Sessant’anni fa nasceva Pier Vittorio Tondelli che ci ha lasciato nel 1991, sconfitto dall’AIDS da cui era afflitto da anni. Nonostante la mole di saggi, articoli e interventi sullo scrittore di Correggio sia decisamente poderosa, vi è un aspetto della sua vita che mi ha sempre colpito e che, a mio avviso, non è stato ancora trattato in maniera esaustiva. Questo aspetto è il suo rapporto con Andrea Pazienza: uno dei più conosciuti e dotati fumettisti italiani, scomparso tragicamente pochi anni prima dello stesso Tondelli.
Molte sono le cose che accomunano Tondelli e Pazienza: l’età (Tondelli è del ’55, Pazienza del ’56), la formazione sostanzialmente da autodidatti, la vita nella Bologna degli anni ’70, il tentativo di rappresentare in divenire i cambiamenti di una società rutilante, l’immersione in una bohème al suo culmine, l’attraversamento della fine di questa medesima esperienza e la proiezione in un mondo completamente diverso. Un mondo i cui risultati ci appaiono ora come palesi e delineati ma che, un paio di decenni fa, erano tutt’altro che previsti o prevedibili. Così come Tondelli, anche Andrea Pazienza ha sofferto (e soffre tutt’ora) dell’etichetta di autore “generazionale”: un autore le cui opere risentono in maniera marcata dello “spirito del tempo”. Come se le sue capacità si limitassero alla riproduzione in presa diretta di una realtà (quella, appunto, della Bologna degli anni ’70) e non sconfinassero nell’utilizzo della stessa per tratteggiare dei sentimenti ben più diffusi e trasversali. In questo la figura di Tondelli sembra essere decisamente vicina a quella di Pazienza solo, diversa sembra essere la presa di coscienza che il ruolo di artista assume per i due. Là dove Tondelli ha dimostrato (anche nell’evolversi della sua produzione letteraria) di essere in grado di “gestire” la sua carriera di scrittore, Andrea Pazienza è sembrato essere maggiormente in balia di se stesso, del suo giovanilismo frenetico. Non tanto del “personaggio” che dietro a lui era stato creato (e che lui stesso, in parte, aveva contribuito naturalmente a creare), bensì della bohème in cui si era immerso: vittima delle sue dipendenze e della sua incapacità di rinunciare alle stesse.
Nel tracciare un commiato all’amico, Tondelli pone una domanda che, letta in maniera retrospettiva, appare tanto interessante quanto priva di reale risposta: «a chi appartiene la vita di un artista?». Difficile immaginare che, nel porla, Tondelli non pensasse anche a se stesso. Alle critiche ricevute, alle catalogazioni cui era stato sottoposto, alle incomprensioni che, al netto della malattia avanzante, lo portavano a spingere la sua visione della realtà molto più in là. Questa visione lungimirante e retrospettiva sembra essere in antitesi rispetto alla visione di Andrea Pazienza. Il quale appare autore così immerso nella sua opera da perdere di vista la capacità di “guidare” l’opera medesima. Credo che, ancora una volta, sarebbe difficile trovare due figure così simili, e allo stesso tempo diverse, come quelle di Tondelli e Pazienza. La simpatia che scattò immediatamente tra i due nasceva non tanto da un parallelismo nella visione della vita o da un background tanto condiviso da essere pressoché identico, bensì da un’empatia umana e artistica che andava al di là delle scelte stilistiche o narrative.
Lo sguardo che Tondelli riserva ai giovani ribelli di Altri libertini è completamente diverso da quello che Pazienza riserva ai vari Pentothal o Zanardi, eppure l’impressione è che un racconto sia complementare all’altro. Che il cinismo, la disperazione, l’assurdità visionaria degli anti-eroi di Pazienza faccia da contraltare alle follie spesso scanzonate dei protagonisti dei racconti di Tondelli. Con alcune fasi di contatto che, più che confermare un parallelismo stilistico, ci parlano di quelle famose zone di luce in cui i due autori (quasi senza saperlo) sembrano andare di pari passo. La disperazione di Pentothal incapace di dare voce alla sua arte non è troppo lontana dallo sconforto di Michael in Altri libertini:
«Ma si sa bene che non basta dire due parole o inventare uno scherzetto o fare una rima sciocca, e che quando uno ci ha i cazzi suoi, be’, sono veramente suoi, non c’è da fare un cazzo, manco gli stoici gli epicurei o i filosofi, niente. Non si può impedire a qualcuno di farsi o disfarsi la propria vita».
Quest’evidenza ci permette di aggiungere un altro punto alla nostra analisi, ovvero l’importanza che entrambi gli autori riservavano all’aspetto “narrativo” delle loro opere. Al tentativo di ricreare un linguaggio che non fosse semplicemente “calco” del linguaggio giovanile degli anni ‘70/’80, bensì che possedesse delle particolarità stilistiche capaci di rendere peculiare la forma stessa di espressione. Non a caso il critico Oreste del Buono, estimatore di Tondelli e scopritore di Andrea Pazienza, si esprimeva così sull’arte di quest’ultimo:
«La Bologna che fa da sfondo alle Straordinarie avventure di Pentothal non è una Bologna fantastica ma una Bologna storica fantasticamente immaginata da Andrea Pazienza prima che la storia accadesse, mentre la storia si avviava a essere».
Anche in questo caso si vuole sottolineare come la capacità inventiva di Pazienza, similmente a quella di Tondelli, non si trova nel rendere in maniera documentaristica la realtà, bensì nell’immaginarla e fantasticarla in maniera così profonda da renderla poi reale. Un’operazione che riesce soltanto ai grandi artisti. E Andrea Pazienza e Pier Vittorio Tondelli fanno parte di questo novero.
Dopo gli esordi le carriere artistiche di Tondelli e Pazienza sembrano seguire delle direzioni molto simili. Acclamati quasi subito come nuovi enfant prodige della letteratura e del fumetto italiano, i due non sembrano cambiare drasticamente il loro percorso artistico. Anzi, proseguono su una strada che sembra essere già tracciata, continuando in una produzione che lascia ben poco spazio alle concezioni commerciali o alle strizzatine d’occhio nei confronti di critici ossequiosi o di un pubblico che non riconoscessero come “autentico”. La qualità della produzione di entrambi continua a mantenere un livello assai alto, proponendo però nuove figure e nuove scelte stilistiche capaci di dimostrare come la fiducia su di loro fosse senza ombra di dubbio ben riposta. A Pentothal segue Zanardi, a Zanardi segue Pertini. Ad Altri libertini seguono le avventure militari di Pao Pao e a queste ultime quelle “litoranee” di Rimini. Ecco, è forse con Rimini (1985) e con il superamento della metà degli anni ’80 che qualcosa cambia per entrambi. Le vendite del suo primo romanzo “commerciabile” fanno di Tondelli un autore da best-seller, mentre le illustrazioni di Andrea Pazienza appaiono sulle copertine di film di Federico Fellini o su album di Roberto Vecchioni, Claudio Lolli o della PFM. Si potrebbe parlare di un successo che arride ai due autori, ma è proprio Pazienza a fermare sul nascere ogni possibile speculazione in merito:
«Però (di però ce ne possono essere a pacchi), non ho mai pensato al soldo, mentre disegnavo, casomai subito prima, o subito dopo, mai durante. Voglio dire che alla fine ho sempre fatto quel che ho voluto, senza badare acché ‘ste cose si potessero poi rivendere di su o di giù».
Significativo che queste parole appaiano in conclusione di Pompeo (1987), forse l’opera più visceralmente autobiografica di Pazienza. La storia del fumettista Pompeo e del suo rapporto con la dipendenza da eroina è qualcosa che va al di là di una graphic-novel o di un’autobiografia “velata”. È qualcosa di molto più profondo, come molto più profonda è la trama dell’ultimo romanzo di Tondelli, Camere separate. Ugualmente viscerale e ugualmente inchiodato a doppia mandata con la vita e con il vissuto dell’autore. I parallelismi, come possiamo vedere sembrano non finire, così come sembrano non finire le divergenze già sottolineate in precedenza. Il “giovanilismo” di Pazienza («forse la giovinezza è solo questo perenne amare i sensi e non pentirsi», come scriveva Sandro Penna, poeta particolarmente caro a entrambi), quel suo essere decisamente fuori controllo non per posa ma per natura, contrasta con la delicata malinconia di Tondelli.
Legati entrambi a un passato “mitico” e protesi allo stesso modo verso un futuro da immaginare e ritrarre, i due artisti pur divergendo sostanzialmente nella coscienza della loro vita finiscono con il convergere, quasi “empaticamente”, su alcune tappe fondamentali della medesima. Già malato, Tondelli sceglie il ritorno al suo paese natale (Correggio), con l’immersione nei riti di quella che era stata la sua giovinezza e adolescenza. Una sorta di esilio volontario finalizzato al contatto con la natura. La natura esteriore del paese (le scene che descrivono il ritorno a casa di Leo, il protagonista di Camere separate, sono tra le più toccanti del romanzo) e la natura interiore dell’individuo. Allo stesso modo Pazienza, nell’ennesimo tentativo di disintossicarsi dall’eroina, sceglie di ritirarsi a Montepulciano. Un esilio volontario lontano dai creditori, dalle tentazioni delle grandi città, dagli impegni sempre più oppressivi e sempre meno stimolanti. Ecco come Paz descrive questa sua scelta:
«Adesso che sto a casa dormendo fino alle 11 di mattina, avendo cani, mangiando, facendo una vita tra scarpone militare e pantofola, divertendomi con la natura, sto molto meglio. Voglio stare tranquillo ancora per un po’. Vorrei evitare il più possibile di lavorare per poter fare il più possibile quello che mi pare».
Ed è anche alla luce di queste parole che la sua scomparsa appare ancor di più una tragica fatalità. In via di disintossicazione, Andrea Pazienza ricadrà per l’ultima volta nella tentazione dell’eroina. Una dose a cui il suo corpo, quasi ripulito, non era più abituato gli sarà fatale. Era il 16 giugno 1988. Quello stesso anno Tondelli scriverà un bellissimo articolo per commemorare l’amico scomparso. Articolo nel quale è posta la domanda da cui siamo partiti, ovvero «a chi appartiene la vita di un artista?». Nel tracciare un ultimo ritratto dell’amico, ricordandone la simpatia esuberante, il talento e i successi raggiunti, Tondelli non si esime dal “criticare” in vecchio Paz per questa sua uscita di scena:
«è questo che la morte di Andrea mi mette davanti, spietatamente: il lato negativo di una cultura e di una generazione che non ha mai, realmente, creduto a niente se non nella propria dannazione».
Ancora una volta Tondelli legge in Pazienza una figura archetipica della sua generazione. Una figura che ne incarna i pregi e i difetti in un modo non tanto naturale, quanto più inevitabile. Citando Pavese, poi, Tondelli conclude il ricordo dell’amico sottolineando questa “inevitabilità” dell’esistenza: «ogni vita è quella che doveva essere, scriveva Pavese. Allora sia resa lode a chi ci sta precedendo lassù».
Nel 1987 esce Pompeo. Il 16 giugno 1988 Andrea Pazienza ci lascia. Nel 1989 esce Camere separate, similmente a Pompeo una sorta di testamento dell’autore. Il 16 dicembre del 1991 Pier Vittorio Tondelli conclude la sua esistenza. In un certo senso anche la sua morte racchiude in sé un’inevitabilità generazionale. Così come l’eroina negli anni ‘80, l’AIDS sarà la piaga degli anni ’90. Parimenti all’assenza di informazione sulle droghe, anche l’assenza di informazione sul virus dell’HIV sarà alla base di tante vite strappate troppo in fretta. Secondo modalità che non lasciano alcuno scampo. Se Pazienza aveva incarnato in sé questa “inevitabilità”, profetizzandola quasi nelle ultime pagine di Pompeo, Tondelli lo farà alla fine di Camere separate, quando Leo:
«saprà, con una determinazione anche commossa e disperata, che non c’è più niente da fare. Si avvierà alle sue cure, cambierà letti negli ospedali, ma saprà sempre, in qualsiasi ora, che tutto sarà inutile».
Vorrei concludere questo percorso che si propone di descrivere il rapporto artistico e umano tra le figure di Pier Vittorio Tondelli e Andrea Pazienza con l’ennesima, involontaria, dimostrazione dell’empatia che li legava. Nel 1986 Tondelli dà alle stampe Biglietti agli amici, un libro estremamente intimo che l’autore di Correggio, compiuti trent’anni, si sente di dedicare a una ristretta cerchia di affetti. Il libro si compone di 24 biglietti che Tondelli indirizza a 24 amici, le cui generalità sono celate dalle sole iniziali. Il biglietto numero 7 è dedicato ad A. P., e benché Tondelli non si sia mai espresso pubblicamente in merito, non ci è arduo immaginare chi si celi dietro quelle iniziali. Ecco il biglietto:
«102. La Benda
Quando era un giovane che si esercitava nell’arte del taglio e cucito, Si Ster andò a trovare il Grande Maestro Yoshij per chiedergli il segreto della sua raffinatezza elogiata in tutto l’Impero. Con grande stupore lo vide vestito di una sola, lunga, benda bianca.
“Perché meravigliarsi?” disse allora Yoshij. “La Trasandatezza è una condizione dello Spirito. Il suo massimo grado consiste nel Sublime Trasandato il cui raggiungimento però necessita di una costante pratica di vita e di esercizio assiduo. Il Sublime Trasandato diventa allora l’agio delle cose”. Uscendo dal tempio Si Ster vide una lumaca e fu illuminato».
Difficile non vedere nell’ambientazione del biglietto un omaggio di Tondelli alla passione di Pazienza per l’oriente (Paz, come Zanardi, praticava il kendo), nonché un accenno a quel talento «strapazzato, gettato, immiserito, sprecato, dannato, sapendo di poterlo trovare intatto il giorno dopo, ancora più brillante e sgargiante». Nel suo saggio Il plesso solare e la tecnica del fumetto, Pazienza concludeva così la descrizione della sua vita nell’eremo di Montepulciano:
«Non voglio pensare: questa storia mi piace, può funzionare. Il concetto non mi passa neanche per l’anticamera del cervello. Piuttosto preferisco essere libero, essere definito inaffidabile. Anzi, voglio rimarcare la mia assoluta inaffidabilità».
Il Sublime Trasandato, per l’appunto. Quel Sublime Trasandato che Tondelli riuscì a descrivere con la stessa malinconica delicatezza con cui descrisse le persone e i sentimenti a lui più cari. La stessa malinconica delicatezza che, quasi come in uno specchio, riservò alla sua vita d’artista. Ecco, allora, che la risposta sul diritto di appartenenza dell’esistenza di un artista ci appare ancor più insensata e inutile. Egoistica, quasi. La sola possibilità che ci viene data è quella della speranza di godere il più a lungo possibile dei frutti di quel talento.
Con la consapevolezza, però, che l’addio è sempre dietro l’angolo ma che, allo stesso tempo, lo è anche l’illuminazione.
Come per il Sublime Trasandato e il Delicato Malinconico.
Come per Pier Vittorio Tondelli e Andrea Pazienza.
Andrea Gratton