Introdotto dalla riproduzione di un’enigmatica “Menade danzante”, il poemetto “IL BENE”, di Mario Fresa, si presenta quale turbinoso succedersi di articolate cadenze, nel cui àmbito il sentimento d’amore risulta protagonista di versi dalle forme nitide, precise nella loro fulgida essenzialità.
La multiforme, incalzante, dovizia di complesse immagini, che si susseguono non prive di esclamazioni e interrogazioni, di contestazioni e dichiarazioni, nonché di riferimenti alla natura in senso fisico, tale ricchezza iconica, dicevo, proposta con atteggiamento risoluto, ruota, tutta, attorno alla cruciale pronuncia «ogni gesto è una risposta / al buio».
Dal buio, in questo caso sinonimo di silenzio, origine di gesti e parole, da quel vivido crogiolo nel quale il linguaggio è fuso e da cui, nel contempo, sgorga, da quel nucleo d’ energia, indicibile in sé, capace di conferire tono e significato, il Nostro giunge al mondo, manifestando comportamenti che costituiscono “risposta”.
Si è in presenza, qui, di urgenze insopprimibili: non si collegano atti e vocaboli a (peraltro inesistenti) paradigmi aprioristici, non si riempiono col dire fittizi stampi predisposti, ma si reagisce a impulsi in modo diretto, genuino.
Aspetti di marca intransitiva ed espressionista, senza dubbio: «Non si rincorre, dunque: si è solo presi da».
Rispettoso della sintassi, determinato nel proporre immagini composite ed enigmatiche per via di una versificazione tale da non concedere alcun attimo di tregua, con qualche ironico tocco di gusto pop («c’è un’ ansiosa galleria / di soluzioni che annunciano miracoli e biscotti») e dada («sii tutta pioggia rara e grattacielo»), Mario Fresa non teme di riferirsi a un oggetto, l’amore, così spesso preso in considerazione dai poeti e, fiducioso nelle proprie capacità di trattarlo dal di dentro, proietta, con affettiva sapienza, luminose catene verbali da una postazione soltanto sua, nemmeno ignota ai più, bensì irraggiungibile per chiunque altro.
Poetica postazione, davvero.
Marco Furia
Da IL BENE di Mario Fresa, Edizioni Marocchino Blu, Lucca 2007
*
Qui di colpo si annuncia un altissimo cielo bagnato
di colori: così passandoti vicino le mie vene
fanno moltiplicare, adesso, fontane sconosciute
sulle mani. Le braccia poi risplendono avidissime
di favole sottili e già discendono, vedi, sulla fresca
sostanza delle stelle precipitate ancora sulle dita:
ma sulla soglia della voce si respira
una visione che tenta e che sorride; che inventa e che
ricade; ma dentro un gioco di così dolci impasti noi
ci destiamo e già ci carezziamo.
Dentro quei nuovi flutti si disperde all’improvviso
un sole così gonfio di lame e di sorprese;
ma poi tu guardi al fiume nel riflesso di questo pieno
intendersi che subito rinasce ma non parla di giustizia;
ma custodisce morbide sostanze che inventano una
vincita di farmaci segreti e di timori.
Le leggi del volere riferiscono: gite annunciate
sopra la luce delle parole nuove.
*
E i tuoi capelli permettono al vento
di proclamare: furore sopra i muri e
candida bellezza. Così che tu rapisci i risultati
alle celesti perfezioni dei bambini;
e l’inquadrarsi della fervida giornata
in un cristallo vero. Ed ecco, dici: ecco la strada;
ed ecco il resto dei velluti, ecco il piano delle armonie
che dicono e disfanno; che toccano e disfanno.
E rivedere le sorprese significava poi danzare
tra quegli alberi solenni, rintracciare quei gioielli
sulle famose strade ricoperte di pazzie, di curiose
bilance destinate a misurare quelle attese;
così le mani già guidavano sentenze di fiorite
ribellioni, forme di visi che sùbito invadevano
la pace di un destino indovinato.
E quel tuo passo! Quell’incedere sul fiume,
sulla morbida stanza della porpora trovata
soltanto per ventura: quell’incedere che piano
raccontava di vincite furiose, di teneri clarini
che intanto sfioravano sonate sbigottite.
E nessuno, davanti a te, restava: ma ti voleva;
ti voleva come un docile stormire di piante colorate;
e io, poco lontano, già dicevo:
pietà di questo buio: fuggi, finisci, vieni.
Ma tu ristora questa serale gloria e inventa una
difesa che sappia moltiplicarsi ancora e poi cantare:
sul mio corpo si sprigionano i respiri di quei fiori
generosi; ma non restare, ascolta: sii tutta intendimento e
resistenza; sii tutta pioggia rara e grattacielo.
*
Questa corsa che non vuole, che non vuole
mai essere sorpresa: ma colleziona nuove resistenze
per questa luce che dichiara di servirti con amore.
Donami ancora queste leggi: non essere una marcia
di casseforti chiuse, di petali solennemente misti
a un vetro minaccioso di regali; ma nel campo noi
dobbiamo ripetere le cose che dipingono cristalli sconosciuti.
Scegli un piccolo suono da rimare sul profilo
di una tela che prepara delicate
pretese, veli superbi come un notturno dono:
la visione delle parole inizia a seminare
bisbigli da richiamo, promiscuità di lotte
e di concerti. Tu rimani indivisa e ti rifiuti
di scendere a contare gli orologi.
Nel tuo sognare ombre tenaci, tu attendi forse
mantelli di smeraldi e insonni
volti dove fiorisce un’eco di sirena.
Ma quanti brividi su quella terra e quale
incenso, quale attesa: oppure una severa
congiunzione di cure sconosciute, pronte
a colpire, a preservare.
Poi le lampade carezzano il tuo corpo: la perfezione
insegna qualche tremore nuovo, chiamami e fuggi,
adesso! Poiché su quella corsa ho costruito un
desiderio di ferite e di digiuni, di un’infanzia
catturata dalle vere meraviglie, sempre
disposte al sonno, all’invadenza, al bene.
E poi, la vanità di questa grazia: le chiare variazioni
chiamano oscuri doni. E un’ombra viene sopra
i gesti, e infine questi nidi si faranno più fragili
e sicuri. Ma i visi nel giardino hanno promesso
una severa grazia: fibre, colori, affreschi.
Nei corridoi ti ho ritrovata come sognante e
vinta. Ma qui nel buio come ti avrei sorriso:
prendi, ricerca. Ma qui nel buio come ti avrei
sorpreso. Quei riflessi che tramavano, brillando,
sulla famosa porta dell’inverno.
*
Ecco un’offerta, un inventario: tocca, stupisci.
Sulla lingua discendono, adesso, laghi e battaglie.
Questa nuova tranquillità che impone fazzoletti
sul cammino, diademi che inventano perfino
una superba luce rinnovata.
Ma dimmi, ascolta: quale ventaglio di sonniferi
concederà la pace a questo vetro di visioni
che ci osserva, che ci ricorda l’arte di separare
il campo delle intese e delle feste,
quella virtù di prendere e lasciare?
Ma intanto un ramo scende e poi sospira
quando scruta quei tuoi passi, quando ti
mostri, quando vieni: e quando poi
ti mostri, il mondo non è
che una richiesta vana di tranelli.
E quando vieni, tutto il paesaggio ascolta.
E quando ascolti, la distanza si smarrisce,
dimenticando risse, martelli di sentenze,
prigioni e ritornelli.
*
Così tu scuoti i documenti dell’attesa.
Sono venuto allora nella stanza prediletta, dormendo
nel segreto delle rose; rinascono i sussurri
nel paradiso antico di una grandine furiosa:
mi abbraccerai vibrando l’aria come un’ansiosa
rapina inaspettata.
E invece, intorno a quella tua figura: solo battaglie;
solo nuvole e corone. La raccolta dei baci riscattava
una vera, una indecisa vocazione
al bene. C’era dunque un ansioso
contraffare le stagioni per durare, per colorare
i firmamenti e il viso.
Così gli uccelli mischiano le carte della luce
e queste dita poi fioriscono imbrogliando
crudeli precisioni, un’ambiziosa ressa di regali.
E tu non risvegliarti: adesso camminiamo.
Non rivestirti ancora: ma perdonami, rinasci.
Attorno a questo luminoso scialle
sia fatta luce e infanzia.
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Mario Fresa è nato nel 1973. Vive a Salerno. Ha pubblicato due raccolte di versi: Liaison (introduzione di Maurizio Cucchi, 2002, Premio Giuseppe Giusti Opera Prima, terna Premio Gatto) e L’uomo che sogna (2004, Premio Capoverso Città di Bisignano per l’inedito). È autore, insieme con Tiziano Salari, di un saggio in forma dialogica sulla poesia: Il grido del vetraio (postfazione di Flavio Ermini, 2005).
Sue poesie e prose poetiche sono apparse sulle riviste Paragone, Gradiva, Caffè Michelangiolo, Semicerchio, Il Monte Analogo, Le Voci della luna, Specchio della Stampa, Capoverso, Erba d’Arno, L’Ortica, L’area di Broca, Nuova Prosa e La clessidra.
È presente in varie antologie, tra cui Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004).
Per Maurizio Cucchi «la sua poesia si caratterizza per una precisa compiutezza formale, lavorando con eleganza e grazia, ma anche con venature di viva asprezza materica» (in “Dizionario dei poeti”, La Stampa, 2005).