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Archeologia editoriale. Angelo Maria Ripellino: Scontraffatte chimere (Pellicanolibri, 1987) 2
11 Aprile 2009
 

DI ME, DELLE MIE SINFONIETTE



Vorrei che la mia poesia risonasse come un violino, comunque esso si chiami: violon, violìn, viool, hegedil, Geige, housle, skrzypce, skripka. Anche se storto, se guercio, e perciò chagalliano. Ma non dite di aver udito dalle mie labbra: «Ichbin ein russischèr Jude». Perché, sebbene io sia imbrattato delle fuliggini del Mitteleuropa, nutrito di mille umori stranieri e come arrivato sin qui con un carrozzone dipinto di calderai, tuttavia nella barocca e ferale Sicilia nativa affondano le mie radici. Penso talvolta che questo sradicamento sia la sorgente di tutti i miei mali, della mia vita in bilico.

  

Torno giù a precipizio sovente dal continente all’isola amara, irrorata di luce di agrumi, ai giorni lontani in cui sereno viaggiavo con una modesta famiglia nel caldo di una casetta domenicale, come nel ventre di un ciprino carpio. Poi si versò una giara di olio in soffitta. L’olio colava per gli scalini. Ebbero inizio le sciagure. Il letto si coprì di infausti cappelli. Ancor oggi essi ingombrano la mia poesia. Dell’infanzia insulare mi porto dietro un fagotto di emblemi: il ricordo di dolci comprati alla ruota del monastero, le stanze mortuarie con le salmodianti comari in nero, i presepi con arance e lumie, il basso continuo della tristezza, che pende dai nostri occhi come le cispe di un tracoma e una certa pagliacceria fanfarona.

   

Di libro in libro le mie liriche costituiscono un diario, nel quale la storia privata si intreccia coi fatti del mondo. Dai malumori, dai crucci, dai tentativi di gioia, dagli invaghimenti traspare come in filigrana la desolata demonia di un consorzio tutto in faccende di violenza e di guerra, tutto soprusi, che rendono ancora più grandi la nostra fragilità e malsanìa, l’implacabile senso di morte che vegeta dentro di noi. Per dissipare i subbugli e il malessere, per sopravvivere alla torbidezza infernale dell’epoca, a questo brulichio di scontraffatte chimere, di spie, di segugi, di monatti, di teologi pazzi, non resta che ritornare a simmetrie cézannesche, a sequele di parole tangibili come oggetti, ed accendere mestiche di sfavillanti colori, brucianti girandole di analogie.

  

Nei riquadri delle mie liriche si assiepa, come in armadi onirici, una congerie di ciarpe, un Merz di cianfrusaglie, reliquie ancora lucenti di un esiziale Diluvio... Queste reliquie eteroclite di una tassonomia scombinata, e perciò grifagne, museali, divengono gli attrezzi di un giocoliere. Nomenclatura sono anche i miei personaggi affacciati come feticci alle finestre delle poesie: «bianchi musi di gesso», pagliacci, venditori di oroscopi, garzoni fornai, menestrelli, pupazzi di trucioli, larve febbrili ed altri campioni di un’arca che va alla banda.

  

Creatura a disagio, spaesata, il poeta intona nel folto dello sfacelo i tempi di una sua «sinfonietta», recita i numeri di una guitteria, stralunato, bramoso di cantilene e di Kitsch, e così appassionato di metafisica, da sembrar filisteo, come un archivista di Hoffmann. E per affiorare dalla baraonda della banalità, dal grigiore dell’interazione, non esita a travestirsi, assumendo nomi diversi, a cercare rifugio negli anacronismi, indossando maschere ormai inusitate di incantore e pierrot, sussiegose marsine e bombette.

  

Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti. Un’ebbra molteplicità di rimandi e reminiscenze ricerca e nutre il tessuto della mia scrittura: ombre jiddish, immagini di Klee e di Magritte, motivi di Mahler e di Janáèek, splendori barocchi, truculenze boeme, vampate di zolfo vi convergono come in un gran Baraccone dalle luci malate, contorto da smorfie di clownerie, sconquassato da raffiche di ipocondria e di rimpianti. Al sottovoce, al sommesso, al da camera di altri poeti contrappongo un ardente ordito fonetico, agganci ed incastri di suoni, l’attività dei bisticci, delle ortofonie, l’arroganza della Paronomasia.

  

Ho sempre vagheggiato di trovare un punto d’incontro fra la lezione dei moderni lirici slavi, tedeschi, francesi, di cui mi sono imbevuto e i congegni, le «meraviglie» del nostro Barocco. Per me una lunga fune si tende dalla Martorana alla cupola del San Nicola di Praga. Quando scrissi «La Fortezza di Alvernia», mi sentivo attratto anche dalla lirica del Duecento, da quella più aspra e scagliosa e sdegnata. Amo il giuoco, gli espedienti di musica, la pagliacceria, i capricci verbali, le acutezze, i «concetti», – ma tutto questo non deve girare a vuoto: tutto questo mi serve ad esprimere la mia sofferenza e il malore del mondo. Voglio schivare l’informe, il trasandato, il tritume, le sbavature, la lutulenza, curando sino allo spasimo la compattezza, lo spessore della mia scrittura.

  

Anche se finge altezzoso disdegno per le «inutilezze verbali», quest’epoca ha fame di poesia. Chi ha detto che l’automatismo, le calcolatrici, l’impostura robotica escludano i sogni, la Zauberei, la caligine? Detesto la logora parola «contestazione», ormai guscio svuotata. Ma è certo che il poeta, anche se ne riflette diagonalmente l’aspetto e l’indole, è sempre in dissidio con la società e coi giorni in cui vive. Non ho messaggi né slogans né precetti da sciorinare. Ma far poesia in ogni caso vuol dire difendere la sempre insidiata libertà dell’uomo.

  

Chi può dire che cosa di noi resterà in questo affannoso incalzare di instabili guise, in questa altalena dannata, in questa gara di oblìo, quando saremo gettati nel profondissimo buio, oltre il muro di cinta della Città Terrena, come nel «Labirinto del mondo» di Comenius.

  

Ci si può solo sforzare di sopravvivere, non cedendo alle formule e al balbettio delle mode, restando se stessi, anche se con apparenza di anacronismi. Ma niente illusioni. Qualche tuo volumetto resterà in cima a un perduto scaffale della Biblioteca del Cosmo. E forse lui unto, barbuto, infelice glossatore andrà un giorno a scovarne il titolo nel giallo dello schedario.

 

 

a.mr

 

 

 

 

 

 

ULTIME

 

 

Stop


Non attenderti più, non chiamarti,

consumarsi come una lanterna,

non cercarti, non telefonarti,

nascondere il viso tra le umide mani

piangere in segreto come l’alba,

e tornare da solo in quella strada,

dove cinguettavano i tuoi baci.


Spegnere questo fuoco divorante,

strozzare le idre del desiderio,

non attenderti più, non chiamarti,

scivolare nel tempo e nell’ombra.


Perderti come un mito, e fra vent’anni

ritrovarti, ormai gonfia di buon senso,

con bracciate di figli e di faccende,

e ricordare con te le fugaci

carezze, il sortilegio del distacco.


Biascicando, esprimerti il rimpianto

di ciò che è perduto, che mi lasciai sfuggire:

della tua giovinezza stellare,

del tuo piccolo corpo di uccello ferito.


E sarà scialbo il ricordo, grigiastro, sfiorito,

e nulla potrà risvegliare quei giorni.

 

 

 

 

**

 

 

      Non era questo il mio poeta


Tanti piccoli tremolanti

Majakovskij

come formiche dilatate

ingombrano il mio campo visivo

turbandomi la vista.


Un brulichìo di cose spurie,

di fili e arabeschi di sangue -

di frange deformanti -


Non era questo il mio poeta:

più piccole cose io vorrei,

fontanelle, ciuffette, piccole piume,

e niente urli -

 

 

 

 

**

 

 

Da quando Dio mi ha abbandonato

Non sento l’incanto della creazione,

la bellezza dei colori,

da quando Dio mi ha abbandonato.


Mi illudo che verrà il mio giorno,

dicono di aver fede

vorrei non essere zanzara

che turba la vita degli altri,

ma padrone dei miei nervi,

della mia vita -

 

 

 

 

**

 

 

Questi detriti di un grande giuocoTeatro, e ancora teatro, è la mia sorte.

Che altro mi resta se non incantarmi,

dei bianchi ceroni, dei rossi

tondini sulle guance e di questa irrisione della morte?

Come scope di rusco sono fatte

le parrucche,

sgocciano sangue i nasi di cartapesta,

aspetto miracoli e trucchi.

che altro mi resta?

Vivere sotto una ribalta,

rincantucciato,

bevendo le aspre luci, i riflettori di fuoco,

abbandonarmi abbindolato

a ciò che può ancora salvarmi,

a questi detriti di un grande giuoco.

 

 

 

 

**

 

 

Il vecchio, il giovane e le mele di Merano


Il vecchio sa di dove viene

regge a malapena sotto il peso

dei frutti avvizziti.


Il giovane lo sfugge, non vuole

vedere i mali del vecchio,

la sua cautela, il suo bisogno di aiuto

E anziché assisterlo,

perché il vecchio non vede,

se ne fugge a Merano,

a cogliere le mele,

lascia la stanza ornata di quadri,

preferisce la lurida tenda,

l’ignoto, la miseria,

pur di staccarsi dal vecchio

che lo adora.

***

 

 

 

 

settembre - ottobre 1977

 

 

 

 

2 - segue


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