segue RETROSPETTIVA
La barchetta è un cristallo
La barchetta è un cristallo, e il suo nemico
è il cielo febbricoso tutto nuvole:
se il cielo spande squamette di mica,
la barca esplode in un mucchio di piume.
Anch’io sono invischiato in quel racconto,
e non voglio restare sui suoi margini.
Anch’io sfoglio le pagine del mondo,
come porte che stridano sui cardini.
Anch’io mi appassiono alle macchie di Marte,
oggi la lirica è anch’essa una spècola.
Adoro i tuoi colori, le tue carte,
le tue invenzioni, ventesimo secolo.
Ma non starò come un cane sapiente
a misurare l’altezza dei nani,
e non aspetterò grame prebende
dalla cassa di grassi ciarlatani.
Lo so, più volte mi cadranno addosso
armadi a specchi, muffite dentiere,
ma nessuno dirà che sono un fossile,
dissepolto da stolide macerie.
Come sporche marsine-pipistrelli,
le ombre malate cadano sull’acqua.
Le primavere, le brinate, i geli
splendano sul cristallo della barca.
*
Sempre, per le creature che s’illudono,
l’organo romba in un giorno di luce,
sfavillando di angeli, ma poi
quante menzogne e colori malati,
quante piogge di pece, quanta morte
porta l’amore che parve felice.
Per anni tu vedi in un dolce binocolo
betulle, genziane, specchietti fioriti,
e ad un tratto il sipario si spalanca
su un paesaggio di rami stecchiti.
Quanti archi di trionfo e orologi con musica,
quante false candele, quanti emblemi:
e tutto è soltanto uno schermo
che copre paesaggi di rami stecchiti.
Per anni tu credi a una fulgida fiaba,
tessuta dagli aghi dell’organo in giorni felici,
e ad un tratto t’accorgi che la favola
è un povero armadio di stracci, una vile fanghiglia
uno spauracchio gelido che uccide
le ultime tue speranze, la tua brama
di splendere e sorridere.
Su una macchina inutile
(costruita da un pittore)
Sulle braccia stecchite del tuo meccanismo
si posano stelle e giallastri volatili,
e i fiocchi di carta compongono un prisma
di nevicanti colori, un cielo di coriandoli.
Sospesa in aria con alette di freccia,
tibie di pennelli, sangue di trementina,
la tua macchina becca, scavando una breccia
nel vetro d’un paradiso in rovina.
Figlia di Klee, bislacca slogatura
di barchette, di piume, di rami spinosi,
durissimo ghiaccio, ondeggiante armatura
di nastri sfacciati, arlecchino legnoso:
solenne e furba come un gatto sacro,
altalena d'Astolfo, ippogrifo-meccano,
innàlzati con travolgente spettacolo,
balzando fuori dell’angustia umana.
*
La mia Seicento è un cristallo danzante,
una barchetta perduta tra file di pini.
Ed io temo che al di là del dosso,
dietro un sipario di pioggia verdognola,
spunti d’improvviso ad inghiottirla
una montagna luccicante d’organi.
Già sento nel vento la musica grave,
che schiocca e sbuffa come una vela,
già vedo negli specchi delle rane
il riverbero d’una grande tastiera.
Branchi di nubi giallastre e affilate,
simili a stormi di pesci volanti,
guizzano in fretta verso la montagna,
che sfavilla come una cattedrale.
E in questo scintillío la mia Seicento
sparirà barcollando, minuscola nave
che Dio fa dondolare nel suo palmo.
*
Le perle della notte risplendono sul cielo di zaffiro,
file di scarpe riposano sulla ribalta dei davanzali.
Sento il lamento dei tacchi, il singhiozzo dei lacci,
mentre le signore in bigodini rimboccano il lenzuolo.
Scarpe infangate si coprono il viso,
scarpe sfondate nascondono gli occhi,
scarpe slabbrate sbattono le palpebre:
hanno vergogna dinanzi alle stelle.
Curve sulle suole, si rannicchiano,
mentre le signore in bigodini
con minuscole spugne butterate
cancellano le nuvole e i sentieri
dai piumosi paesaggi delle guance.
Le scarpe scalcagnate hanno vergogna
dinanzi al maestoso rigoglio stellare,
dinanzi ai laghi di gemme celesti.
E con un lungo sospiro ripensano
al dolce luccichío delle vetrine
in cui, navigando fra quinte di specchi,
come agnelli di cera pasquale
issavano la bandierina del prezzo.
Presto o tardi le donne-bigodini,
ora incollate al miele dei guanciali,
le getteranno in un ruvido sacco,
comprando altre barche di cuoio.
Presto o tardi anche queste con invidia
guarderanno, cariche di rughe,
lo sfavillío insolente delle stelle
sui laghi di zaffiro.
*
Attorno alle ruote fiammanti e scoscese del treno
un mare di papaveri si gonfia e gorgheggia
sulla pancia cretosa della terra.
Che gioia per gli occhi guardare la rossa pianura
che il sole punzecchia con spilli di luce,
la distesa di fuoco, il brulicante diavolio
di corolle che urlano come anime di peccatori.
Dentro azzurre voliere, con palpito di piume,
i papaveri muovono un ballo stizzoso e accigliata
finché il sole li nutre, e con creste di galli
beccano l’aria malata del torpido maggio.
Ma, ahimè, quando il sole si stanca del giuoco
e con gesto senile sprofonda in cuscini di nuvole:
il rosso sgargiante dissolve in violacea tristezza
come un raglio violento in mestissima nenia,
e con ispidi peli, con steli tremanti
s'incurvano in flusso e riflusso, perduti, i papaveri,
simili a macabra folla di emblemi di morte.
Fuga
Fermo dinanzi alla chiesa,
nel dolce sole domenicale
un albero di palloncini copre
due mani grandi come le mani di Lazzaro:
per ordine di angeli-finanzieri
il bimbo ne avrà in dono
uno rosso e baffuto,
simile a Pietro il Grande.
Nella pausa che corre tra l’adagio e l’allegro,
fugge il mito di gomma,
stridendo come corda di violino
(ahimè, che buffa è l’orchestra)
e addio, come a una lettera impostata.
Ma quali mani ti riceveranno
dietro le quinte dell’aria?
*
Freddissima notte. Con fiamma violacea
i tranvieri saldano i binari.
Lampade scialbe vacillano al vento,
la luna acquosa nuota alla deriva
per labirinti di lame e di specchi.
I frantumi del mondo intirizzito
graffiano come schegge di cristallo
le nostre mani arrossate dal gelo.
Fra le immense distese della vita
l’anima stanotte abbrividisce,
cullata dalle ali di piccole luci,
nere come semi di papavero.
Nella scatola magica del tempo,
su un fondale di nebbia alabastrina,
danzando fra quinte di ghiaccio
con stivaletti di feltro, balugina
una perfida e dolce ballerina,
la nostra ormai perduta giovinezza.
Weissensee
Da specchi spettrali spuntano i giunchi,
spezzati e sommersi dall’acquivento:
fragili steli con occhi malati,
su cui piangono tremuli uccelli.
Dal verde lucente del centro del lago
dardeggiano strisce di verde biancastro,
stelle filanti lattiginose
sprizzano da gorghi di smeraldo,
per morire sui margini, ove il sorbo
risplende di rosse perline
infilate con aghi di pioggia.
Con grandi archi, con pialle, con tràccole
intere famiglie di rane,
aggrappate alle travi del ponte,
intrecciano un chioccio concerto scricchiante,
cullando il lago come una dóndola
sospesa nel vuoto spazio
della nerissima notte.
*
La luna ha un giallo viso di calmucco.
Il mio cuore è ferito. Sono stanco
delle parole bardate, dei trucchi,
delle lusinghe imbrattate di fango.
Come un'anguria pesa la mia testa,
una terribile luce vi splende,
ma gli uomini meschini sono asbesto,
che la poesia non riuscirà ad accendere.
Come un inerme capriolo sperduto
fra le implacabili mura di Tebe,
sempre il poeta s’invischia nel glutine
di queste seppie che schizzano nebbia.
Rubano ai versi figure e cadenze,
pestando, come cavalli di piombo, la vita.
Aridi, tirano in giuoco la scienza,
dal loro squittire il mio cuore è ferito.
La luna ha un giallo viso di calmucco,
lascia sul mondo una bavosa stria:
da questa gente di stoppa e di stucco
potrà salvarmi solo la poesia.
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INDICE
1 (01 Aprile 2009)
Prefazione di G. Spagnoletti
2 (11 Aprile 2009)
Di me, delle mie sinfoniette
Ultime
Stop
Non era questo il mio poeta
Da quando Dio mi ha abbandonato
Questi detriti di un grande giuoco
Il vecchio, il giovane e le mele di Merano
3 (04 Maggio 2009)
E domani?
Molti leggono ancora «Mein Kampf»
Mi sono scelto una sposa
Scalpiccìo di cavalli di piombo
Di glicini lilla si inonda la vita
La vecchina
Verrai ogni tanto a visitarmi sottoterra
Il mio corpo era un groviglio di piaghe
Verde pastello con zafferano
Racconto
4 (18 maggio 2009)
Osservazioni
Giro con la mia valigia piena di stracci
Dopo il passaggio dei treni
Anche la morte di un insetto
Mandar telegrammi di protesta
Sono arrivati gli antropidi, i paraumani
Il re delle aringhe la notte
Spaurito come Kafka
Rerich veniva da Rjurik
Piatto di piombo striato
Non si può fuggire
Sarò un soprammobile
Una noia agghindata mi governa
Burlina mia, vai alla mostra dei cani
È un servo rozzo di dolore
Vi sono mesi in cui
Sono il tuo accendino
Risata nera di pistola
Ti porterò un gallo
Correre da pagliaccio
I bambini mi guardano
Sono un caffè di provincia, coperto di mosche
5 (01 giugno 2009)
A proposito di «Autunnale Barocco»
Salamandre azzurrine guizzano dal boccale
La testa si perda, d’accordo, ma almeno
Una ragazza di nome Gemona
Questa musica mi entra nelle ossa
Pupazzi di pasta di mandorle e di cannamele
Non si accorgeranno nemmeno
Sai che significa essere bruciati
Come rassegnarsi al termine della morte
Il buon tempo antico era una grossa mela
(alla maniera di Blok)
Saskia non vuole che io muoia
Poesia, sii sana e feconda
6 (01 luglio 2009)
Retrospettiva
L’ombrello
Il pellicano becca il suo petto
Ho pena del fiume Sill
Lucerna piena di fantasmi, il mondo
Ciascuno taglia e ricuce la propria vita
Sul lago, contemplando monsieur Delamour
Tubi di pantaloni, scarpacce muffite
Quand’è pronto il vestito di gala
Vi fu un tempo in cui per le pianure
Dunque il dissidio fra padri e figli...
In ogni goccia di tinta è il presagio
7 (questo post)
La barchetta è un cristallo
Sempre, per le creature che s’illudono
Su una macchina inutile (costruita da un pittore)
La mia Seicento è un cristallo danzante
Le perle della notte risplendono sul cielo di zaffiro
Attorno alle ruote fiammanti e scoscese del treno
Fuga
Freddissima notte. Con fiamma violacea
Wiessensee
La luna ha un giallo viso di calmucco