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Elisabetta Brizio: La dichiarazione d’amore e morte di Hans Castorp
Fabio Nardi: Notte delle mani, 1978
Fabio Nardi: Notte delle mani, 1978 
04 Luglio 2009
 

 

In plaghe remote mi rivolgo alla sacra, ineffabile, arcana notte. Lontano giace il mondo – sepolto nel baratro di una tomba – squallida e solitaria la sua dimora. Nelle corde del petto spira profonda malinconia. In gocce di rugiada voglio inabissarmi e mescolarmi alla cenere. Lontananze della memoria, desideri della giovinezza, sogni dell’infanzia, brevi gioie e vane speranze dell’intera e lunga esistenza vengono in grigie vesti, come nebbie vespertine dopo il tramonto del sole. In altri spazi la luce ha piantato le sue tende gioiose.

 

Novalis, Inni alla Notte, I

 

 

 

Quella di Hans Castorp è la storia di una Bildung. Sette lunghissimi anni nel sanatorio di Davos non sono assimilabili a un incantesimo, a una vacanza intesa nei termini di un’assenza dalla pianura, dallo spazio della vita: come ebbe a dire Gianni Vattimo in seguito a una sua rilettura della Montagna incantata, Hans Castorp «è proprio qui che impara a vivere e a morire».

Castorp scopre il fascino della malattia e in lui si verifica una crescente identificazione con essa. Davos è estraneità alla vita, luogo di disfacimento e di corruzione, dove anche le stesse figure dei sanitari sembrano assoggettarsi all’equivoca seduzione della malattia, sede di una maggiore profondità del sentire. In tal senso Davos, supremo scarto dalla realtà, è il luogo che permette un’esperienza totale della vita. Dirà Hans Castorp a Clawdia Chauchat: «la malattia ti dà la libertà. Essa ti rende… ecco, ora mi sovviene la parola che non ho mai usata! Ti rende geniale!». In Doctor Faustus al binomio malattia-conoscenza succederanno la coincidenza tra malattia e creatività e il rapporto tra l’estetica e la morale attraverso il fallimento spirituale di Adrian Leverkühn. Mann conosce e stima Nietzsche nella prefigurazione di una strutturazione olistica dell’uomo relativa all’arte nella quale l’uomo, pur di essere creatore, patteggia con le forze del male l’assenza di sentimento.

Scrive lo stesso Mann, a proposito di Nietzsche: «nessuno più di lui ha reso omaggio al dolore. “La capacità di soffrire più o meno profondamente determina il diverso valore degli individui”, egli ha detto». La malattia per Castorp non è solo la metaforizzazione del proprio disagio etico e spirituale. La prossimità alla morte di Hans costituisce la fase decisiva del suo apprentissage, la forma essenzialmente dialettica che assume la sua Bildung. Per Mann, nietzschianamente, la malattia è veicolo e strumento di conoscenza; e Nietzsche costituisce un riferimento continuo lungo tutto il percorso di Mann, rappresenta un maestro di morale dal quale Mann deriva l’idea della morte come paradigma etico prima che estetico, come al contrario lascerebbe supporre La morte a Venezia. L’accostamento morte-vita, quello malattia-salute, il motivo del dolore consustanziale alla conoscenza, costituiscono per Mann il tramite dialettico a una conoscenza radicale, nonché l’esito della conoscenza stessa.

Lungo il romanzo Castorp tende dialetticamente ad autonomizzarsi: durante il suo apprentissage si avvicendano deriva e approdo, in una conclusione per definizione provvisoria. E il Bildunsgroman o romanzo pedagogico (in cui nel protagonista avviene una riacquisizione del preesistente che rifluisce in lui) riesce nella misura in cui la figura di Castorp si evolve, dialetticamente, verso il superamento dell’idea della morte tanto come evento negativo di annientamento che come principio della vita. In La morte a Venezia il confine tra etica ed estetica era estremamente labile: Gustav Aschenbach moriva perché voleva morire, così come aveva rinunciato a guarire - e prima ancora a vivere - Johann Buddenbrook, il cui transito breve appare consacrato alla morte. Nella fine di Aschenbach (“ruscello di ceneri”, non a caso significa il suo nome) è possibile avvertire un’accentuazione della componente estetica; egli, avrebbe detto Nietzsche, è un inguaribile décadent; morto in potenza fin dalle prime pagine del romanzo. La simbologia della morte e del sensus finis fa qui la sua comparsa già nell’esordio di Aschenbach: nella inquietante figura che egli scorge nell’ora del tramonto nei pressi del cimitero di Monaco, in quella sinistra del gondoliere, nella sottolineatura della sostanziale affinità tra la bara e la gondola, nell’atmosfera di decadenza e di declino che incombe su una Venezia soffocata da un’afa opprimente. Diversamente, Hans Castorp sceglierà di oltrepassare quella sua iniziale forma di attrazione-inclinazione nei confronti della morte. Quello di Castorp è un percorso iniziatico alla ricerca di un senso ulteriore e aggiuntivo rispetto all’esperienza banale e non problematica della pianura. Morire al mondo della pianura dischiude al protagonista una nuova dimensione: l’aspazialità del luogo cura e incanta fuori dalle consuetudini e permette senza sovrapposizioni le acquisizioni di dinamiche e progressioni intellettuali. La posizione “esterna” di Castorp, anomala al Berghof, gli consente dunque di assimilare innumerevoli segnali informativi senza per questo lasciarsi plasmare da alcuno, accrescendo anzi la propria disponibilità a ricevere i segni dell’ignoto e dell’insondabile.

Lo Zauberberg non è solo fuga da una pianura inabitata dal senso: è condizione ideale vissuta di possibilità di costruzione. Terminato il proprio processo di formazione, Castorp giungerà alla conclusione di dover padroneggiare le contraddizioni insite nell’anima umana; in seguito al suo lungo apprendistato imparerà a dominare e gestire le antitesi per evitare di inquadrarsi in ogni visione unilaterale del mondo. Si assiste insomma all’immissione, nell’anima del protagonista, di una variante normativa che lo renda capace di interiorizzare e di amministrare il Weltschmerz: Castorp finirà per convincersi che l’uomo non debba lasciarsi sopraffare dal senso immanente della morte né deve eleggerla a fondamento esistenziale. Deciderà pertanto di rischiare e di scendere in pianura, vale a dire verso la vita, perché vivere è volere la vita, perseguirla. Ma alla fine lo vedremo sparire e perdersi. Molto nietzschianamente, nella misura in cui tutto è sempre rimesso in discussione. L’avventura di Hans - che frattanto si è riappropriato della propria Erfahrung - non si conclude con acquisizioni definitorie ma con la consapevolezza della crisi: termine ultimo e non ulteriormente investigabile.

A questo punto conviene fare un passo indietro e sottolineare l’importanza ascritta da Castorp alla dimensione organica del corpo, al confluire in esso di “esterno” e di “interno”, all’aspetto clinico, anatomico, chimico e fisiologico della vita che il protagonista deriva e assimila dalla visione del dott. Behrens e dalle sue continue esatte e disincantate informazioni. Questa visione del corpo inclusiva della dimensione interna incide sull’éducation sentimentale di Castorp e si esprime in modo eminente nella sua passione d’amore - un incontro per lui predestinante, la tappa fondamentale nel suo processo di formazione - verso la russa Clawdia Chauchat, figura enigmatica, fascinosa, inafferrabile, la cui ambiguità è allusa anche dal misterioso e inquietante sbattere delle porte associato a ogni sua apparizione. Quella di Hans è una forma ambigua di attrazione: in lei rivede l’immagine amata di un compagno di scuola - in particolare del suo sguardo imperscrutabile - che era riuscito ad avvicinare con l’espediente di una matita, stesso intermediario d’amore per il contatto con la Chauchat: “hai forse una matita, tu?” L’amore di Hans per Clawdia costituisce un tentativo di decifrare retrospettivamente una passione che sfiora l’omosessualità o è riconducibile a una volontà di inabissarsi nella malattia e svanire, lasciarsi trascinare dalla seduzione per la morte? Rispetto a Clawdia Hans vive il proprio stato di salute come stato di minorità e accetta quasi con soddisfazione la diagnosi del dott. Behrens. Del resto per il dott. Behrens non c’è individuo che non sia realmente estraneo alla malattia.

Gli occhi della Chauchat evocano un mondo in cui il tempo pare scorrere distesamente. Diverso è lo scorrere del tempo nella vita, stando alle profondissime osservazioni di Mann sulla temporalità in Der Zauberberg, opera che è stata anche definita Zeitroman, un romanzo sull’esperienza del tempo ma anche sul proprio tempo storico, come lo stesso Mann lascia intendere in “Passeggiata sulla spiaggia”, in apertura del capitolo settimo. E l’immagine stessa del tempo di Davos - che sul piano della narrazione è una forma peculiare di durata, la quale nondimeno evita di fare astrazione dal tempo cronologico per non stravolgere la struttura tradizionale del racconto - si delinea come in sospensione: un tempo straniante, offuscato, lento ed evanescente, essenzialmente legato al movimento e ad accadimenti anche minimi, reificato nel consumarsi delle vite.

Clawdia è il simbolo del mistero e delle forze originarie della vita. Non è il Tadzio di La morte a Venezia perché Hans non è lo Johann dei Buddenbrook. Con lei Hans usa il francese, così come si parlerebbe nel sogno, in un “parlare senza parlare”, un parlare “senza responsabilità”. Un tramite per “sostenere” la verità? Uno iato rispetto alla vita del Berghof, oltreché alla vita della pianura? La traducibilità di una volontà di defilarsi? La dichiarazione d’amore avviene in un momento estraniante in cui un altro linguaggio permette di eludere la realtà. La lingua straniera contiene - in un linguaggio liberato attraverso la dismissione della maschera - un preludio d’arte di amare, di morire e di darsi con la reticenza di una lingua che non custodisce la tradizione di appartenenza e che quindi può essere coniugata con la rivisitazione liberante dell’omosessualità. In francese Hans «parla del corpo di Clawdia» (scrive Franco Rella, in Ai confini del corpo) attenendosi all’astanza dell’interiorità del corpo.

Clawdia è la sola in una festa di carnevale a non indossare la maschera: perché Clawdia è sostanza di conoscenza, è il simbolo della vita, laddove per “vita” si intenda l’incrocio indissolubile di vita e di morte. Prima della partenza, Clawdia darà a Hans una radiografia in luogo di una fotografia («era il ritratto interno di Clawdia, che, senza volto, mostrava la delicata struttura ossea del suo tronco ravvolto nelle morbide forme della carne, forme trasparenti e misteriose, e gli organi della cavità toracica…»), immagine reticente, quest’ultima, che avrebbe sancito l’opacità del corpo. Il tema dell’amore richiama immediatamente quello della morte, emblematizzata dal referto radiografico. Ma amore e morte non sono mai in rapporto ossimorico. La malattia è legata a processi organici ed è dovuta all’amore, mentre la salute è intorpidimento e insensibilità del corpo e dei sensi, è propedeutica alla malattia, stando alle argomentazioni svolte dal Prof. Krokowski durante le sue conferenze («Il sintomo della malattia è un travisamento dell’attività amorosa, ogni malattia è una metamorfosi dell’amore»), e la presenza di Clawdia finisce per insinuare in Castorp la malattia. Amore e morte sono indissolubilmente legati, a dire del dott. Behrens: “è colpa mia se la tisi è congiunta a una specie di concupiscenza?”.

Sulla scorta della visione dell’uomo del dott. Behrens, una visione chimica, anatomica, scientifica del corpo e dell’uomo, la vita si riduce a una perpetua distruzione organica, a una tabe. Una siffatta visione della vita e del corpo non lascia spazio all’opinabile, né tantomeno è metaforizzabile: inesorabilmente, la vita è dissoluzione e corruzione, e solo la morte può sopravanzare le conclusioni della scienza. Anche il motivo dell’amore è ricondotto alla sfera dell’organico. Clawdia ha una bellezza esteriore visibile e altrettanta bellezza interna al suo corpo. Il corpo è congiungimento di materia e spirito, di esteriore e di interiore. La dichiarazione d’amore di Hans non fa astrazione - al contrario, lo enfatizza - da questo aspetto organico, dalla trasparenza e dall’effabilità del corpo, come in un’immagine radiografica che raffigura al contempo la vita e la morte (nella misura in cui ritrae lo scheletro, scrive Franco Rella). La prossimità di amore e morte attribuisce all’amore una superiore completezza e lo trae da qualsiasi forma ordinaria dell’esperienza. Una forma di amore che prescinda dalla morte contiene un’imperfezione, sarebbe amore di superficie, insostanziale, elusivo, defraudato di qualcosa. Esiste invece una vicinanza quintessenziale tra amore e morte. Il corpo, l’amore e la morte sono una cosa sola, il corpo è voluttà, ma anche l’origine e la ragione della morte. È insieme “materia viva e corruttibile, piena del segreto della vita e di marciume”. La morte è degradazione, ma è anche “eterna”, “maestosa”, eternità intemporale rispetto alla distruzione organica verso la quale si sta inoltrando la vita. La montagna incantata non postula un’astratta e “affabulante” cognizione della morte, costituisce piuttosto una rivalutazione della “profondità” della morte nel riconoscimento della sua sovrana dignità e della sua aura di solennità. Questa dimensione oltremondana è un accrescimento della vita e finisce per trarre corpo e spirito dalla loro condizione di stati conclusivi dell’essere. Il corpo, principio di seduzione e di voluttà, è dunque anche l’“immagine umana d’acqua e albumina, destinata all’anatomia della tomba”; e l’amore come sentimento assoluto è un’avventura nella follia:

 

Je t’aime, je t’ai aimée de tout temps, car tu es le le ‘toi’ de ma vie, mon rêve, mon sort, mon envie, mon éternel desir… (…). Oh, l'amour, tu sais... Le corps, l'amour, la mort, ces trois ne font qu'un. Car le corps, c'est la maladie et la volupté, et c'est lui qui fait la mort, et voilà leurs terreurs et leurs grandes magies! Mais la mort, tu comprends, c'est d'une part une chose mal famée, impudente, qui fait rougir de honte; et d'autre part c'est une puissance très eternelle et très majestueuse, beaucoup plus haute que la vie riante, gagnante de la monnaie et farcissante sa panse, beaucoup plus vénérable que le progrès qui bavarde per les temps, parce qu'elle est l'histoire et la noblesse et la piété et l'eternel et le sacré qui nous fait tirer le chapeau et marcher sur la pointe des pieds... Or, de même, le corps, lui aussi, et l'amour du corps, sont une affaire indécente et fâcheuse, et le corps rougit et pâlit à sa surface par frayeur et honte de lui même. Mais aussi il est une grande gloire adorable, image miraculeuse de la vie organique, sainte merveille de la forme e de la beauté, et l'amour pour lui, pour le corps humain, c'est de même un intérêt estremement humanitaire et une puissance plus éducative que toute la pédagogie du monde. Oh! enchantante beauté organique qui ne se compose ni de teinture à l'huile ni de matière vivante et corruptible, pleine de secret fébrile de la vie et de la pourriture! Regarde la symmétrie merveilleuse de l'édifice humain, les épaules et les hanches et les mamelons fleurissantes de part et d'autre sur la poitrine, et les côtes arrangées par paires, et le nombril au milieu dans la mollesse du ventre, et le sexe obscur entre les cuisses! Regarde les omoplates se remuer sous la peau soyeuse du dos, et l'héchine qui descend vers la luxuriance double et fraîche des fesses, et les grandes branches des vases et des nerfs qui passent du tronc aux rameaux par les aisselles, et comme la structure des bras correspond à celle des jambes. Oh, les douces régions de la jointure intérieure du coude et du jarret avec leur abondance de délicatesses organiques sous leurs coussins de chair! Quelle fête immense de les caresser ces endroits délicieux du corps humain! Fête à mourir sans plainte après! Oui, mon dieu, laisse-moi sentir l'odeur de la peau de ta rotule, sous laquelle l'ingénieuse capsule articulaire sécrète son huile glissant. Laisse-moi toucher dévotement de ma bouche l'arteria femoralis qui bat au front de ta cuisse et qui se divise plus  bas en les deux artères du tibia! Laisse-moi ressentir l'hexalation de tes pores et tâter ton duvet, image humaine d'eau et d'albumine, destinée pour l'anatomie du tombeau, et laisse-moi périr, mes lèvres aux tiennes!

 

Dirà il narratore molto più tardi, nel tentativo di verbalizzare “adeguatamente” le lacrime di Hans per la morte di Joachim: «col nome di quel prodotto ghiandolare alcalino e salato che la scossa nervosa provocata da un dolore intenso sia fisico che morale, spreme dal nostro corpo. Egli sapeva che tra i componenti di quel liquido v’erano anche la mucina e l’albumina».

 

Elisabetta Brizio


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