Si riporta l’intervista di Claudio Marabini a Mario Luzi, apparsa sul giornale La Nazione 08/01/1991, per i contenuti, che sebbene espressi dal poeta nel 1991, invitano oggi a un’attenta riflessione sulla nostra realtà; un’ottima lezione specialmente per gli studenti che si accingono a sostenere la prova di maturità.
Vorrei che questo scritto suscitasse in chi legge la stessa emozione che provai io, quel giorno che in Santa Maria del Fiore, a Firenze, ebbi la fortuna di incontrare il poeta in occasione della rappresentazione di una sua opera. Un incontro incisivo e indimenticabile.
Trascritto per i giovani e non, perché le grandi voci non muoiono mai. (Anna Lanzetta)
A colloquio con Mario Luzi
sulla condizione dell’uomo oggi
Firenze – Siamo agli sgoccioli del secolo e del millennio. Che cosa augura il poeta Mario Luzi all’umanità?
«La pace. Mi pare che da tutto il mondo questa aspirazione si faccia sentire. I movimenti pacifisti non sono polvere negli occhi, corrispondono a un’esigenza profonda. L’augurio è che la cultura dell’avere si converta in quella dell’essere».
Agli occhi di un poeta, quali sono stati i maggiori errori degli uomini in questi ultimi tempi?
«Avere usato la natura come strumento di potere e avere usato in modo utilitaristico la ragione. La ragione umanistica contemplava il mistero. L’uso parziale della ragione, invece, è violenza e costrizione. Da cui la nevrosi e questa cultura dell’avere e del produrre. C’è stato il progresso, ma a prezzo molto alto».
Quale spazio possiamo affidare alla speranza oggi?
«La speranza non ha bisogno di spazio. È una forma dell’anima. Anche se la comprimi, la speranza finisce per vivere. La speranza è contrastata dalla realtà oggi più di sempre, ma è indomabile».
Scienza e tecnologia ci hanno regalato il benessere. Fino a che punto siamo in grado di amministrarlo?
«Scienza e tecnologia hanno servito l’uomo, ma lo hanno anche asservito. Alla loro carica inventiva non è corrisposta una crescita della maturità coscienziale. Siamo arrivati a errori tragici, Valga il mito di Archimede, sulla distruzione di certi strumenti per l’uso dei quali l’umanità sia impreparata. Non predico l’interruzione della ricerca; la scienza deve fare esperimenti; ma bisogna augurarsi una crescita parallela delle responsabilità. Occorre una grande etica: parola che mi pare torni di moda».
Il mutamento continuo, la veloce evoluzione d’ogni cosa, caratterizza la nostra giornata. Che cosa c’è di positivo e di negativo in questa condizione?
«Il mutamento è un fondamento, un’essenza dell’universo tutto. Ora però ne abbiamo una nozione bruciante: tutti i processi sono accelerati. L’idea di mutamento si traduce in una specie di dimostrazione continua e perturbante. Non si fa a tempo a impadronirsi di un dato che già è superato. Il positivo sta solo nella capacità umana di farlo proprio e dominarlo. Il mutamento in sé non è né positivo né negativo. Sta nell’uomo…»
In ogni caso, è ipotizzabile un’accettazione di questo mutamento come stasi? La continuità del mutamento potrebbe essa stessa apparirci come stabilità e fornirci un nuovo metro morale?
«Citerò un mio verso: “…e l’immobilità del mutamento…’” Ecco: questa perpetuità genera la stasi. Non ho mai visto contrapposti Parmenide ed Eraclito. La stasi però potrebbe condurci all’inerzia morale. Oggi vediamo in campo politico mutamenti apparenti, al fine di restare fermi. La nota morale di Lampedusa… Potrebbe diventare un pretesto cinico. Deve intervenire invece la facoltà critica e il senso morale dell’uomo, che vuole che certi mutamenti non siano neutralizzati dalla ripetitività».
Come reagisce, o dovrebbe reagire, il sentimento religioso davanti a questo mutamento? Su che cosa far leva, quando ogni cosa, anche nella sfera etica, sembra non durare dall’oggi al domani?
«Il sentimento religioso, che ha tante facce, certamente dà importanza al mutamento. Lo vedo come un processo forse divino. C’è il mutamento illusorio degli Indù mentre i buddisti traversano questa condizione per trovare il punto di coincidenza col cosmo. Il cristianesimo, non avendo negato la storia, possiede una teleologia. Il mutamento va in una direzione. Teilhard ha parlato del Cristo omega, perfezione finale. Secondo me c’è una progressione. In duemila anni di cristianesimo la coscienza del male è cambiata. C’è stato un affinamento etico. Anche nell’interno dell’uomo penso ci sia questo processo. Se si fanno tre passi avanti e due indietro, comunque un passo è stato fatto. Abbiamo perduto molte cose, ma se guardiamo alla condizione morale dell’uomo, forse un’evoluzione c’è stata. Se pensassimo che l’uomo è sempre uguale a se stesso, accetteremmo un pessimismo totale e aboliremmo il lato agonistico dello sforzo, che è già positivo. Ci resterebbe solo il lamento».
In questo panorama storico e morale qual è la funzione della poesia?
«La poesia fa sentire certe esigenze di fondo, certi impulsi della natura umana, che la condizione storica violenta dell’Europa ha soffocato, represso. Davanti alla poesia, se uno sente la voglia di ascoltarla, si risvegliano certe pulsioni che ci sono state sottratte. La poesia, come codice interno, è un deposito di quello che è costante nell’uomo, che il corso della storia moderna, occidentale in particolare, ha combattuto. All’uomo è stato chiesto di servire a delle speculazioni che sembravano a suo favore, ma non lo erano. Sono stati travolti anche gli inventori, tuttavia. Un imbroglio abbastanza sinistro…»
Fino a che punto un poeta può agire sulla vita d’oggi? Deve o non deve cercare di agire?
«La poesia è uno degli agenti di profondità, certo. Ma non è misurabile. E tuttavia, non è la stessa cosa che Leopardi ci sia o non ci sia stato».
Ha qualche colpa la letteratura in genere, o la poesia in particolare, per la condizione in cui oggi vive l’umanità?
«Mah… il discorso è controverso. C’è stata una letteratura di denunzia e intelligenza della condizione storica, che ha forse avuto un’efficacia. Penso a Zola, in qualche misura a Tolstoi. Ma se c’è una letteratura che ha meritato, ce n’è anche una che ha demeritato, non s’è accorta di nulla, ha scantonato. Tutto dipende dal grado di cinismo. Nel silenzio c’è una viltà. Di Mallarmè che cosa diciamo: che è stato un traditore? Direi di no. Tutto il dolore della sua epoca in lui c’è. Direi questo: dove sono esistite una letteratura e una poesia al più alto grado di servizio, o di esercizio, il tradimento non lo vedo. Lo vedo invece nella cattiva letteratura, che è quella del compiacimento. Ma noi dobbiamo scegliere il meglio. Dove la letteratura è stata se stessa, lì non vi sono colpe».
Come poeta, fino a che punto lei si sente spettatore, e fino a che punto invece si ritrova coinvolto negli errori di tutti?
«Mi trovo coinvolto negli errori, è chiaro. La condizione moderna è quella dell’uomo massa. Non c’è scampo. In altre epoche forse esisteva, ma con ingiustizie… Però mi trovo anche in una situazione di contrapposizione intellettiva ed etica, mia personale. L’epoca non ci salvaguarda, però non ci obbliga a giustificarla. Ci lascia questo margine, purtroppo poco usato. Il poeta ha quel momento di elementare verifica; c’è qualcosa che gli fa toccare con orrore o entusiasmo un minimo di verità umana. Puoi misurare l’errore».
Che cosa deve chiedere il più umile dei lettori a un poeta, oggi?
«Sarebbe bello che chiedesse… Sarebbe bello che il poeta rispondesse. Mi piace molto immaginare il lettore che chiede. Il poeta non può rispondere, ma intanto è gratificato, si sente utile».
Nella prospettiva del millennio che si sta chiudendo, quali poeti degli ultimi due secoli sente più presenti o più vicini alla sua sensibilità e alla sua idea della poesia?
«Il più presente è Leopardi. Non solo presente ma anche…futuro! Ha indicato cose che si vengono misurando solo ora. È una mente sovrana che ha capito, presagito, e anche reagito preventivamente a molti degli inghippi della condizione moderna. Poi Rimbaud; Hoelderlin: anche lui con questo sogno di conciliazione di un mondo lacerato da questa civiltà… Poi nel Novecento, direi Eliot, che mi pare fondamentale».
Si sentirebbe di spingere un giovane alla pratica della poesia?
«Certo. Quando però mi rendessi conto che non potrebbe fare altro».
A queste risposte vorrebbe aggiungere qualcosa a suo piacere?
«Una considerazione letteraria: che, pur dopo il crocianesimo, siamo ancora prigionieri dei generi letterari: la poesia, la prosa, il teatro. Lo misuro su me stesso. Ho scritto dei drammi, per i quali passa la mia poesia. Essi non vengono captati. È capitato a Eliot, a Pasolini… La drammaturgia attuata genera mutamenti nella poesia, non è un’esperienza a parte! Pare si pensi ancora che la sola poesia sia quella lirica».
Claudio Marabini (La Nazione, 08/01/1991)
Grazie, poeta Mario Luzi, per la grande eredità che ci ha lasciato con le sue opere e il suo pensiero. (A. L.)
La giovane ebrea al suo amato musulmano
C’è una pozza di sangue tra te e me.
Mio Dio, chi l’ha versato?
chiunque sia stato,
caro, è sangue sprecato.
Ma io so che l’amore
mio, se mi aprirai le braccia,
potrà vederlo asciugato.
Vieni, non tardare.
(Mario Luzi, Parlate, a cura di Stefano Verdino, Interlinea)
Mario Luzi (Firenze, 20/10/1914 - Firenze, 28/02/2005); poeta e scrittore.