RETROSPETTIVA
L’ombrello
Ferma sulla porta del suo albergo,
tenendo un gonfalone di panno verdescuro,
la signora Seebacher nella notte piovosa,
battendo le parole come zoccoli,
ha ordinato ad una cameriera
di porgerci un ombrello, un vecchio ombrello
dalla cantina in cui s'allineano deluse
corna di cervi, maschere di capre,
perché sulla gelida strada la pioggia
non ci sferzi con umide corde.
Davvero un gentile pensiero, se vuole proteggerci
dal nero tufo di gocce vischiose,
ma abbrividisco guardando l’ombrello
che si gonfia come una schiuma nera
e galleggia nell’aria con ciuffi di seta
e ammicca e ci squadra con occhi di gufo.
La strada è deserta, e l’ombrello ci trascina
tra lingue di pioggia in un lugubre regno,
ci trascina, spietato, schioccando
come la vela a lutto di Teséo,
e i nostri nemici da cento vetrine,
dalle insegne gli tengono bordone.
Matasse, berretti, casacche di cuoio,
coltelli giganteschi, globi da barbiere,
scarpe lentigginose, porcellane baffute,
turaccioli dal naso emorroidale
saltellano di gioia nel vedere
tre creature che vanno alla deriva
sulla calva banchisa della strada,
mentre il ragno, sgranchendosi le stecche,
sventola la sua tela luccicante,
arabescata dagli aghi dei lampi.
Torrente verde con pettini di spuma,
listato di alberi e di treni allegri,
sulle tue sponde, in un bosco, un mattino,
una banda di innumere rosse formiche
con pesanti carriaggi, con lance, con frecce
mi assali strisciando per le gambe pelose.
Ed io che m’ero disteso nell’erba
come un Gulliver piccolo borghese,
guardando il palcoscenico dei monti,
le uova di porcellana del telegrafo,
le scalette dei rami, i balletti delle ombre,
io che m’ero disteso nell’erba,
a ripetere “schön” dinanzi a ogni cosa
come un fantoccio di luppolo,
balzai stralunato, scrollando di dosso
l’eroico esercito che m’invadeva.
Ma le formiche crescevano feroci,
bruciando la mia pelle, e mi pareva
di somigliare a una foglia smarrita
tra i moncherini dei cardi,
di naufragare sotto quella turba
famelica e fangosa, mi pareva
che dai fortini dei monti scendessero
brulicanti plotoni di formiche,
per trascinarmi come un filo d’erba.
E mi colse un brivido d’angoscia.
Ma nella luce d’agosto, tuffandosi
da uno sportello laccato del cielo,
con paracadute iridescenti
angeliche legioni di farfalle
si lanciarono contro le formiche,
per liberarmi dalla prigionia,
per riportarmi nel folto dei sogni.
*
Il pellicano becca il suo petto:
così io consumo la mia vita.
Come immagini assire su un sarcòfago,
da molti anni per me la luce è impietrita.
Quale cinematografo saltante
metterà in moto per me ogni figura,
perché nel liquido trambusto io mi risvegli
dal sortilegio e dall’eterna paura?
Un gelido puntino smarrito nel nulla
inchioda la vista e disgrega il pensiero.
Col suo demente balenìo si trastulla
il mio desiderio di vivere, il mio gaudio nero.
*
Ho pena del fiume Sill,
che geme e si contorce
rasente il cimitero
come una statua d’acqua
sotto un torvo cielo.
Quante squallide foglie vi ha lasciato
l'albero della vita.
Un giallastro fiore da una roccia
parla con una padella sfondata.
Aguzzi scogli, frantumi di vetro
pungono le anche dell’acqua
straziata da turgidi visceri
degli animali che scanna
il macellaio del villaggio,
Georg Holzmann, nemico
d’anatre e di cavalli.
Ho pena di questo fiume,
calvario di bestie innocenti,
sacco di corna e d’ossa
che rotola raspando
rasente il cimitero.
*
Lucerna piena di fantasmi, il mondo
nuotava nelle tenebre. Filari
di statue ricche e burbere usurpavano
il gelido paesaggio allucinato.
E se una statua povera s’ergeva
sul tetro abisso dagli occhi cisposi,
per chiedere al cielo una goccia di gioia,
le altre statue chiamavano il guardiano,
perché il bonsenso non fosse turbato.
Alcune di esse avevano mantelli
trapunti di gemme, spalline fiorite
e denti d’oro. Altre invece soffrivano
e, per ottenere una tegola, un ciuffo
d’erba, una vecchia ciotola, due sandali,
improvvisavano astuzie, avventure,
come nei giuochi d’ombre Karagöz.
Nel teatrino del mondo scarsa luce
batteva sul volto di quelle sculture
che erano avvolte di paglia e di stracci.
Ma in silenzio crescendo dalle tenebre,
come ciclopi atterrando le putride
scene di spettrale cartapesta,
le statue bisognose conquistarono
il caleidoscopio del mondo.
*
Ciascuno taglia e ricuce la propria vita
come un sarto con fili di luna e di tenebre.
Or non è molto Arlecchino mi disse
che la vita è un costume di rombi e riquadri,
su cui si posano farfalle nere,
per imbrattare d’ombra la gioia dei colori.
Ricacciando le squallide, le tetre
farfalle nel circo delle sventure,
noi permettiamo ai cigni sorridenti
di navigare nei laghi di stoffa
fra le tortuose cuciture, ai lembi
di strisce sfilacciate. Con la voce
stridula, ma festosa, essi ripetono
storie non vere, dolcissimi incantesimi.
A quel fragore noi ci addormentiamo,
e il costume comincia a luccicare
di orpelli e di lustrini, che per giuoco
ci muteranno in figure di favole.
Ma le mani resteranno rosse
sotto il pennello diaccio dell’inverno,
e le scarpe sfondate sugli oleosi
crostini del lastrico.
Sul lago, contemplando
monsieur Delamour
“Vuoi nuotare?” mi disse il lago,
aprendo una finestra nell’acqua.
Ma io ero legato come un covone intriso di pioggia.
“Salta sulle mie lame di smeraldo” mi disse,
cullando una distesa di verdi candeline.
Ma io piangevo, prigioniero della mia povera carne.
costretto sempre a guardare come un pupazzo svuotato
le altre marionette che allegramente delirano.
“Vuoi nuotare?” mi disse il lago,
movendo il suo dorso di vetro.
Ma io ero inchiodato come un inutile quadro,
comprato all’asta del Pianto e della Pena.
“Salta sulle mie lame di smeraldo” mi disse,
mostrandomi un grassone dal cranio lucente,
che urlava come una foca tra i coltelli delle onde.
E il mio lamento di bestia ferita, di misera croce
bagnata da scrosci di pioggia, il mio groppo d'angoscia
si sciolse in una violenta risata dinanzi ai tuffi
del comico grassone, del pagliaccio acquatile.
Che importa se mi è negato d’entrare
nella voragine tagliente del lago:
tutti allo stesso modo noi siamo
sacchi di carbone con orecchie di coniglio.
*
Tubi di pantaloni, scarpacce muffite,
mutande gialle, lingue di cravatte,
enormi vele di vecchie camicie,
ed altre cose che non s ‘addicono ai
versi.
Come se un filo di luna o un tappeto di stelle
fossero a noi più vicini
d’una giacchetta striminzita.
Come se i braccialetti di corallo,
con cui il tramonto adorna
i polsi sottili dei rami,
fossero a noi più vicini
dei vecchi materassi.
Scarpacce muffite, maniche piene di vento,
cintole dagli occhi scerpellati,
ed altre cose che non s'addicono ai versi.
Come se le gemme e gli smeraldi,
tutte le stelle e le piume dei cigni
ci consolassero meglio
d’un paio di calzoni.
Come se l’universo,
tremante, brullo, infreddolito
sotto le fruste di ruvide piogge,
non avesse bisogno di lui
di giacche, di calde camicie,
di maglie, di materassi
e di altre cose che non s'addicono ai versi
*
Quand’è pronto il vestito di gala,
mancano sempre i guanti bianchi.
Quando la crema nerissima è pronta,
mancano gli stivali dei bicchieri.
Lo so: è un episodio la nostra fatica,
apparizione fugace d’un servo in livrea,
che porta una lettera in uno splendente vassoio.
e poi scompare. Per sempre.
Ma non mi consolo, signori, se penso
che, quand’è pronta la festa con ori e con ciondoli,
manca il violino, non vengono gli ospiti.
Mentre noi con furore burlesco
stringiamo il torchio dell’orologio,
qualcuno soffre, qualcuno si spegne,
come una stazioncina abbandonata.
Quanta enfasi! Gonfia è la vita,
come la chioma di un albero pregna di vento.
Tu hai vergogna di piangere, se intorno
c’è qualcuno che ride, non puoi affliggere
la verde gaiezza degli altri, coprendo
con cera di lacrime l’arnia degli occhi.
Tu hai vergogna di ridere, se intorno
qualcuno geme dietro una tendina,
non puoi strappare con la tua esultanza
la filigrana vischiosa del pianto.
Così non ti resta che fingere
come fanno le foglie, le nuvole, il cielo.
E insieme studiare ogni giorno,
come una lista di astrusi vocaboli,
le aride smorfie degli uomini.
*
Vi fu un tempo in cui per le pianure,
in paesaggi brumosi, galoppava
una schiera di esausti pellegrini.
Lanterne di stelle su tremule pertiche,
manieri diruti con elmi di luna,
alberi dalle braccia di vajang,
gonfaloni di foglie stemmate
traballavano agli occhi dei viandanti.
Lacrimando, affiorava dalla nebbia
un laghetto con salici-fantocci,
curvi sotto il tamburo della pioggia.
Minuscoli fermagli sfavillavano
nei capelli dell’acqua, sulle sponde
ridevano ciuffi di erbacce maligne
con l’etichetta ingiallita “incantesimi’
mentre, per invescare i pellegrini,
sui frantumi delle onde si specchiavano,
come evanescenti statue d’acqua,
rozze rusalke adorne di lustrini.
Ora quel tempo è sfumato, le felci
nelle notti d’agosto non fioriscono,
i capelli rossi delle streghe
non spruzzano fiammate sul paesaggio.
Altre illusioni sdentate ci affliggono,
altri fantasmi danzano ai nostri occhi.
Ballata, sorella ballata, nessuno sa accendere
sull’arida crosta del mondo una torcia,
perché splenda di nuovo la tua notte,
la grande notte dagli occhi lacustri,
in cui crescono gigli incantati
e i morti svaniscono al canto del gallo.
*
Dunque il dissidio fra padri e figli...
Ma se nessuno ardisce di lottare?
L’indifferenza, il torpore ci imbrigliano,
sbagliano bersaglio i nostri spari.
Invece di opporre le nostre scoperte
a un mondo che si sgretola e dissecca,
noi strisciamo come le lucertole
sotto le siepi scontrose dei vecchi.
Ci illudiamo che basti un po’ di verde,
perché un quadro si metta a cinguettare,
in scaramucce da caffé si perde
l’arida nostra brama d’innovare.
Che cosa diranno al bruciante futuro
le nostre facce di guttaperca,
ora che le barchette dei siluri
volteggiano intorno alla terra?
Di giorno in giorno sempre più ci insidia
la volgarità, la freddezza dell’anima.
Perfida e truce come Dalila,
la menzogna abbagliante ci chiama.
Che parole, che sogni, che speranze
porteremo alle stelle lontane,
noi, fantocci abulici, arroganti
eroi di crolli, di detriti e frane?
*
In ogni goccia di tinta è il presagio
d’una grande nuvola dipinta,
ogni timida gabbia è solo un plagio
dell’immensa, inutile arca biblica.
Il tramonto si gonfia in un’arancia
che schizza sul mondo bagliori rossicci,
è una giostra di lèmuri la ràncida,
livida notte di sporco traliccio.
Tra le ciglia lunghissime ogni donna
sorride come una mummia di Menfi,
le trombe d’oro sono sempre l’ombra
di lontani soli incandescenti.
Tutto somiglia e si ripete. Gli alberi
s’accartocciano in forma di violini,
su cui il vento suona i suoi ballabili,
imperlati di gocce smeraldine.
La nostra vita è una ricerca assidua
di nascoste e preziose affinità:
spuntano come le orecchie di Mida,
svelando il magico della realtà.
Noi versiamo nei suoni e nei colori
un rigoglio di accese somiglianze,
perché sia il verso analogia di gioia
e il quadro identità della speranza.
6 – segue