«Vivo in quella solitudine che è penosa in gioventù, ma deliziosa negli anni della maturità» ha detto Albert Einstein in un’intervista concessa negli ultimi anni della sua vita. Una frase che sollecita riflessioni sui due volti della solitudine: quella interiore e creatrice e la solitudine dolorosa dell’isolamento. In realtà la solitudine è una condizione ineliminabile della vita.
«Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole:/ ed è subito sera» ricorda, in uno dei suoi componimenti più famosi, Salvatore Quasimodo. E ...la poetessa Emily Dickinson: «Forse sarei più sola/ senza la mia solitudine»; sì, perché la solitudine è un’esperienza interiore che aiuta a vivere meglio la propria spiritualità.
Ma esiste anche il peso dell’isolamento di vecchi, malati, abbandonati, stranieri, emigranti… isolamento determinato spesso dall’emarginazione, dall’indifferenza e dall’egoismo.
Le forme di isolamento sono tante.
Eugenio Borgna, in La solitudine dell’anima,1 esamina i due aspetti tematici con cui si manifesta nella nostra vita l’esperienza radicale della solitudine, analizza gli aspetti e i modi con cui l’una e l’altra solitudine si intrecciano e si separano nella vita di ogni giorno, nelle esperienze del dolore e della paura, della felicità perduta e della vita ascetica, ma anche la malattia depressiva, la mancanza o la perdita di persone amate, la dissolvenza di ruoli sociali significativi... non trascurando «la nostra indifferenza e la nostra noncuranza, la nostra desertificazione emozionale, il nostro rifiuto dell'amore».
E ancora il dolore fisico, le crisi di fede, la timidezza, «i sensi di colpa, l'acutizzarsi di conflitti sociali, l'angoscia»... o il prendere coscienza che anche il successo e la gloria sono «un nulla se un segno umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda» scriveva Cesare Pavese in Il mestiere di vivere, verità autobiografica la sua: Pavese era uno scrittore di successo, circondato da una folla di conoscenti, ma a sera, spenti gli echi degli applausi, si ritrovava solo, insoddisfatto, circondato dal nulla. Si sa quale sia stato il tragico approdo della sua esistenza, così come era accaduto e accadrà a molti che pure hanno raggiunto il picco della fama. Ma qui si attraversa il “soggettivo”, il personale modo di vivere la solitudine.
«Uno degli studi principali dei giovani dovrebbe essere quello di imparare a sopportare la solitudine», scriveva in Aforismi sulla saggezza del vivere il filosofo Arthur Schopenhauer, «perché questa è fonte di felicità e di tranquillità d’animo». E c’è ancora chi afferma che la solitudine è la dieta dell’anima che si libera dalla pesantezza delle chiacchiere, dalla banalità, esteriorità e vanità per dirigersi verso la profondità, il mistero, l’intimità.
Rainer Maria Rilke: «…una sola cosa è necessaria: la solitudine, la grande solitudine interiore. Andare in se stessi e non incontrarvi chi ti distrae...»
Saggio colui che saprà distillare il bene che fluisce dall’essere soli: quiete, pacatezza, contemplazione e riflessione, indispensabili per un equilibrio tra la propria identità e l’ambiente sociale in cui si è chiamati a vivere.
Giuseppina Rando
1 Giangiangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2011.