15.
Sono pieni, i muri, di manifesti. Hanno imbrattato anche quelli che meriterebbero un po’ di rispetto.
E’ una cascata di slogan forti, a effetto.
Un fiume di giornali parlati, con accuse pesanti, passa da una strada al’altra, da una piazza all’altra.
Fabiani fa comizi alle Cure, davanti al Pignone e alla Galileo. Va in San Frediano, in Santo Spirito, di prima mattina in San Lorenzo. Parla delle cose fatte e, per quelle non fatte, punta il dito contro Roma matrigna.
Fa lo stesso La Pira, che spesso si affida ai Vangeli. Parla piano, a braccio. Non sempre conclude il periodo. Accavalla gli argomenti. Ma pone l’accento, costantemente, sulle cose non fatte, dimenticate dalla Giunta Fabiani. E la croce della povera gente. “La sua croce è la mia croce”.
Di notte, gli attacchini delle due parti si guardano in cagnesco. Qualcuno viene beccato a strappare i manifesti nemici, e si passa alle mani.
Si respira aria pesante. Da ultima spiaggia.
Torno da Fabiani. Sono obbligato. Bilenchi ha allargato le braccia. “Non possiamo farne a meno”.
Fabiani sembra frastornato. Non è il suo clima. Ma non può tirarsi indietro.
“L’ultima cosa che c’è da augurare, a Firenze e ai fiorentini, è un sindaco monaco, che si rifà a Savonarola. Che parla di peccati e non di problemi, di sofferenze. La Giunta ha fatto quel che poteva. S’è comportata bene. Ha operato con onestà”.
Arrivano pezzi grossi da Roma a dare man forte ai due.
E Piazza della Signoria trabocca di gente, di bandiere, risuona di applausi e slogan feroci.
E’ una primavera dolce. Invita a uscire, la sera. E il pomeriggio a fare una scappata alle Cascine o in Boboli.
Vedo coppie, che immagino felici.
Ascolto parole piene di promesse.
Ho nostalgia di Lucia.
Non ho più con chi parlare, con chi sfogarmi.
Bilenchi mi ha chiesto: “Come va?”
Ho risposto la verità: “Faccio fatica, ma va. Faccio fatica a rendermi conto, a prendere atto che non era una storia d’amore. Per lei”.
16.
I rumori della redazione, di primo pomeriggio, sono minimi.
Bilenchi è nella sua stanza. Ostenta calma.
“Non ti fischiano le orecchie di questi tempi?”, mi chiede, l’aria da falso innocente.
“No”.
“Strano”.
“Vale a dire?”
“Parlano tanto di noi due in certe stanze”.
“Stanze con falce e martello, per intendersi?”
“Preciso”.
“Non hanno altro di che parlare?”
“A qualcuno, le tue due interviste con La Pira sono bocconi amari, che non vanno giù”.
“Di quelle con Fabiani, si guardano bene di parlarne”.
“Figurati. Atti dovuti. E c’è chi ha contato le righe”.
“Non ci credo”.
“Libero di non crederci. Ma è così. Gli è andata male, però. Le differenze sono minime, e non tutte a vantaggio di La Pira”.
17.
I giochi sono fatti. Domani, domenica 10 giugno 1951, si vota. Comunali e Provinciali. I seggi chiuderanno alle 15 di lunedì.
Il fatto, che ha stupito un po’ tutti, è che Fabiani è stato portato anche alle Provinciali. In un collegio giudicato sicuro.
Ma un’altra cosa ha stupito – forse - di più. La Pira si è rivolto a Togliatti, in partenza per Mosca, e gli ha consegnato una specie di messaggio diretto a Stalin. Un messo che invoca “una soluzione politica della guerra in Corea”. Togliatti non s’è rifiutato.
La Volpe, incontrandomi su Ponte Vecchio, mi ha detto: “Vedi con chi abbiamo a che fare? Con un bolscevico del Vangelo. Ma dove vuoi che andiamo. Sai cosa ha risposto a uno che gli ha fatto notare che sarebbe stato meglio evitare? Sai cosa gli ha risposto? Gli ha risposto con una delle sue frasi, quella che gli piace di più quando tratta certi temi. Gli ha risposto: ‘Caro amico, le rondini tanto fragili volano da un continente all’altro. Non è un prodigio?’. Io non l’ho capita tutta. Ma con quelle arie da San Francesco…”.
Rido: “San Francesco o Savonarola?”
“Mischiali e viene fuori lui. Una persona assurda. Ma c’è modo di fermarlo? Eppure va trovato. Prima o poi”.
18.
Cronache di ordinari litigi ai seggi tra scrutatori, rappresentanti di lista, gente schierata, ligia alle direttive: niente lassismo e occhi aperti su tutto. Conta anche un voto.
Ambulanze in movimento. Medici condotti pronti a redigere certificati d’invalidità per consentire l’accompagnamento in cabina di un anziano (uomo o donna che sia) da parte di un familiare o di un conoscente, o fatto passare per tale, e non altri che un agit-prop di partito. Monache dispensate dalla clausura per raggiungere i seggi. Le sezioni dei partiti e le parrocchie mobilitate.
Che nessuno si muova dai seggi. Pensiamo noi a portare mangiare, bere e anche le sigarette. Ci si può allontanare quei cinque minuti necessari per andare al gabinetto. Ovviamente, se c’è un altro rappresentante dello stesso partito.
Muore un anziano mentre sta votando in una sezione del centro. E, per far entrare un’inferma su una lettiga, un seggio viene sbaraccato mezzo.
19.
I risultati arrivano piano piano. Bilenchi mi dice d’andare a fare un giro per i seggi del centro eppoi devo piazzarmi in Prefettura e uscirne a risultati ultimati.
Non credo sia il posto migliore e glielo dico.
“Lo so. Ma alla sede del Pci mando un altro”.
“Ho capito. C’è il veto su di me”.
“Non ho avuto imposizioni. Sono io, questa volta, che voglio evitare”.
“Mandami dai democristiani, allora”.
“Vai in Prefettura. Ma non da solo. Ti dò una spalla. Se i telefoni sono intasati, puoi farle fare il piccione viaggiatore”.
“È una donna?”
“Sì. Viene dalla provincia di Siena. E’ una raccomandata. Ma è brava”.
“Come si chiama?”
“Non devi averla incontrata ancora. E’ qui da un paio di giorni. Si chiama Chiara. Chiara Monati”.
20.
Si scrutina la Provincia, prima. La sinistra non ha problemi. Il Pci strapazza tutti. La Dc ha il fiato grosso. Peggio ancora stanno socialdemocratici, repubblicani e liberali. I socialisti non fanno i salti mortali, ma se la cavano. Alla Provincia è possibile una maggioranza socialcomunisa. C’è da capire chi sarà il presidente.
Chiara m’aiuta nel reperimento dei risultati. E’ gentile, non invadente. Ha – mi sembra – uno o due anni meno di me. E’ carina. Ma non lo dà a vedere. Anzi. Ha lavorato a lungo in un settimanale di Siena, che – a un certo punto – ha cominciato a starle stretto. Allora, s’è fatta coraggio e ha cercato appoggi per un’altra soluzione, una soluzione che la portasse a Firenze. Ha giocato la carta del padre, storico militante del Pci, ed è arrivata al “Nuovo Corriere”, dopo però una serie di articoli.
“Non mi vergogno a dirlo, ma mi sento una miracolata. Ora, sta a me mantenere il posto. Bilenchi mi ha detto che lo mantengo se seguo le tue orme”.
“T’ha detto questo?”
“Sì”.
“Evidentemente gli è mancato un passaggio”.
“Quale passaggio?”
“Te lo spiegherò tra un po’”.
“Come vuoi”.
Alle 20, i primi risultati delle comunali di Firenze mi fanno alzare le antenne. Chiamo Bilenchi.
“Ho l’impressione che stia avvenendo qualcosa di non previsto”.
“Spiegati”.
“La Dc è in testa. I seggi scrutinati sono ancora pochi, ma sufficienti per indicare una tendenza. Spero di sbagliarmi”.
Un’ora dopo non ho dubbi. Richiamo Bilenchi. Conferma. Ha il riscontro dalla sede del Pci.
“Siamo al funerale”.
“Mamma mia”.
“Il monaco ha colpito”.
“Se tanto mi dà tanto, la Dc fa un bel balzo. Dal 23,73 passa a quasi il 35 per cento”.
Il risultato finale la dà al 36,25 per cento. Ed è il primo partito di Firenze.
Usciamo dalla Prefettura verso l’una. Affamati. Giulia è silenziosa.
“E da domani, Dio ce ne scampi e liberi. Sarà bene che chieda a Bilenchi di dirottarmi allo sport”.
“Perché?”
Le racconto delle interviste. Le ha lette. Anche suo padre le ha lette e non è che sia stato molto contento.
“Non avrebbe voluto leggerle su un giornale filocomunista”.
“No, non per questo. Per i contenuti. Gli è sembrato, anche a me del resto, che La Pira ci sia uscito meglio – nelle risposte – di Fabiani. Fabiani gli è parso un po’ moscio, scontato”.
Al giornale sono tutti lì a fare gli ultimi titoli. Bilenchi è stanco. Il redattore capo stanco e arrabbiato. Ce l’ha con i baciapile, con chi crede nei forchettoni, con quel falso monaco di La Pira.
Dico a Bilenchi: “Devo dimettermi?”
“Che c’entri te? Un paio di articoli di giornale non hanno mai fatto storia, non hanno mai cambiato il corso degli eventi. La colpa è di altri. Di chi non ha saputo gestire il potere. Di chi ha creduto di risolvere tutto dicendo noi siamo onesti”.
Firenze, ma non solo. Milano, Torino, Genova, Venezia: tutte città passate dalla sinistra al centro. Nonostante questo la Dc, a livello nazionale, ha preso una bella batosta. E’ passata dal 48 al 39 per cento. Le sinistre hanno fatto due passi avanti. Dal 35 sono salite al 37 per cento. Anche la destra, monarchica e fascista, ha avuto successo. Dal 5 ha raggiunto l’8 per cento”.
Saluto Bilenchi, saluto Chiara, evito di salutare il redattore capo ed esco. Durante il giorno ho mangiato e bevuto poco o nulla. E ho bisogno di riposarmi. Di pensare ai fatti miei. Anche se mi fa male, o proprio perché mi fa male.
21
Giornate di sole. Fanno affari i fiaccherai.
Firenze è un caso. Ora sono tutti dalla parte di La Pira.
Il Mandragola si sgola nel tesserne gli elogi. “Firenze sta per vivere un altro Rinascimento”.
C’è di che preoccuparsi di fronte ad affermazioni di questo genere.
La Dc è il primo partito e, con liberali, repubblicani e socialdemocratici, ha la maggioranza per governare e confinare all’opposizione i socialcomunisti, insieme con i missini, che hanno preso il posto dei qualunquisti, anche se con minor forza.
Il diario politico di questi giorni è fatto di mugugni, da una parte - dalla parte degli sconfitti -, e di dichiarazioni sopra le righe da parte dei vincitori.
Gli sconfitti si consolano con la vittoria in Provincia, che non è cosa da poco.
L’accordo è raggiunto con facilità da comunisti e socialisti: Fabiani è il presidente. Lo sconfitto di Palazzo Vecchio passa a Palazzo Medici Riccardi. E la sua figura viene esaltata.
Gli chiedo: “Che effetto fa il passaggio?”
“Sono un uomo di partito, pronto a ubbidire. Avrei detto di sì anche se avessero deciso di accantonarmi”.
“Non dica che non le brucia il successo di La Pira. Sarebbe difficile crederlo”.
“Brucia? Diciamo che fa riflettere, che deve far riflettere”.
“Ha fatto un esame del risultato?”
“Come sempre. E’ un dovere”.
“A quali conclusioni è arrivato?”
”E’ presto per dirlo”.
“Presto?”
“Presto. Le conclusioni arriveranno tra qualche mese, al termine di riflessioni non superficiali”.
“Riflessioni sugli errori?”
“Riflessioni su tutto”.
“Ma, secondo lei, quali errori sono stati commessi?”
“Non credo che la Giunta abbia commesso errori determinanti”.
“Allora li hanno commessi i partii”.
“Non spetta a me dirlo, ora”.
22.
Passa quasi un mese prima che si abbiano certezze sulla maggioranza di Palazzo Vecchio. I partiti minori, consapevoli d’essere determinanti, hanno puntato i piedi per strappare deleghe importanti. La Pira non fa storie. Dice alla Dc di non farle. “Una delega in più o in meno non significa nulla”.
Come dire che quello che conta è lui, il sindaco. Lo definiscano pure come vogliono. Lui ha le idee chiare sul futuro di Firenze. Non hanno confini, le sue idee. Pensa alle rondini, alle loro migrazioni. Un prodigo. E a un prodigio pensa per la sua Firenze.
“Caro figliolo, Firenze è in me. Da subito, dal primo giorno che ci ho messo piede, è in me. Non saprei vivere senza Firenze”.
“Rinnega la Sicilia?”, chiedo risoluto.
“Non rinnego niente. La Sicilia è la nascita. Firenze è la vita”.
Il 6 luglio il consiglio comunale lo elegge sindaco.
Chiara è accanto a me. “Chi l’avrebbe detto che sarebbe andata a finire così. Non ho parlato ancora con mio padre, ma dev’essere inviperito”.
“Non solo lui”.
“Ma te, ecco, che ne pensi?” E’ la prima a rivolgermi una domanda del genere. Una domanda che ho evitato di farmi. “Non ti senti di rispondere?”
“Stavo riflettendo. E’ che i socialcomunisti non hanno saputo gestire una grande opportunità e hanno permesso che un politico sui generis, un professore, un terziario domenicano prendesse il potere, nonostante le divisioni all’interno del suo partito. Che poi suo dice non è”.
Ho parlato con foga. Con amarezza.
La Volpe mi saluta di malavoglia.
“E allora?”, gli chiedo.
“E allora gli hai dato una bella mano”.
“Ne sei convinto?”
“Ne siamo convinti tutti”.
“Tutti o te e il Mandragola?”
“Tutti”.
“Non vuoi ammettere che un bel po’ di gente è andata per bastonare ed è stata bastonata. Pensavate di fargli le scarpe e lui, invece, ha dimostrato capacità superiori. E’ riuscito a sconfiggere voi e i socialcomunisti. Un’impresa. E meno male che, secondo tanti, naviga con la testa tra le nuvole”.
“Sei un figlio di buona donna”.
“Di certo non sono uno che si fa manovrare. Sapevo cosa m’aspettava quando quel giorno mi desti la notizia. Sapevo anche che avrei potuto trasformarla in un boomerang. Per voi”.
“Ripeto: sei un figlio di buona donna”.
“Posso essere come te. Né più né meno”.
La Volpe se ne va scotendo la testa e borbottando.
Chiara ride di cuore. “Che tipo buffo”.
“Gente come lui va presa con le pinze. Va usata con attenzione, facendo finta di assecondarla. Te lo troverai tra i piedi spesso. Anche nei momenti meno opportuni. Una raccomandazione: non prenderlo di punta. E’ bene non averlo come nemico dichiarato”.
“Ho capito”, dice Chiara, ma che ha la testa ad altro. “Ti andrebbe una giornata al mare? A Viareggio?”
Non so da quanto tempo non vado al mare. Bambino, mi dividevo tra Marina di Pisa e Viareggio. A Marina di Pisa, ero ospite, insieme con altri cugini, dello zio prete. A Viareggio andavo con i genitori. A pensione. Sempre pensioni piccole, familiari. E il bagno rigorosamente il Balena.
“Come ci arriviamo?”
“Un amico mi presta la sua macchina”.
“Hai la patente?”
“Ho la patente. E te?
“No. Non ho tempo”.
“O voglia”.
“Non credo, a dirti la verità, che la patente sia roba per me. Mi distraggo con facilità”.
23.
La vedo subito al Balena. Ed è un tuffo al cuore. E’ davanti a me, insieme con Anna e Paola. Impossibile far finta di niente.
Anna, esuberante come sempre, quasi urla. “Chi si rivede”. E mi stampa un bacio su una guancia.
Paola dice: “Quanto tempo”. E anche lei mi bacia su una guancia.
Lucia sta sulle sue. Io le tendo la mano e dico piano: “Ciao”.
“Ciao”, sussurra Lucia, non rifiutando la stretta di mano.
Il contatto mi procura un brivido.
“Questa è Chiara, una collega”, dico subito dopo. “E queste – aggiungo rivolto a Chiara – sono Lucia, Anna e Paola, amiche inseparabili”.
Convenevoli di rito. Lucia guarda Chiara. Occhi impenetrabili.
Dico: “Ci siamo presi un giorno di libertà dopo la maratona delle elezioni. A Firenze, si boccheggia”. Loro sono già in costume. “Ci vediamo”, dico d’impulso. “Andiamo a cambiarci”.
“A dopo”, dice Anna.
Chiara è magra, fatta bene. Mi si presenta davanti timidamente. “Sono bianca latte”.
“Figurati a chi lo dici. Non so neppure io quant’è che non mi metto in costume”.
Ci sistemiamo sulle sdraio. Chiara legge il giornale.
“Certo è – dice – che La Pira ha chiamato in Giunta professionisti, intellettuali e gente nota. Fa impressione”.
“Non bastano i nomi grossi. Bisogna saperci fare”.
“Questa è gente decisa a partire di gran carriera. Questo Pistelli, Nicola Pistelli, un giovane con gli attributi, sembra abbia già pronto un piano di edilizia scolastica, capace di tenere tranquilla la città per vent’anni”.
“Passa allo sport”, dico ridendo.
“Oggi posso passare anche allo sport. Ma domani no. Non ci nutriremo d’altro”. S’accorge che guardo altrove. “M’ascolti?”
“Sì, t’ascolto”.
Chiara si mette su un fianco, l’occhio indagatore. “Chi è delle tre?”
“Ma che dici?”
“Senti, al giornale se ne parla. Si parla della tua delusione d’amore”.
“Via, non è possibile. Che gliene importa…”.
“Ai più non importa niente. Ma altri, tipo il redattore capo, ci sguazzano. Per dimostrare che sei cambiato, che non hai più smalto”.
“E’ quella con il costume a fiori”
“Si chiama Lucia, vero?”
“Sì, Lucia”.
“T’ha guardato a lungo. Ha guardato anche me. Forse s’è convinta che ce l’intendiamo. Che ne pensi?”
“Niente ne penso”.
“Non t’aspettavi d’incontrarla”.
“Proprio no”.
“E ora sei arrabbiato”.
“No, arrabbiato no”.
“Qualcosa hai. Non puoi negarlo”.
“Sono a disagio. Mi sento a disagio”.
“Soffri nel rivederla”.
“La ferita è sempre aperta. Sono passati pochi mesi”. E le racconto la storia. Con il finale a sorpresa, al ristorante.
“Dove ho sbagliato?”. E’ la domanda-ossessione che, almeno una volta il giorno, mi pongo. Senza trovare una risposta.
“Dove ho sbagliato?”. Guardo Chiara, con la speranza che mi dkia na soluzione.
“Non hai sbagliato”.
“Sei sicura?”
“Sì. Penso, piuttosto, che lei abbia avuto paura. Che se lo aspettasse, quel momento, e lo temesse”.
“Io pensavo a una storia d’amore. A juna bella storia d’amore”.
“Una storia d’amore che l’impauriva”.
“Ma perché?
“E’ rimasta vedova in maniera drammatica, traumatica. Bisogna capirla”.
“Ma perché non parlarmi chiaro? Perché scegliere quel modo terribile di dire basta?”
“Perché era combattuta. Non sapeva che parole adoperare”.
“a quel che mi dici, c’è da dedurre che sia sempre innamorata del marito”.
“Hanno la meglio i ricordi, la nostalgia. E, dall’altra parte, ci sei te, con le tue premure, con il tuo affetto, a cui lei sente di non essere indifferente” Chiara tace di botto. “Ma pensa te in che discorso mi sono infilata. Do per scontate cose che chissà poi come stanno. Ci ho montato su un racconto neanche tanto originale”.
“Un aiuto a capire”.
“Non prendermi sul serio”.
Chiara chiude gli occhi e abbandona il giornale da una parte, lasciando che il vento leggero lo spagini.
M’alzo e raggiungo la riva. E Lucia è lì, sola, i piedi nell’acqua.
M’avvicino. Se n’accorge. S’irrigidisce.
“Perché?”. C’è dentro tutta la mia disperazione.
La risposta è un singhiozzo e una corsa sgangherata verso le cabine.
Rimango lì, statua di dolore.
Un bambino gioca con paletta e secchiello e un gabbiano s’avventura in alto mare.
Il ritorno è una pena.
“Mi dispiace, Chiara. Ho rovinato tutto. Un’altra volta evitami. Ce n’è di meno complicati di me, in giro”.
“Non ho da rinfacciarti niente. Mi dispiace solo per te. E se avremo un altro giorno libero, ti rifarò la proposta. Caso mai, andremo in montagna. Non sono mai stata all’Abetone”.
24.
“Non mollarlo”, mi esorta Bilenchi, una mattina, riferendosi a La Pira. “Registra meriti e demeriti, vizi e virtù. Non soltanto di lui. Ci sono nomi altisonanti in Giunta. Vediamo se sono all’altezza. Non hai altri compiti”.
“Sai contenti i nostri compagni”, dico.
“Non generalizzare. C’è gente ragionevole, intelligente. Gente che capisce il nostro ruolo, come giornalisti e come giornale”.
In Giunta, il Mandragola non c’è. Gli devono girare. E quando gli girano, aspettiamocene delle belle.
25.
Tra De Gasperi e Pella, ministro del Bilancio e del Tesoro, non corre buon sangue. Pella critica la politica economica di De Gasperi. E De Gasperi si dimette. Ma non c’impiega molto a formare un nuovo governo con i repubblicani e l’appoggio esterno di liberali e socialdemocratici. Il ribelle Pella viene relegato in un cantuccio.
Riccardo Cardellicchio
Fine quarta puntata