sua volta (li recensì anzi negativamente, soprattutto perché, vicino in questo a una matrice tradizionalista, e avulso dall’avanguardia, guardava con sospetto alle contaminazioni tra linguaggi artistici diversi). Ed altrettanto emblematico è il sanguinetiano Montale, gli ottant’anni ti minacciano (in Mikrokosmos), in cui il poeta è dipinto come un fossile statico e inaridito.

L’arricchimento della vitalità che la poesia novissima intende trasmettere non è tanto di carattere conoscitivo: agire sul lettore significa allargare l’orizzonte immaginativo della sua esistenza. Cosa che può avvenire solo evitando di coinvolgerlo in una visione troppo privata del mondo, ma soprattutto attraverso una riduzione al minimo dell’io poetante quale fondatore di un senso stabile ed emittente di un messaggio impermutabilmente significato. Il poeta novissimo codifica un significato presunto e oscuro e richiede l’intervento del destinatario-decodificatore per una prosecuzione del discorso; e non è un caso che l’antologia si concluda, quasi profeticamente, con un testo di Antonio Porta dal titolo emblematico: “Aprire”. Sulla apertura della poesia Giuliani si è pronunciato anche su uno scritto del ’62, su Il Verri:

 

Sfidare la falsità delle frasi che si vanno dicendo

o metterle alla prova: questo è neo-contenuto. La

visione multipla, rotta, accavallata, la scomposizione

delle persone nel tempo accelerato, la quantità di

disordine che la poesia scatena per dominare, il

riscatto della giocosità intrinseca della frase

dall’oppressione del significato convenuto: questo è

neo-contenuto. Che la poesia chiami il lettore in causa

e lo coinvolga in un lavoro di integrazione e di riferimento

alla propria esperienza: anche questo è neo-contenuto,

neo-comunicazione.13

 

Trattare da adulto il lettore e abituarlo a una fruizione attiva dell’arte è una tendenza particolarmente diffusa tra le poetiche italiane degli anni Sessanta, che in concomitanza con la nouvelle critique cominciavano a postulare il ruolo determinante del fruitore nei confronti del testo letterario. Nel 1958 Umberto Eco scriveva che un messaggio poetico aperto e indeterminato avrebbe costituito «un contributo alla educazione estetica del pubblico comune».14 Rispetto a Giuliani il discorso di Eco su una scrittura che si offra a una interpretazione o a un esito individuali invade piuttosto l’ambito più specifico della formazione o del completamento dell’opera d’arte da parte del fruitore. Sulla scorta della “teoria della formatività” di Luigi Pareyson, secondo cui l’arte non riproduce tanto una visione ma dà luogo a una forma, laddove, Eco scrive, «il termine forma significa organismo, fisicità formata, vivente di una vita autonoma, armonicamente calibrata e retta da leggi proprie»; inoltre Pareyson «ad un concetto di espressione oppone quello di produzione, azione formante».15

La concezione della lettura come esecuzione è una costante dell’estetica di Luigi Pareyson che aveva in un certo senso corretto l’estetica crociana almeno in un punto fondamentale: a una visione dell’arte come intuizione-espressione aveva opposto quella di un’arte quale specificazione del carattere formativo del fare umano. Di conseguenza anche l’atto ermeneutico, momento in cui, secondo Pareyson «recettività e attività sono indisgiungibili»,16 mostra il suo carattere dinamicamente rievocativo - piuttosto che contemplativo - del processo artistico, insieme al suo progetto. Il concetto di interpretazione diventa allora centrale di fronte a un’opera considerata “dinamicamente”, in cui l’attenzione si sposta sul momento genealogico anziché sul prodotto in sé stesso. L’opera come forma, quindi mutevole e indefinita, è comunque qualcosa di definito che al contempo contiene in sé la possibilità di infinite interpretazioni. Scrive Pareyson:

 

Poiché la natura dell’interpretazione consiste

nel dichiarare e svelare ciò che s’interpreta

ed esprimere al tempo stesso la persona

dell’interpretante, riconoscere che l’esecuzione

è interpretazione significa rendersi conto ch’essa

contiene insieme l’identità immutabile dell’opera

e la sempre diversa personalità dell’interprete che

la esegue.17

 

Già nelle poetiche del tardo Ottocento francese si percepisce - osserva Eco - un cambiamento del modo di fare letteratura: il testo letterario viene consegnato al lettore sotto la forma di un messaggio ambiguo, e significato solo sommariamente. Diversamente, l’allegorismo tradizionale esibiva il simbolo come veicolo di un significato altro, ma imposto e univoco, in modo che l’interprete fosse orientato verso una lettura prevista dall’autore. L’allegorismo classico, statutariamente prescrittivo nella misura in cui impone a ogni figura il corrispettivo esplicito referente, differisce dal simbolismo moderno alla cui valenza metaforica è sottesa una maggiore apertura all’indeterminatezza e all’ambiguità. Solo con Finnegans Wake di Joyce si assiste alla produzione di un’opera esplicitamente aperta la cui complessità è tale da necessitare di ulteriori integrazioni. Malgrado ciò, le opere d’arte novecentesche differiscono dal modello classico solo per una maggiore ambiguità e indefinitezza, mentre dal punto di vista della produzione restano sostanzialmente fedeli alla forma tradizionale: in altre parole, esse si lasciano liberamente interpretare come già prodotte. Un’opera aperta di grado secondo si specifica invece come coscienza della partecipazione del destinatario-fruitore - alla stregua di coautore - all’esecuzione stessa del messaggio poetico: il lettore è chiamato a collaborare alla realizzazione dell’opera stessa.

In Opera aperta18 Eco argomenta sistematicamente sulla concezione dell’opera d’arte come messaggio ambiguo che necessita di un completamento da parte del destinatario e stabilisce i diversi livelli di apertura. Esistono opere in movimento in cui l’autore impegna creativamente il fruitore in una collaborazione produttiva, opere che, malgrado ultimate e significate, sono passibili di decostruzione per la particolare complessità della loro struttura. E, più in generale, scrive Eco,

 

ogni opera d’arte, anche se prodotta seguendo

una esplicita o implicita poetica della necessità, è

sostanzialmente aperta ad una serie virtualmente

infinita di letture possibili, ciascuna delle quali porta

l’opera a rivivere secondo una prospettiva, un gusto,

una esecuzione personale.19

 

Opera aperta costituisce il documento teorico più compiuto affine allo spirito della nuova avanguardia italiana, l’ideale sistemazione di tutte le dichiarazioni parziali e isolate sulla necessità di una letteratura dagli esiti imprevedibili che costantemente si facevano sentire nelle poetiche degli anni Sessanta. Scrive in proposito Angelo Guglielmi: «l’incompiutezza è l’unica ancora contro la falsificazione. Giacché oggi la compiutezza, il significato compiuto è la morte di tutti i significati».20 Più tardi Roland Barthes arriverà a parlare di «irresponsabilità del testo» e dell’atto della lettura come un atto «lesseologico» e «lesseografico», un «lavoro linguistico», insomma, in cui ognuno scrive la propria lettura.21

La mistificazione dei significati (in termini di svelamento della consustanzialità dell’inganno al senso esibito) come unica chance della letteratura contemporanea è una teoria di chiara derivazione barthesiana, adattata di volta in volta dai novissimi alla propria disposizione individuale. Le transcodificazioni sanguinetiane - per nominare un caso paradigmatico - visibili nei frequenti passaggi da codici ideologici, letterari a quello dominante dell’onirismo in cui l’inconscio si svela, sono volte a comunicare un significato che è a un tempo vero e falso (Barthes avrebbe detto «posto e decetto»).

Per tornare al discorso più generale di Guglielmi sul carattere aideologico del linguaggio e a quello più radicale di Giuliani sulla trasgressione dei significati convenuti bisogna ugualmente rifarsi a Roland Barthes, che sulla scorta del noto schema già sistematicamente tracciato in Mythologies22 indicava lungo tutti gli Essais critiques l’arduo e crudele compito della scrittura letteraria nell’individuazione di «una parola seconda», sottratta all’«invischiamento delle parole prime»:

 

Spesso si sente dire che spetta all’arte

esprimere l’inesprimibile: bisogna invece dire

il contrario (senza alcuna intenzione di paradosso):

tutto il compito dell’arte è inesprimere l’esprimibile,

sottrarre alla lingua del mondo, che è la povera

e potente lingua delle passioni, una parola altra,

una parola esatta.23

 

Il trattamento del materiale linguistico costituisce per i novissimi un modo di fare che coincide con il senso del testo poetico; vale a dire che anche attraverso un uso irrelato, ossimorico e asemantico dei mezzi espressivi si può formare una struttura significante, indicativa del rispecchiamento della storia attuale con le sue antinomie costitutive e insieme di una esigenza di oltrepassare lo specchio. Scrive Remo Pagnanelli, sull’arte come finzione autocosciente che si svela a sé stessa: «il diritto a una ‘seconda vista’ può essere garantito solo dalla determinazione di fissare lo sguardo sul vuoto dei simulacri e ripopolarli con la presenza di immagini reali o visionarie, non importa, ma appunto autentiche».24

Nel primo convegno tenuto a Palermo nell’ottobre del ‘6325 (in occasione della IV Settimana Internazionale Musica Nuova, che vedeva l’impiego della tecnica dodecafonica)26 si erano già delineate le diverse posizioni sulla nozione di avanguardia e sulla sua configurazione linguistica. Per Alfredo Giuliani l’incompatibilità tra una letteratura di tipo tradizionale e una di avanguardia dipende da un problema di accettazione linguistica e di responsabilità formale: la nuova letteratura non è disposta a valutare una lingua cólta, semanticamente e sintatticamente coerente, come garanzia. La stessa lingua che si definisce comunemente “d’uso” risulta tutt’altro che naturale in quanto ormai istituzionalizzata e disciplinata dalla regolamentazione classicistica. Né si può considerare attendibile il mondo della percezione in circostanze in cui i dati dell’esperienza subiscono uno snaturamento per una intrinseca incapacità di superare quella forma opaca di conoscenza, che della realtà riproduce solo l’evidenza dell’involucro esteriore. Giuliani condivide la convinzione di Adorno secondo cui i contenuti della percezione sono diventati evasivi, inespressivi, quasi a indicare una presenza mancante, dunque insostanziali e, di conseguenza, propone di radicalizzare, sostituendolo con una versione aggiornata, quel concetto di immaginazione già frequentato da Proust e Kafka come luogo deputato a guardare all’interno di una realtà che appare sempre più irriducibile e insondabile: la nuova avanguardia dovrà sperimentare “il realismo dell’invenzione”. Scrivere dunque ciò che si vede, mentre lo si vede e come lo si vede.

Per Giuliani ogni letteratura di avanguardia implica la coscienza dell’ostacolo con cui deve misurarsi lo scrittore in vista di un superamento che può verificarsi solo in un ambito formale; Angelo Guglielmi, lontano dall’associare alla nozione di avanguardia e alla sperimentazione linguistica atteggiamenti antagonistici e stravaganti, intravede in essa la sola opportunità di fare letteratura. Secondo Guglielmi quello che distingue la Neoavanguardia dall’esperienza delle avanguardie storiche non è tanto la negazione di un modo di fare, quanto la negazione che sussistano ancora dei modi di fare o dei diversi criteri normativi. In questi anni non può sorgere una coerente visione del mondo e sarebbe comunque un luogo comune designare tale la scomparsa do ogni concezione della vita, il non-senso, il disordine, la tendenza ossessiva all’infrazione. L’uomo non può inquadrarsi dialetticamente in una storia che ha perso il proprio momento positivo; il poeta patisce gli effetti di questa situazione senza preoccuparsi di rovesciarla o aspirare a rappresentarla patologicamente: soluzione, quest’ultima, che condurrebbe alla pagina bianca o ad analoghe enfatizzazioni del proprio silenzio o della propria impartecipazione alla vita. Autori come Gadda, Robbe-Grillet, Céline, l’ultimo Joyce hanno offerto un esempio credibile di come si possa attualmente fare letteratura: seguendo ideali di poetica maturati in circostanze individuali essi sono pervenuti a un risultato analogo, delineando attraverso uno sguardo impersonale la loro neutralità nei confronti della storia. A proposito di Gadda, Guglielmi aveva scritto qualche anno prima che nel Pasticciaccio «non scattano tanto dei giudizi, delle sistemazioni o dei messaggi, quanto e soltanto delle realtà: realtà non ideologizzate, che rifiutano ogni intenzione e coloritura morale, realtà socialmente non qualificate: realtà esclusivamente fisiche, allo stato neutro».27

L’adozione di uno stile svuotato di espressività e la scelta di misure espressive dal carattere talora parossistico, il mistilinguismo e il pastiche filologico sono forzature funzionali in vista dello smascheramento e della demistificazione di una realtà non altrimenti poetabile, che viene puntualmente contraffatta e alienata ogni volta che si tenta di ridescriverla o di interpretarla. La Neoavanguardia, secondo Guglielmi, deve configurarsi in uno spazio intemporale e senza storia, in una visione simultanea, nell’annullamento dello scarto tra passato e presente, dove la realtà resti sospesa al di qua di inchieste interiori o memoriali, di reazioni morali e di inutili ritorni. Cosa che nei fatti, almeno da quello che si può trarre dall’antologia del ’61, accade solo isolatamente. Al contrario in Pagliarani - per fare un esempio - uno sfondo storico e sociale, oltreché un sottaciuto giudizio morale, seppure dissimulati, scandiscono le vicende della ragazza Carla nel testo omonimo. In Laborintus di Sanguineti è esplicita la qualità interiore, inconscia e quasi da sottosuolo dello scenario descritto; lo stesso titolo, che ricalca quello di un trattato di retorica del sec. XIII di Everardus Alemannus, si specifica come «quasi laborem habens intus» (epigrafe aggiunta da un glossatore anonimo): che equivarrebbe a dire che ho dentro l’angoscia e devo liberarmene attraverso un’indagine psicoanalitica. In Laborintus la situazione di attesa per il verificarsi di qualcosa - la fusione degli opposti e la conseguente ristrutturazione del Selbst del poeta - costituisce il motivo conduttore e unificatore delle ventisette sezioni, oggettivato in una atmosfera mitica, satura di metafore ossessive e assolute che evocano la forma archetipica della “Palus Putredinis”, emblema della condizione fetale e del regressus ad uterum. Sanguineti è tutto all’interno della storia mentre dà l’impressione di perdersi in astrazioni e nel privato della propria coscienza o in pensieri non ancora presenti alla coscienza. Già in uno scritto del ‘6128 aveva parlato dell’impossibilità di pensare un’attività letteraria autonoma e separata dalle strutture storiche, rovesciando la posizione di Roland Barthes secondo cui la letteratura è comunque una falsificazione in quanto espressione di ideologie. Sanguineti trae il segno mitico dalle implicite conclusioni nichiliste cui era pervenuto Barthes in Mythologies e postula una letteratura, qualificata in senso positivo, in cui il linguaggio è l’esito di una riflessione individuale sul mondo. Scrive Gabriella Sica che in Sanguineti «il linguaggio si incarica (…) di farsi espressione di valori pieni e riconosciuti, archetipi di un reale integralmente conoscibile e frequentabile, quindi, univocamente; la scrittura non si istituisce come opposizione linguistica di dati opposti, concatenazione di significati vuoti, ma è mediazione di un corrispettivo reale perfettamente individuabile, strumento di definizione e classificazione di ciò che è esterno ad essa».29

A Palermo fu proprio Sanguineti a contestare la tesi di Guglielmi circa una scrittura ideologicamente neutrale. Il rifiuto delle ideologie auspicato da Guglielmi finisce per caratterizzarsi ideologicamente trasformandosi esso stesso in una ideologia, quella del rifiuto. Anche la proposta di un modo univoco di fare letteratura si rivelerebbe illusoria dal momento che la complessità e l’inconseguenza della storia attuale non possono che dar luogo al moltiplicarsi delle teorie estetiche. Per Sanguineti tutta l’arte di avanguardia da Baudelaire in avanti si è venuta specificando come consapevolezza del proprio rapporto con l’ideologia borghese. Baudelaire - aveva osservato Walter Benjamin30 - si rivolge in Au Lecteur a un pubblico particolare, “ipocrita”, simile al poeta: egli è pienamente consapevole che con la riproducibilità tecnica il poeta ha ormai perso la propria “aureola” e l’opera d’arte la propria spiritualità e individualità, vale a dire quella qualità auratica che in culture non massificate distingueva il prodotto estetico dagli altri generi. Baudelaire intravede l’obiettivo del “flâneur” nel mercato; lo schernitore errabondo vaga tra la folla con lo sguardo da estraniato, non ignaro nondimeno della tragica circostanza di dover dipendere da quella stessa folla di possibili “consumatori”: la superiore umanità del poeta, magistralmente delineata in L’albatros, si è trasformata in una condanna. Benjamin ha scritto che l’adattamento - da parte di Baudelaire - dell’alessandrino a una poetica classicistica costituisce il tentativo di vanificare la concorrenza opposta dalle poetiche romantiche e di avvantaggiarsi quindi sul mercato. Sulla scorta di tali osservazioni Sanguineti31 crede di poter individuare nella concezione dell’arte come merce e nell’eteronomia del poeta il carattere ambivalente dell’avanguardia, dove avventura e ordine - rispettivamente identificabili nel mercato e nel museo - si possono distinguere solo in astratto. Il momento “eroico-patetico” dell’avanguardia è riconoscibile nella vocazione a fare un prodotto artistico incorrotto, che tuttavia ha scarse possibilità di successo sul mercato; il “momento cinico” stabilisce invece l’introduzione, all’interno del mercato, di un prodotto anormale e inconsueto destinato a sconfiggere la concorrenza di produttori meno arditi e lungimiranti: la strada dell’avventura viene tentata per assicurarsi uno sbocco sul mercato. Paradossalmente, secondo Sanguineti, l’arte di avanguardia insorge contro la mercificazione estetica e tragicamente vi ricade. L’obiettivo delle avanguardie è di sottrarsi alla neutralizzazione dell’arte, alla sua morte nel museo, il quale, decretando l’incommensurabilità del valore del prodotto estetico, finisce per descrivere «il prolungamento superiore ed estremo dell’arte come merce».32

La Neoavanguardia deve rispecchiare sul piano formale le vicende dell’opera letteraria - la mercificazione e la sublimazione nel museo - attraverso una discontinuità comunicativa e un sovvertimento dell’attuale sistema linguistico: l’arte diviene sperimentazione nella misura in cui riflette in sé stessa le contraddizioni in cui si viene a trovare la lingua. Nell’equazione ideologia-linguaggio Sanguineti mostra come lo strumento linguistico pur nell’evidente e intenzionale infrazione alla funzione comunicativa della lingua, non faccia mai astrazione dalla storia, quanto piuttosto inevitabilmente finisca per inquadrarsi in una prospettiva storica (in tal senso va letta la citazione foscoliana della prima sezione di Laborintus: «noi che riceviamo la qualità dai tempi»). Sanguineti parla dell’inattuabilità del progetto di una letteratura che si configuri in una sfera di pura neutralità ideologica; la parola letteraria viene inevitabilmente riempita di ideologia in quanto il linguaggio è di per sé una interpretazione della realtà, l’espressione di una visione del mondo. La letteratura, dirà Sanguineti qualche anno dopo, è «una ideologia nella forma del linguaggio».33

Le argomentazioni di Guglielmi sulla intemporalità e astoricità della letteratura di avanguardia e quelle, in tutto antitetiche, di Sanguineti su una avanguardia ideologizzata, cosciente del valore storico delle proprie proposte eversive e della museificazione dell’arte, venivano verificate da Renato Barilli, la quarta “anima” del Gruppo ’63, che a Palermo tentò una mediazione tra le due posizioni che erano parse inconciliabili.34

Con la sua tesi Guglielmi approdava in un certo senso a una svalutazione delle virtuali capacità dell’arte per aver accentuato il momento critico e distruttivo a cui nondimeno non si accompagnava la fondazione di una visione del mondo altra o quantomeno alternativa. D’altro canto Sanguineti tende anacronisticamente a sovrapporre alla nozione di ideologia un sovrappiù di significato - politico, praticistico - che da noi era stato esaustivamente codificato e trasmesso da tutta una letteratura engagée. Secondo Barilli il termine “ideologia” associato all’esercizio letterario viene troppo spesso equivocato con l’espressione di contenuti politici e talora confuso con la lotta di classe; bisognerebbe piuttosto credere che la Weltanschauung sottesa a ogni opera d’arte sia di carattere interiore e comprenda unicamente i contenuti della conoscenza, della psicologia e dell’antropologia. Proprio Sanguineti - osserva Barilli - è caduto vittima del proprio stesso tentativo di allargare illegittimamente l’ambito specifico del concetto di ideologia quando Capriccio italiano veniva accusato di gratuità e di evasività, percepibili nel troppo insistito indugio sul proprio self disseminato in iperboliche raffigurazioni oniriche. In una prospettiva critica più corretta, dove parlare di ideologia equivalga a parlare di visione del mondo, l’onirismo del romanzo di Sanguineti sarebbe stato più adeguatamente valutato come ricognizione e approfondimento di quei problemi di ordine conoscitivo che concorrono allo svelamento di tanti aspetti ancora incogniti della quotidianità.

Ma Giuliani stesso, nell’introduzione del ’61 a I Novissimi, si era posto in termini di intentio operis la questione del nascondimento della soggettività, della messa tra parentesi del proprio io da parte dell’io poetante: «è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente», scriveva.35 Nessuna negazione del soggettivo, dunque: l’io sarà infine recuperato a sé stesso in una superiore e più consapevole visione che ricongiunga il soggetto lirico alla “qualità dei tempi”.

 

Elisabetta Brizio

 

 

 

1 R. Pagnanelli, Paesaggio invernale (o quasi), in AA. VV., Poesia e tempo, Il Lavoro Editoriale, Bologna 1988, pp. 182-183, ora in Studi critici. Poesia e poeti italiani del secondo Novecento (a cura di Daniela Marcheschi), Mursia, Milano 1991, pp. 222-223.

2 E. Sanguineti, “Da Gozzano a Montale” (1954), in Tra Liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961 e 1977.

3 Ibid., seconda edizione, p. 39.

4 L. Anceschi, “Orizzonte della poesia”, Il Verri, 1962. Questo scritto, come moltissimi altri sulla Neoavanguardia, è successivamente confluito nel volume Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Feltrinelli, Milano 1976, p. 89.

5 È d’obbligo il rinvio a Fausto Curi, Perdita d’aureola, Einaudi, Torino 1977.

6 A. Giuliani, “Poesia ed errore”, Il Verri, 3, 1959, ora in Immagini e maniere, Feltrinelli, Milano 1965.

7 I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, a cura di Alfredo Giuliani, Rusconi e Paolazzi, Milano 1961, Einaudi, Torino 1965 (le citazioni si riferiscono all’edizione Einaudi).

8 A. Giuliani, Introduzione a I Novissimi, cit, p. 22.

9 A. Guglielmi, “Avanguardia e sperimentalismo”, Il Verri, 8, 1963, ora in Avanguardia e sperimentalismo, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 53-62.

10 A. Giuliani, Prefazione 1965 a I Novissimi, cit, p. 7.

11 M. Corti, “Un nuovo messaggio di Montale: Satura”, in Strumenti critici, 15, luglio 1971, p. 223.

12 M. Veronesi, “Fra oscurità e autocoscienza. Note su Montale poeta-critico”, Atelier, IX, 36, dicembre 2004, pp. 40-49.

13 A. Giuliani, “La poesia, che cosa si può dire”, Il Verri, 3, 1962, ora in Immagini e maniere, cit., p. 149.

14 U. Eco, “Il problema dell’opera aperta”, comunicazione al XII Congresso Internazionale di Filosofia (Venezia 1958), apparsa negli Atti del Congresso, vol. VII, Sansoni, Firenze 1961, ora in La definizione dell’arte, Mursia, Milano 1968, Garzanti, Milano 1983, p. 170.

15 Id., La definizione dell’arte, cit., pp. 10-11.

16 L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Zanichelli, Bologna 1960, Sansoni 1974, p. 180.

17 Ibid., p.226.

18 Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 1962 e 1976.

19 Ibid., seconda edizione, p. 60.

20 A. Guglielmi, “Il realismo di Gadda” (1963), in Vero e falso, Feltrinelli, Milano 1968, p. 59.

21 R. Barthes, S/Z, tr. it. Einaudi, Totino 1973, p. 16.

22 Id., “Il mito, oggi”, in Miti d’oggi, tr. it. Einaudi, Torino 1966.

23 Id., Prefazione a Saggi critici, tr. it. Einaudi, Torino 1966 e 1972, p. XXIV (i riferimenti sono tratti dalla seconda edizione).

24 R. Pagnanelli, “Ipotesi (ipostasi) per una definizione di visionarietà”, in Scritti sull’Arte, Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2007, p. 17.

25 Il cui resoconto è apparso in N. Balestrini-A. Giuliani (a cura di), Gruppo 63, la nuova letteratura, Feltrinelli, Milano 1964.

26 Tale concomitanza conferma la prospettiva interdisciplinare, già illustrata da Eco in Opera aperta, in cui intendeva inquadrarsi la Neoavanguardia italiana.

27 A. Guglielmi, “L’officina di Gadda”, in Vero e falso, cit., p. 51.

28 E. Sanguineti, “Poesia e mitologia”, in I Novissimi, cit., ora anche in Tra Liberty e crepuscolarismo, cit. pp. 7-16.

29 G. Sica, Sanguineti, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 14.

30 W. Benjamin, “Baudelaire e Parigi”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, tr. it. Einaudi, Torino 1962, pp. 89-160.

31 E. Sanguineti, “Sopra l’avanguardia” (1963), in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano 1965 e 1976.

32 Ibid., seconda edizione, p. 66.

33 Id., “Per una letteratura della crudeltà” (1967), in Ideologia e linguaggio, cit., p. 133.

34 Cfr. in proposito “Il dibattito in occasione del primo incontro del Gruppo a Palermo nel 1963”, in Gruppo 63. Critica e teoria, cit., pp. 264-289.

35 A. Giuliani, Introduzione a I Novissimi, cit., p. 22.

 

 

 

Maria Elisabetta Brizio è nata a Macerata. Si è laureata in Lettere Moderne nel 1983 con il Prof. Alvaro Valentini presso l'Università degli Studi di Macerata. Vive a Macerata. Ha pubblicato su diverse riviste digitali, come Nuova Provincia, Bibliomanie, Zerobook e Pagina Tre.

Questo scritto sui Novissimi confluirà, insieme ad altri, in una piccola raccolta di saggi.


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