Povera Gioconda, che fine ha fatto. Imbalsamata dietro una lastra appena opaca, tanto per non finire fritta dai baleni fotografici, mitragliati a centinaia ogni minuto, Monna Lisa è così ridotta all’ombra di sé stessa, che un’ombra già era, lisa dal tempo e dalla fama. Milioni di turisti, accecati dai loro stessi lampi, presumono di conoscerla finalmente in diretta, ma in realtà nessuno la vede; di lei mal si ravvisa, sul muro, solo il proprio ricordo. Ciò basta al pellegrino moderno, la cui ipostasi è il petrarchesco “vecchierel canuto et biancho” che va a Roma per venerare la Veronica, onde affermare tornato a casa: “io l’ho vista! Son salvo!”. Lisa lo sa (lei sa tutto), e di queste illusioni, spirituali ancor prima che ottiche, sorride sovranamente scettica. A quattro passi da lei ci sono La Vergine delle rocce, S. Anna la Madonna e il bambino con l’agnello, La Belle Ferronnière, S. Giovanni Battista, partoriti dalla medesima mano. Ma chi li degna di un’occhiata? Del resto accade così per la grandissimissima parte delle opere del Louvre, questo trofeo imperiale in cui sono stipate decine di migliaia di quadri e di statue e di vasi e di quant’altro mai, in una brama onnicomprensiva che, paradossalmente, finisce per nasconderli. È un fatto: questo contenitore babelico, che va percorso a passo di bersagliere, non riesce a mostrare nemmeno il suo idolo ostenso, la Gioconda. Perché il Louvre è un ossimoro titanico: la visione-che-c’è-ma-non-si-vede.
Una proposta modesta. Perché per qualche mese non staccare dal chiodo Monna Lisa, così da obbligare i pellegrini a girar gli occhi anche nei paraggi? E un’altra, meno modesta. Amici francesi, perché non sbaraccate il Louvre e con tutte quelle opere non mettete su una mezza dozzina di musei, di formato un pochino più umano? Propongo il motto per tanta impresa: Le Louvre s’ouvre! Ci guadagnereste anche in numero di biglietti staccati. Ma il Louvre invero non aspira a mostrare alcunché, ma ad essere esso stesso l’oggetto da mostrare, il mostro da fiera, la grandeur fatta istituzione. Conoscendo i cugini d’oltralpe, esso si mostrificherà per saecula saeculorum, fino a stroppiarsi. E dunque labirintiamoci in quella hybris enciclofanica, ove solo per grazia della sorte gli occhi si posano su qualche Opera Ineludibile. Ricordo, in un salone con teleri cinemascopici, che solo io e un orientale ci siamo quasi chinati per venerare una tavola (0,58 x 0,45) del Sassetta, La dannazione dell’anima dell’avaro di Citerna. Non dico che le decine di metri quadri di tela dipinta, quivi presenti, non esigessero attenzione, tutt’altro; ma che solamente quel rettangolino irradiava l’assolutezza della classicità, come una finestrina spalancata sull’Essere. Non meriterebbe una paretina, uno sgabuzzino tutto per sé? E magari un vecchio guardiano che ne consegni la chiave solo a pochi... Ricordo che i nostri occhi, lustri di certezza parmenidea, si mutuarono un tenue sorriso connivente; e poi ciascuno si allontanò per le vie della propria esistenza transeunte. Ma con tale diamante nel cuore.
La Gioconda. È talmente usurato dall’ammirazione questo ritaglio di Toscana che si rimane afoni tentando di aggiungervi una parolina nostra. Lodarne la perfezione concettuale ed esecutiva, a questo punto, non fa altro che spalmare sull’intelletto ulteriori strati di untuosa abitudine, che tolgono sensibilità. In questo quadro (0,77 x 0,53), concepito circa nel 1504 a Firenze, quindi per il tempo e per il luogo nell’utero pirotecnico del Rinascimento, si è riconosciuto come in nessun altro il mistero della creazione artistica; anzi, il Mistero, punto e basta. In effetti esso racchiude in nuce il Nuovo Sublime, con l’accettazione serena (epicurea, non stoica) del mondo fenomenico, il cui Divenire è reso visibilmente da quelle montagne vertiginose che sembrano sfaldarsi nel nulla… Sì, dietro quegli scoscendimenti panteistici, vere Dolomiti dello spirito, c’è già il Nulla della modernità. Il Divino vi è totalmente dissolto, così che la sóra Lisa con il suo sorrisino di lieta puerpera (lo suggerisce il velo sottilissimo) proclama il mutamento perenne del Tutto: e non c’è Altro. Il suo dèmone è l’Assenza, e le sue radichette filosofiche arrivano a Guido Cavalcanti. Di poi verrà L’infinito di Giacomo. Poi, altre cose, molto meno garbate. Si consideri che per questo quadro, per il quale ancor umido di colori si gridò “santo subito”, l’idolatria sarebbe dilagata pandemicamente solo in piena èra nicciana. Il destino di un’opera, il suo compimento ontologico, al contrario di quanto pensano gli storicisti, non si sa mai quando si adempie.
E in contrappunto, la Madonna di Senigallia (circa 1474 o ’78), di Piero della Francesca, nel museo urbinate, la perfetta conchiglia ove s’imperla. Anche questa tavola (0,610 x 0,535) è di piccole dimensioni (quanti capolavori potrebbe contenere una valigia!). John Pope-Hennessy lo ritiene “uno dei dipinti più segreti che siano mai stati prodotti”, degno di figurare nella lista “dei più bei dipinti del mondo”. Se si considera che un altro paio di opere di tale lista ideale sono La flagellazione, ancora ad Urbino, e La resurrezione a Borgo S. Sepolcro, si stenta a credere come Piero possa essere stato obliato, subito dopo la morte (1492), per più di quattro secoli (ma “il destino di un’opera ecc.”, vedi sopra). Fu la Gioconda, appena una generazione dopo, ad assassinare l’ammirazione nei suoi confronti, o, se il giudizio può sembrare coriaceo e risoluto, fu la conquista del pieno naturalismo, nel primo Cinquecento, a cacciare Piero nel dimenticatoio dei metafisici. La Madonna di Senigallia è l’Antico Sublime, un concentrato visibile di significati trascendenti, resi meticolosamente in ogni dettaglio del quadro: il più splendido, la luce del Soffio Concepitore, che dall’esterno filtra nell’interno dietro l’interno ove la Madre (è lei l’Interno per eccellenza) si erge impassibile come la Verità Incarnata che manifesta in braccio, circondata da due adolescenziali e possenti guardie celesti. Nessuna epifania è, in modi domestici e sacerdotali, più assertiva e inalterabile e terribile di questa. È il mistero della Presenza, una delle estreme affermazioni della tradizione spirituale che ebbe in Dante il suo vertice visionario. E per fortuna nessun lampeggiamento demenziale ci priva della sua contemplazione.
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