Non è sempre facile per grandi e piccini orientarsi nel vastissimo mondo della lettura. Noi proponiamo per l’estate una gamma di testi da cui abbiamo estrapolato alcuni periodi di puro stampo gotico, dato che è il “Gotico” il genere prescelto, quale orientamento per una lettura integrale del testo prescelto o per creare in sinergia con l’arte, storie inedite, utilizzando estro, immaginazione e fantasia.
Non esiste fregata rapida come un libro
per portarci in lontane terre
né destrieri come una pagina
di poesia che si impenna…
Emily Dickinson (1830-1886)
La scrittura creativa è uno spazio infinito in cui ognuno si può librare e comunicare ciò che sente, vede e percepisce in piena libertà, seguendo il proprio istinto.
Il racconto gotico incute al lettore paura e orrore, grazie a elementi terrorizzanti nati dal mondo dell’inconscio e dell’irrazionale. È caratterizzato da ambientazioni medioevali e da storie che narrano vicende irreali e fantastiche, popolate da spettri, fantasmi, vampiri, demoni o da altre presenze inquietanti e sovrannaturali, collocate in scenari tenebrosi e oscuri come castelli, prigioni, cattedrali e cimiteri e con una forte presenza di elementi macabri e demoniaci.
Frankestein di Mary Shelley (1797-1851) è un romanzo in cui si intrecciano tre storie con tre punti di vista differenti: quello dell’esploratore Robert Walton che sta compiendo un viaggio fra i mari del nord, quello dello scienziato Victor Frankestein, trovato in fin di vita da Walton e il punto di vista del mostro che racconta la sua esistenza impossibile .
Frankestein è uno scienziato che crea un mostro mettendo insieme parti umane.
Il mostro viene ripudiato da tutti e allora tutto il suo amore si trasforma in odio per gli uomini e per il suo creatore. Il dottore gli promette di creare una donna per lui ma poi cambia idea e il mostro lo insegue fino ai mari Artici, dove il povero uomo viene trovato quasi morto dal ricercatore Walton che alla fine del racconto dice di aver visto il mostro piangere sul cadavere del suo creatore e di andare poi a cercare pace nella morte:
(…) Fu in una cupa notte di novembre…
(…) «Respirò ansando e un moto convulso gli agitò le membra, la sua pelle gialla a malapena copriva la trama dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano fluenti e di un nero lucente, i denti di un bianco perlaceo, ma questi pregi facevano solo un più orrido contrasto con gli occhi acquosi che sembravano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano infossati, con la sua pelle corrugata e le labbra nere e tirate…»
(…) «Come uno che per strada deserta cammina tra paura e terrore e guardandosi indietro, prosegue e non volta mai più la testa perché sa che un orrendo demonio a breve distanza lo insegue…»
(…) «Era di statura gigantesca, ma goffa e sproporzionata, il suo viso, mentre era piegato sulla bara, era nascosto da lunghi capelli disordinati. Una mano enorme, di colore simile a quella di una mummia era tesa in avanti. Come sentì il rumore dei miei passi cessò i gemiti di dolore e si precipitò verso la finestra. Non ho mai visto un essere così ripugnante…»
(…) «Pensi forse che i rantoli di Henry siano stati musica per le mie orecchie?… Da allora il male divenne per me il bene…»
(…) «Là costruirò il mio rogo funebre e ridurrò in cenere questo mio povero corpo, affinché i suoi resti non servano a qualche curioso insensato per creare un altro essere come me… Ma presto morirò e ciò che ora sento svanirà. Presto quest’angoscia bruciante si placherà e io sarò finalmente libero…»
(…) «In breve le onde lo trascinarono via e scomparve lontano nell’oscurità».
Dracula, il vampiro di Bram Stoker (1847- 1912 ) inizia nel momento in cui Jonatan Harker, davanti a un caminetto, inizia a descrivere nel suo diario il vampiro seduto accanto a lui. Dopo aver delineato un ritratto macabro del conte viene il momento di ritirarsi nelle proprie stanze.
Salendo le scale, Jonatan si accorge che ogni via di fuga è preclusa e che l’unica via d’uscita sono le finestre. Di notte si alza e guardando dalla finestra prova il desiderio di uscir fuori da quella prigione, ma nota una figura che si stava trasformando; era il conte che si stava tramutando in un pipistrello.
L’uomo sconvolto da ciò che aveva visto, si precipita fuori dalla finestra e scende dal cornicione fino alla stanza del conte. Entra e scopre che il conte era sparito. Cerca inutilmente qualche indizio; non trova nulla; esce dalla stanza e dopo aver percorso un lungo corridoio scopre una piccola cappella abbandonata; nel vedere il cadavere del conte all’interno della bara centrale, viene colto da panico e torna ansimando nella sua stanza.
La mattina dopo si sveglia, credendo di essere spacciato, invece, al canto del gallo si sente sollevato ed esce dalla stanza, precipitandosi giù al portone con la speranza di poterlo aprire. Non ci riesce; ritorna su in preda al panico, e sembrandogli la morte il male minore, ritorna nella cappella abbandonata. Aperta la cassa del conte, nota che il vampiro è ringiovanito e con profonda disperazione lo colpisce più volte con una lama senza però riuscire a fargli alcun danno.
Appoggiata la lama, fa cadere il coperchio sulle cassa del conte e quando lo rialza ha l’ultima visione della sua vita: la faccia del vampiro, rigonfia e sporca di sangue, lo fissava con il ghigno più spettrale che mai avesse visto.
Nel suo diario, Harker annota le raccapriccianti scoperte da lui fatte dopo d’essere giunto nel tetro e deserto castello del conte Dracula:
(…) «Non dormii molto bene pur avendo un letto comodo, a causa dei sogni strani. Sotto la mia finestra, un cane ululò tutta la notte… e forse è questa la causa».
(…) «Quando salii in carrozza, il conducente non aveva ancora ripreso il suo posto e lo vidi parlare con la padrona dell’albergo. Evidentemente parlavano di me, perché ogni tanto si voltavano a guardarmi e alcune delle persone che sedevano fuori dalla porta si avvicinavano ad ascoltare e poi guardavano me, quasi con aria compassionevole. Sentivo molte parole ripetute più volte, strane parole, perché nel gruppo v’erano molte persone di altre nazionalità. Aprii il mio dizionario. Non si trattava di parole allegre perché erano ‘Ordog’: Satana, ‘polok’: inferno, ‘vlkoslak’: vampiro».
(…) «Era in preda ad una disperazione così violenta, che cercai di confortarla, senza riuscirvi. Finalmente cadde in ginocchio e m’implorò di non andare; o almeno di aspettare un paio di giorni. Mi sembrava una storia molto ridicola, ma non mi sentivo a mio agio».
(…) «Il volto aquilino; il naso sottile con una gobba pronunciata e narici stranamente arcuate; le folte sopracciglia, quasi si congiungevano sul naso, e i ciuffi parevano arricciarsi tanto erano abbondanti. La bocca, per quel che si scorgeva sotto i folti baffi, era rigida e con un profilo quasi crudele. I denti bianchi e stranamente aguzzi, sporgevano dalle labbra, il colore acceso rivelava una vitalità stupefacente per un uomo dei suoi anni. Le orecchie erano pallide, appuntite; il mento ampio e forte, le guance sode anche se scavate. Tutto il suo volto era soffuso d’un incredibile pallore. Alla luce della fiamma avevo già osservato il dorso delle mani appoggiate sulle ginocchia, e mi erano sembrate piuttosto bianche, esili; ma vedendole ora più da vicino, non ho potuto fare a meno di notare che erano mani piuttosto rozze, larghe con le dita a spatola. Strano a dirsi, c’erano peli al centro del palmo. Le unghie erano allungate e sottili tagliate a punta. Mentre il conte si sporgeva verso di me e le sue mani mi toccavano, non ho potuto reprimere un brivido».
(…) «I miei sentimenti si sono mutati in repulsione e terrore quando ho visto tutto il corpo emergere lentamente dalla finestra e cominciare a strisciare lungo il muro del castello, sospeso su quell’orrido a faccia in giù».
(…) «Sono sceso, badando bene a dove poggiavo i piedi perché le scale erano buie, illuminate solo dalle feritoie che si aprivano nello spessore del muro. In fondo c’era un corridoio buio una specie di galleria, dalle quale proveniva un odore mortifero, nauseabondo odore di vecchia terra mossa da poco. Mentre percorrevo il corridoio l’odore s’è fatto più vicino, più pesante. Giunto in fondo ho spalancato una grande porta, socchiusa, e mi sono trovato in una vecchia cappella in rovina, che doveva essere stata usata come cimitero.
Il tetto era venuto giù, e in due punti c’erano dei gradini che portavano alle cripte. Non c’era nessuno in giro e mi sono messo alla ricerca di un’altra uscita ma invano.
Poi ho ispezionato il terreno palmo a palmo, per non lasciarmi sfuggire nulla. Sono sceso nelle cripte, dove una luce fioca penetrava a stento sebbene il farlo mi abbia spaventato fin nel fondo dell’anima sono entrato in due delle cripte ma altro non ho visto se non frammenti di vecchie bare e montagne di polvere; nella terza tuttavia ho fatto una scoperta. Lì in una di quelle grandi casse,cinque in tutto, su un mucchio di terra scavata da poco, giaceva il conte! Era morto o addormentato, non lo capivo perché gli occhi erano aperti e immobili ma l’aspetto vitreo della morte,le guance avevano il colore della vita pur nel loro pallore e le labbra erano rosse come sempre».
(…) «Dentro la cassa giaceva il conte, ma il suo aspetto era più giovane, i capelli bianchi e baffi grigio ferro;le guance più sode, la bianca pelle era dolcemente rosata; la bocca più rossa che mai, perché le labbra c’erano gocce di sangue fresco, che colava dagli angoli, scendendo lungo il mento e il collo. Persino gli occhi incavati e brucianti sembravano incastonati in carni più turgide, giacché le palpebre e le borse sotto gli occhi erano rigonfie.
Pareva che quell’orrida creatura fosse completamente ricolma di sangue; se ne stava lì, come una schifosa sanguisuga, tanto sazia da essere esausta».
(...) «L’ultima immagine è stata di quel volto rigonfio, sporco di sangue, fisso in quel ghigno malvagio che tale sarebbe stato, anche all’inferno».
Da I Promessi sposi di Alessandro Manzoni
(…) «Il Castello della morte era in una valle angusta e uggiosa, sulla cima di un poggio che sporge in fuori da un’aspra catena di monti, ed è, non sappiamo bene, se congiunto ad essa o separato da un mucchio di massi e dirupi, e da un andirivieni di tane e precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendio piuttosto erto, ma uguale e continuato, a parti in alto, nelle falde e nei campi, sparsi qua e là di casucce. In fondo ad un letto di ciottoli, dove scorre un rigagnolo o torrente, rispetto alla stagione: allora serviva da confine ai due stati. Le cime opposte, che formano, per così dire, l’altra parte della valle, hanno anch’esse un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strade e nude, meno qualche cespuglio nelle fenditure e sui ciglioni.
Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, ne più in alto. Dando un’occhiata in giro scorreva tutto quel recinto, i pendii, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva a terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e puntargli le armi contro, cento volte.
Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello…»
Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma erano già storie antiche e nessuno dei giovani si ricordava di aver visto nella valle qualche avventuriero vivo o morto.
Dai Racconti di Edgar Allan Poe (Boston1809-Baltimora1849).
Il ritratto ovale è ambientato in «uno di quegli edifici che mescolano grandiosità e tetraggine. Si trovava in una torretta appartata, le decorazioni erano fastose ma logore e annose. I muri erano ricoperti di tappezzerie, e ornati di trofei d’armi molteplici e multiformi…»
È mezzanotte (…) «Profondamente pensoso, rimasi forse per un’ora a metà seduto, a metà appoggiato sul fianco, lo sguardo fisso nel ritratto»;
(…) «mentre guardava, prese a tremare, a impallidire e inorridito, esclamando: “Ma questa è la vita!” subitamente si volse a guardare la sua amata: costei era morta».
La ragazza del racconto era di una rara bellezza come la ragazza del quadro di Fussli “L’Incubo”. Nel dipinto la donna è ritratta per intero, riversa sul letto con altri elementi: un orrido folletto e la cavalla sulla quale l’incubo cavalca.
Il rumore del cuore è una storia terrificante:
(…) «Un occhio era simile ad un occhio di avvoltoio, azzurrognolo velato. Quando mi si posava addosso mi si gelava il sangue… lentamente giunsi alla determinazione di togliere la vita a quel vecchio in modo di liberarmi di quell’occhio per sempre. Voi avete questa fantasia, che io sia pazzo».
Uccide il vecchio: (…) «Poi udii un gemito sommesso e sapevo che era il gemito del terrore mortale …anche quel suono lo conoscevo bene. Era il cuore del vecchio».
Nasconde il corpo: (…) «Prima di tutto smembrai il cadavere. Ne tagliai via la testa e le gambe. Poi spostai tre assi dal pavimento della camera e deposi il tutto sotto l’impiantito».
Alla fine l’uomo impazzisce e la tensione diventa molto forte: «Era un suono sommerso, cupo e tuttavia rapido, simile al suono di un orologio avvolto nell’ovatta… “Miserabili!” urlai “smettete di fingere! quel che ho fatto lo confesso! Strappate queste assi! Qui, qui. Qui pulsa quell’orribile cuore!”».
Il gatto nero:
Un ragazzo amava moltissimo gli animali e in età adulta comprò un gatto nero che chiamò: Pluto. Dopo l’acquisto, si sposò con una bellissima ragazza.
Essendo un alcolista accanito, un giorno tornò a casa e ammazzò la sua amata moglie e il suo amatissimo gatto Pluto; lacerato dai sensi di colpa, nacque in lui l’inconscio desiderio del castigo:
(…) «Quando parlava della sua intelligenza, mia moglie, che in cuor suo non poco inclinava alla superstizione, spesso alludeva all’antica fantasia popolare, che considerava i gatti nere streghe occulte».
(…) «All’istante la furia di un demone si impadronì di me. Non mi conoscevo più. Parve che la mia anima originaria avesse abbandonato il mio corpo; ed una malignità più diabolica, intossicata da gin, eccitava ogni fibra del mio corpo».
(…) «Possa Iddio difendermi e liberarmi dalle zanne del Nemico! Non appena l’eco del colpo si estinse nel silenzio, una voce mi rispose dalla tomba! Un suono, sulle prime soffocato e rotto, simile a singhiozzo infantile, e che in breve divenne un gemito lungo, altissimo, ininterrotto, innaturale, disumano, un urlo, uno stridulo lagno, tra orrore e trionfo, quale può uscire solo dall’inferno, dalle gole dei dannati torturati, e insieme dai demoni che dalla dannazione esultano».
Da Racconti notturni di Hoffmann Ernst Theodor Amadeus (1776-1822):
L’uomo della sabbia è una storia inquietante di amore e di follia.
Fidanzato con Clara, Nateniele si innamora di Olimpia, una bambola meccanica, di cui egli non conosce la vera natura e che vede solo da lontano con un cannocchiale datogli da un artigiano italiano, Coppola. Coppola ricorda a Nateniele un misterioso personaggio che ha stravolto la sua infanzia: l’avvocato Coppelius, responsabile della morte del padre, identificato nella sua fantasia con l’uomo della sabbia, un mago cattivo che acceca i bambini che non vogliono dormire. Sospettando che Coppola e Coppelius siano la stessa persona, Nateniele diventa folle e si avvia verso una tragica fine:
(…) «Nella mia vita si è insinuata una cosa spaventosa. Oscuri presentimenti di un destino orribile che mi sovrasta si librano sulla mia testa come ombre nere di nuvole impenetrabili a ogni raggio di sole».
(…) «Nella mia mente si disegnò l’orribile immagine di quell’uomo crudele; e quando la sera lo udivo salire, tremavo dall’angoscia e dal terrore».
(…) «Nulla mi piaceva tanto quanto ascoltare o leggere storie raccapriccianti di folletti, di streghe, di pollicini».
(…) «Ripugnante è stato certamente il vecchio Coppelius, ma il fatto che odiava i bambini suscitò in voi un vero ribrezzo e la vostra antipatia.
Naturalmente il pauroso uomo della sabbia si fuse nel tuo spirito infantile col vecchio Coppelius che, anche se non credevi nell’uomo della sabbia, rimase pur sempre per te il mostro fantastico e pericoloso ai bambini».
Il Maggiorasco parla di un’intricata e brutale vicenda, resa ancora più misteriosa e terribile dalla presenza soprannaturale di uno spettro che si aggira per le stanze di un antico castello.
Il vecchio barone Roderico ha istituito il maggiorasco: ha stabilito cioè che la proprietà del suo feudo, passi sempre in eredità al primogenito.
Il primogenito Volfango muore in circostanze misteriose, precipitando sulle rovine di una torre del castello dalla quale il padre osservava le stelle con il maggiordomo Daniele. Roderico, appassionato di astronomia, aveva previsto la data della sua morte, la stessa notte del crollo della torre .
La proprietà passa al secondo figlio, ma appare il figlio segreto di Volfango, che assume il controllo del castello, sposando anche Serafina.
La vicenda si svolge nel 1796, quando Roderico e Serafina tornano come ogni anno al castello per la battuta di caccia:
(…) «Dai grandi quadri raffiguranti movimentate e sanguinose scene di caccia dall’orso e al lupo, balzavano fuori teste di uomini e di animali intagliate in legno e poste a completare i corpi dipinti; e sotto la luce oscillante e sfavillante della fiamma e della luna le scene diventavano paurosamente vive e reali».
(…) «Come non avvertire, nel brivido sottile che mi correva lungo le membra, la possibilità di vedere, di percepire da un momento all’altro un mondo sconosciuto?»
(…) «La fantasia sovreccitata mi fa vedere spettri dappertutto».
(…) «Fermati… non un passo di più… o precipiti negli orrori dell’oltretomba e sei perduto».
(…) «Anche la fantasia più pigra si desta al desiderio di sensazioni mai provate».
(…) «Immaginate: nel silenzio notturno il cupo fragore del mare, gli ululati del vento simili a registri d’un organo mostruoso suonato da fantastiche mani».
(…) «Quella sensazione rassomigliava tuttavia al brivido pungente ma piacevolissimo che si prova nel sentir dire raccontare storie di fantasmi».
Il Gotico nell’arte
Johann Heinrich Füssli (Zurigo-1741-Londra 1825) – Incubo 1790-91, olio su tela, cm 76x 64, Francoforte, Museo Goethe
Fussli rappresenta una visione notturna tra sogno e incubo. Spiriti e fantasmi diventano presenze concrete intorno al letto della ragazza che sta sognando. La presenza più inquietante è il muso del cavallo dagli occhi spalancati. Il mostriciattolo accovacciato sul letto è a metà fra un diavolo e una scimmia e ha uno sguardo folgorante. Classica è la posa della ragazza.
Non ci sono riferimenti spaziali e temporali certi.
Le presenze che la ragione considererebbe incongrue, nel sonno appaiono veritiere.
Le figure emergono appena dal buio, più simili a ombre che a corpi solidi.
Lo spazio verso l’osservatore è breve. Le cose appena intraviste nella penombra sul tavolino a sinistra, poste accanto alle figure fantastiche ci impediscono di distinguere tra realtà e fantasia.
William Blake (Londra, 1757-1827) – Gli Angeli del bene e del male, acquerello, cm 44,5 x 59,4, Londra, Tate Gallery
Il quadro presenta una situazione così sconvolgente che scatena in chi guarda un vortice di emozioni così forte da non riuscire a trascriverne neanche una.
Il tema è fantastico e irrazionale. Il colore rosso delinea il male e la linea evidenzia il movimento rapido.
Elementi dell’arte di Blake sono:immaginazione, mistero, visioni e allucinazioni.
Caspar David Friedrich (Greifswald, 1774-Dresda, 1840) – L’abbazia nel querceto, 1809, olio su tela, cm 110,4x 171, Berlino, Nationalgalerie
La composizione esprime un senso di desolazione: gli alberi spogli, quasi morti durante l’inverno, sembrano lapidi di un cimitero intorno al rudere di un’antica chiesa abbandonata, una gamma molto limitata di colori grigio-bruni esprime un senso di malinconia. Lo sguardo si perde in una nebbia sottile, in una foschia opaca che rende indistinto l’orizzonte
Le croci del cimitero e gli alberi privi di vita che si stagliano nel cielo come scheletri di cimiteri alludono simbolicamente alla morte. Il colore ne definisce l’atmosfera e indica la desolazione e l’abbandono dell’uomo.
Arnold Böcklin (Basilea 1827- S. Domenico di Fiesole, 1901) – L’isola dei morti, 1880, olio su tela, cm 110x 155, Basilea, Kunstmuseum
Una piccola imbarcazione sullo sfondo di immense rocce a picco sull’acqua coperte da una folta vegetazione. A bordo della barca si scorgono una bara drappeggiata di bianco e due figure: il rematore e forse un fantasma che, illuminato dal sole al tramonto, contrasta con i grandi cipressi verticali dell’isola. E’ un paesaggio bloccato in una inquietante immobilità, al di fuori del tempo e dello spazio reali.
Il marrone neutrale delle rocce e il grigio plumbeo del cielo e del mare esaltano la bianca luminosità della figura in piedi nella barca. Fondamentale è la luce:l’immagine trasmette una magica impressione di immobilità e silenzio.
Böcklin esplora sogni e misteri, popola le sue tele di allegorie, di leggende, di personaggi immaginari e mitici.
Il Gotico in musica
H. Berlioz (La-Cote-Saint-André 1803 - Parigi 1869)
All’età di 27 anni il musicista scrisse La Sinfonia fantastica, divisa in varie scene che interpretano i sogni, i ricordi, le sensazioni, l’angoscia, la malinconia e la gelosia di un giovane artista che cerca di dimenticare il suo infelice amore, stordendosi e addormentandosi. L’opera contiene danze macabre, gotiche che la rendono molto interessante e non monotona. Nell’ultimo tempo: “Sogno di una notte del Sabba”, il giovane musicista si trova circondato da un’orribile adunanza di ombre, stregoni e mostri di ogni specie che gli danzano intorno una danza infernale.
Progetto di lettura e scrittura creativa realizzato con gli studenti del biennio, ITIS “A. MEUCCI” Firenze, con ragazzi sull’extra scuola e con adulti.
* I commenti sono degli studenti.
Anna Lanzetta, insegnante