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Elisabetta Brizio: Il ritorno di un viandante dello spirito. Ferretti Lindo Giovanni
GLF in
GLF in 'Bella Gente d'Appennino' 2008 
29 Aprile 2009
 

In occasione dell’uscita del nuovo album di PGR affido a Tellusfolio una breve riflessione sul percorso spirituale di Giovanni Lindo Ferretti a partire dal libro Reduce, cui hanno fatto seguito il concerto che a esso si ispira e il readingBella Gente d’Appennino”.

Nel caso di Ferretti parlare di “pentitismo”, come anni fa si sentiva dire, pare oltremodo improprio e quantomeno limitante. La sua è una sorta di lamentazione funebre per le condizioni e gli esiti della “modernità”, che sorge da un profondo avvertimento che si stia pericolosamente perdendo di vista l’essenziale della vita per rincorrere sogni o scopi sostanzialmente vacui, «indifferenti al mistero che ci nutre e ci avvolge» (Cronaca del 2009, in Ultime notizie di cronaca), dalla sua inquietudine «per lo stato di salute del genere umano che si autodetermina sempre di più» come egli ha recentemente dichiarato. Una denuncia, in altri termini, del dramma della ragione («la luce della ragione illumina le tenebre», ibid.) di quello che in Reduce Ferretti aveva definito «uomo totale». In fondo, poi, pentirsi di che? In Un weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli si legge, in risposta alla domanda fatta ai CCCP sul perché del loro schieramento a Est: «scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale, preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio. Alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia». E più avanti l’affermazione «siamo filosovietici e non filorussi» rinvia con esplicita chiarezza a un’esigenza di apertura alle culture arabe e asiatiche e al loro perpetuo incontro-scontro con quella europea. Più che di autentiche convinzioni politiche si trattava dunque, e forse fin dall’inizio, di un nomadismo spirituale alla ricerca del proprio “retroterra culturale e fisico”.

Non mi “schiero” a favore Ferretti per questioni ideologiche o religiose. Praticamente impolitica, purtroppo non sono capace di credere come tanti sanno fare. E, direi dolorosamente, non riesco a rimuovere le perentorie e imbarazzanti parole di Guido Ceronetti, quando in La fragilità del pensare scriveva che «l’ateismo virile è un limite doloroso, una sofferenza e una forma del tragico», mentre quello della donna è disgustoso e «intollerabile» perché «versa sopra di lei come un’imbrattatura di vernice oscena».

Ormai sembra finalmente oltrepassato il tempo in cui si gridava al luogo comune di una presunta incoerenza di Ferretti, di una sua - da molti asserita - non conformità negli anni per l’abbandono di certe ideologie e per il suo ritorno alla fede. In fondo “coerenza” non è che una parola, astratta, in fin dei conti vuota, che inerisce alla logica ma non alla vita. E proprio qualche giorno fa il poeta Paolo Ruffilli in un incontro con Patrizia Garofalo qui a Macerata parlava della contraddizione come principio costitutivo della realtà nonché della lingua, e dell’individuo che attraverso l’immaginazione della realtà come relativa al soggetto si ridefinisce in un creativo incremento dei propri orizzonti, giungendo a conclusioni anche antitetiche, ma che lo inducono a spiegarsi e a riconoscersi nel tempo. «Siamo l’esito di quanto abbiamo vissuto, siamo ciò che ci è accaduto e il modo in cui lo abbiamo elaborato», scrive Moreno Montanari nel suo La filosofia come cura.

Ora, se esiste una “coerenza” pur nella trasformazione, diventa ingiudicabile ogni mutamento personale. Chi mai praticherà la coerenza oltre le parole? Se mai, l’esperienza individuale di Ferretti pare piuttosto semplificarsi, circoscriversi, “regredire” per fissarsi entro i confini dell’essenziale. Leggiamo a chiusura del Libretto rozzo dei CCCP e CSI: «scopriamo del mondo solo ciò che abbiamo dentro, ma abbiamo bisogno del mondo per scoprirlo», e in apertura: «avanti, in movimento, alla ricerca della stabilità».

In Reduce non si assiste alla genesi di un Ferretti inedito, nel senso che già da tempo egli aveva cominciato a fare i conti con la propria esistenza e con la propria memoria (ma anche a riascoltare Linea gotica vi ritroviamo il Ferretti di sempre, con parecchi anni di meno): già con Iniziali BCGLF, Litania (dove il convergere di canto liturgico e canto popolare non sopprime la dimensione esclusivamente terrena dell’esistere), Pascolare parole, allevare pensieri (che prelude a Reduce almeno nella descrizione di una “transumanza” temporale oltreché geografica) e altro, e facendo ancora un passo indietro fino all’esperienza di Co.dex, si avvertivano nei suoi testi - di sostanza più “sentimentale” - una vena maggiormente intimistica e una maggiore spiritualizzazione dei temi, una percezione del tempo come dilatazione, infinitudine e stratificazione, una rinnovata e più consapevole idea del divino (in fondo per molti la fuga dalle pratiche religiose e il distacco dall’idea del sacro non sono state che conseguenze di una morale troppo tassativa e dogmatica, come diceva anche Gianni Vattimo nel suo Credere di credere, in cui peraltro l’autore poi sembrava cavarsela con il ricorso all’interpretazione e con l’adattamento dell’ermeneutica anche all’idea della divinità. Ma è comunque oltremodo apprezzabile l’“imbarazzo” del filosofo a pronunciarsi in maniera definitoria in merito a una questione quanto mai soggettiva e spessissimo tacitamente sofferta), un deciso e diversamente motivato rifiuto dell’inganno e della falsificazione - acriticamente eletti a sistema - sottesi agli “stilemi” di quella che egli definisce “modernità”.

Di Ferretti Lindo Giovanni (così in questi ultimi anni egli usa scrivere il proprio nome, quasi a voler ratificare il suo illuminante cammino à rebours, “in regressione genetica”, nella fattispecie) apprezzo esageratamente la voce, la vocalità, e in particolare il trattamento della parola quale segno della sedimentazione della memoria e del senso, il suo ricorrente rafforzamento semantico attraverso la tendenza all’accumulazione asindetica, la ripetizione ossessiva - talora oppressiva e insostenibile -, l’espressivo straripamento verbale, l’usato “ossimorico” sconfinamento nell’antimelodico dopo una prolungata dilazione dell’elegiaco. Uno stile quasi testamentario, il suo, singolarissimo, che non ha referenti di riferimento e che somiglia solo a sé stesso. Condivido la sua visione del mondo “arretrata” e al contempo profetica, il rispetto per i sentimenti “fondamentali”, il suo sguardo defilato e forse per questo maggiormente accorto sul mondo, il mettere in discussione tanti atteggiamenti approssimativi della “modernità”, (vedi quelli pseudoaltruistici, nella misura in cui chi li pratica «ingrossa il suo amor proprio e il nostro obbrobrio»). La sua esortazione, inoltre, a deautomatizzare i nostri comportamenti, il suo invito a vivere e a non limitarsi a tener dietro ai propri giorni o, ancor peggio, a vivere nell’illusione di star inseguendo la propria esistenza. Chissà se con l’espressione «casi difficili» (titolo di un noto - ed “estenuante” - testo di D’anime e d’animali) oltre che darci un’adeguata - lucidissima e drammatica - definizione dell’uomo contemporaneo, tragicamente situato nella scissione e nello scorporamento, Ferretti non abbia anche voluto dare un nome ai non integrati come tanti di noi?

Ascoltiamolo per l’ultima volta insieme al gruppo in Ultime notizie di cronaca (uscito il 17 aprile scorso), che segna - serenamente, senza strappi - la fine dell’esperienza di PGR, in parole ora irriverenti e acuminate, ora commosse e sussurrate appena come in Cronaca filiale («una madre in bilico tra l’ieri e l’eterno oggi è ieri domani è eterno»), ora spiritualissime come in Cronaca divina, modellate su suoni forse ormai a lui estranei da tempo.

 

Del primo libro di Ferretti ho parlato altrove. Invio a Tellusfolio una mia pagina scritta la scorsa estate, “reduce” da due serate consecutive interamente dedicate all’ascolto - assorto ed estatico - di questo grande cantore.

 

Elisabetta Brizio

 

 

Bella Gente d’Appennino

di Giovanni Lindo Ferretti

 

il pensiero se non finge ignora,

se non ricorda nega

Mario Luzi

 

Ho avuto la fortuna di ascoltare Giovanni Lindo Ferretti per due sere consecutive, in Bella Gente d’Appennino, reading per voce e violino, e nel concerto Reduce, una sorta di ideale continuazione e approfondimento, quest’ultimo, del tour dello scorso anno. Il 26 luglio del 2008 a San Benedetto del Tronto, presso il Museo Pietraia dei Poeti, in uno sfondo atipico ma particolarmente emblematico per Ferretti (come egli stesso ha avuto occasione di sottolineare: mare alle spalle e montagne di fronte), la sua figura morale si ergeva - pur in assenza di palcoscenico - nella notte stellata e suggestiva delle colline sanbenedettesi, accompagnata dagli intimi accordi del violino di Ezio Bonicelli. Dopo aver ribadito nell’ormai noto testo - costruito su raffinatissime e iperboliche rime («Stasera mi sento come mai/ neanche fossi un agente dell’FBI/ mi sento ebbro mi sento ilare/ neanche fossi un cavaliere Templare») - che “le cose cambiano”, Ferretti si è esibito recitando brani tratti dal suo libro Reduce e soprattutto pezzi nuovi, fatti di storia e di poesia, ispirati a un appassionato rievocare quel mondo - di montagna, ma che finisce per emblematizzare una perduta età - senza falsificazioni ormai scomparso, che egli definisce tardo medioevale, legato al ritmo e all’avvicendarsi delle stagioni, un’età che ignorava ogni forma di insofferenza o frenesia nel controllo dei sentimenti e dei gesti. Un mondo ora soppiantato dalla consuetudine alla fretta, dalla tendenza a rimuovere l’idea della morte (vedi la corsa affannosa nella sepoltura dei morti, quasi indicativa di un tentativo di cancellarne le tracce: le pratiche di rito si avvicendano e si accavallano senza rispetto alcuno, e la stessa precipitosa e impersonale benedizione del prete dà la deludente impressione di rientrare nello spirito delle operazioni di routine). Ferretti, tra parole e canto, ha insistito sulla necessità di ricercare il senso delle nostre origini, sulla spiritualità che tutto permea di sé, stigmatizzando la insensata e abusata presunzione di onnipotenza che molto spesso finisce per orientare le azioni dell’uomo contemporaneo, ingannatore di se stesso, fingitore di felicità e certezze implausibili.

Questa quasi ossessiva idealizzazione-idoleggiamento del passato, questa quasi rêverie, il rifiuto di certi aspetti dell’attualità, l’indugio insistito sulla qualità scadente dei nostri tempi potrebbero tradire un disagio, da parte di Ferretti, nel vivere adeguatamente il presente? Non mi sembra il caso suo. Ferretti cerca piuttosto di indicarci l’attuale tragica assenza di riferimenti, si sforza di non dimenticare un’età che ancora mostrava un non generico rispetto per l’individuo e per l’unicità dell’esistenza, in una descrizione di gente bella perché soddisfatta nell’appagamento per sentimenti iniziali, per cose semplici e modeste - ma non banali, tuttavia -, di riattualizzare una visione del mondo non ancora scissa o polare, ma basata sull’unità e sulla calma, estranea alla conflittualità degli opposti; in altre parole, fondata sulla serenità dello spirito e sull’armonia con il tutto. L’uomo contemporaneo sta deviando verso l’adeguamento di sé a un mondo opaco, dove l’assuefazione al proprio lato d’ombra si configura quasi come la sua seconda natura. Nessun rifugio nel passato quindi, né nostalgia arcadica allusa, ma un esplicito richiamo a riconoscere e a identificare l’attuale fatiscente clima di decadenza, la perdita di un non precario punto di riferimento. Un invito forte e imperioso a non omologarci acriticamente ai ritmi, agli stili e alla persuasione dei tempi della “modernità”. Chiamiamola regressione genetica, evoluzione retrogressiva, nostos, matrilinearità: forse, solo per questa via passa la salvezza.

Il giorno successivo, a Loro Piceno di Macerata (in occasione della XIV edizione di ESTEUROPAOVEST) Ferretti, come sempre “in un palcoscenico spoglio, luci bianche, quattro seggiole”, come sempre molto ispirato e con il suo consueto atteggiamento - mai ostentatamente - meditativo, ci ha riproposto in Reduce pressappoco i medesimi temi in forma diversa, accompagnato ancora dal violinista Ezio Bonicelli, dal fisarmonicista Raffaele Pinelli e dagli intensissimi virtuosismi vocali di Lorenzo Esposito Fornasari. Una vera elevazione dello spirito, non un intrattenimento: dopo un esordio vocale Ferretti ci presenta il superbo testo Reduce, Del mondo, Cupe vampe, Ongii, in una performance pressante e incalzante, culminata in Intimisto (a proposito del quale avevo parlato con Ferretti la sera precedente, chiedendogli come avesse fatto a scrivere un tale capolavoro. Dopo averci pensato su un attimo mi risponde: «talvolta le cose erompono da sole». Forse, ma solo quando c’è dietro una mente geniale e abissale come la sua, cresciuta insieme a quel «Muro dentro eretto dagli Dei». Erompono dal dolore, da quell’attitudine alla sofferenza che, come diceva Nietzsche, non può che generare un differente valore tra gli individui e che veicola a una conoscenza radicale, e superiore) e molto altro fino a Barbaro, nel quale Ferretti sembrerebbe rispondere con un vecchio testo a eventuali disapprovazioni nei confronti del suo personale mutamento nel divenire del tempo, ma soprattutto delinea quello che è il proprio modo di essere al mondo: «come gli Avi miei nei silenzi del Nord/ mai dominati mai dominanti mai dominanti mai dominati…». Ma diversamente dai suoi antenati, specie da quelli partiti in guerra, Ferretti è un reduce dello spirito.

Dopo aver recitato un pezzo magistrale sulle mutazioni del paesaggio Ferretti si congeda con un Te Deum e, se non ricordo male, con And the radio plays. C’era un tizio vicino a me che per tutto il concerto non ha fatto che ripetere: “Spara Jurij”. Come provocazione o molto più presumibilmente come segno della propria incapacità di percepire la sua evoluzione personale. Ferretti dapprima sembra ignorarlo, ma alla fine risponde con la sua solita e non affettata cortesia: “ogni cosa a suo tempo”.

Dicevo all’inizio: ho avuto la fortuna di partecipare a una vera e propria lezione di autenticità, a un evento in cui la parola, la sua strenua dilatazione e lo sfruttamento delle sue potenzialità evocative, la vocalità inimitabile dell’artista e la sua visione della vita convergevano e si fondevano in una inestricabile unità, laddove la pur ricercatissima componente strumentale pareva assecondare, sottolineare e conformarsi - attraverso uno sfarzoso e al tempo stesso deferente adattamento - alle intuizioni vòlte “in alto in basso in largo e nel profondo” di Ferretti Lindo Giovanni poeta, profeta, cantore e guida spirituale che imperiosamente ci indica tutta la vacuità e la disarmonia della nostra età agonica e sontuosamente nichilista.

 

Elisabetta Brizio

luglio 2008



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