Alla nota di Marc Fumaroli, accompagnata dall’immagine della Nascita di Venere più celebre al mondo, mi piace dedicare questa ecfrasis imitativa del quadro di Botticelli, tratta dal mio poema in esametri Sirene. Il testo non è semplice sia sul piano linguistico sia su quello concettuale, ma l’opera di riferimento, fondendo insieme elementi neoplatonici e cristiani, lo è assai di più. E chi ha detto che la Bellezza dev’essere facile? (m.c.)
Inno a Venere
O Dea che bellissima sorgi dal mare su un’ampia conchiglia
di dodici coste, una statua incarnando di avorio e di oro,
e inclini l’ovale sublime, ove lente si schiudono ciglia
radiose, che dolgono dolci se guardi al mortale tuo coro,
concedici almeno di alludere fiochi alla sacra armonia
del tuo inenarrabile corpo, di cui a malcelare pudica
un tenero seno riesce alla destra, che all’altra par sia
discorde nell’atto e a spiegare le dita, e universo pur dica
l’aureo ombelico in concordia con essa, dal fianco discesa,
che illeso dagli occhi profani fa l’inguine, tortili masse
reggendo di chiome di miele che, sciolte da languida presa,
fin alle affusate caviglie ben più sfiumerebbero lasse.
O già veneranda nel nome, su acque ricamate di spume
tu avanzi così nobilmente flessuosa a soave veemenza
di Zefiro e Borea che aliando nel duplice stretti volume
di braccia e di gambe, con turgide gote di aerea potenza,
t’invelano oh verso le rive beate di Cipro, e di rose
scevre di spine ti gloriano, erranti frammenti di aurora,
e spingono, rapidi Dei dalle chiome frementi, squamose
le onde, da cui ti disgrembi porgendoti nuda a una Ora.
La ninfa, con candida veste di fiori stemmata di eliso,
che triplici in segno di fede profetano l’Uno ternario,
d’innocuo roseto recinta alla vita e a collana del viso,
perfetto cammeo, di racemi di mirto, tuo grato cifrario,
ti appressa, a coprirti, un regale mantello color di passione,
con cespi di più margherite annuncianti il bel tempo di amore,
e il soffio lo ingolfa, che pare fiammante echeggiar gonfalone
e i seni e le spiagge dell’isola, eterna di dolce pascore,
e in blanda tempesta di pieghe si mescono il manto e la veste
sconvolti e ammansiti dai Venti, di nuvole opache succinti,
e un poco nascondono il bosco stellato di zagare, e queste
esperidi frutti promettono a chi i fieri impulsi avrà vinti.
Ma tu, santità di bellezza, per nostra clemenza e a tua lode
disvolta dal fiume dorato di chiome ebriate dai Venti,
che identiche mai non si videro e come inesausta melode
si sciolgono a perdersi in mille ed in mille sinuosi portenti,
ti ergi bellissima e ignuda per sempre, tu vergine e madre
di tutti i viventi, e la fiamma dei tuoi illimitati capelli
consuma le anime nostre di edenico amore, e leggiadre
le rende e la carne inaureola, e di più ci rapiscono quelli
che il soffio rastrema, esilissimi fili di oro là ai cieli
di primo mattino, una dolce e infinita melode che estenua
di luce una nota e si fa paradiso... Lo svelan gli steli
di umile tifa, che è segno di grazia per l’anima ingenua.
Perché tu non sei, o antichissima Dea, che la idea della donna
che il figlio di Dio generò: la mia stirpe al suo culmine vide
il più giubilante mistero, e in Sistina il Messia e la Madonna
scoprì di ogni velo, e soltanto lo sa chi all’eterno sorride.
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