Il 20 novembre di venticinque anni fa, ci lasciava Leonardo Sciascia. Nel corso di una vita tutto sommato breve – aveva 68 anni quando è morto – Sciascia è stato, è riuscito ad essere tante cose: grande scrittore, capace letteralmente di pre/vedere quello che sarebbe poi accaduto, perché era capace di cogliere e interpretare i segni anticipatori; è stato una grande coscienza critica, ha affrontato le grandi questioni della vita e della morte, del diritto, della giustizia, del diritto al diritto e alla giustizia: un grande intellettuale che non ha esitato ad immergersi nella politica, quando lo credeva necessario, utile. Nel 1979 è stato parlamentare, eletto nelle liste del Partito Radicale, e ha fatto parte della commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro; la sua relazione di minoranza. ancora oggi, è un testo fondamentale, se si vuole capire qualcosa di quella stagione che si suol chiamare “degli anni di piombo”. Di Marco Pannella aveva grande stima: di lui ha scritto: “Pannella è il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge, della giustizia”.
Grande scrittore, sapeva ascoltare; e proprio quel suo modo quasi esitante nel pronunciare le parole, riusciva a creare un pathos e un ascolto straordinari. Usava poche frasi essenziali, i suoi erano interventi brevi, ma per chi lo ascoltava costituivano sempre una preziosa occasione di intelligenza.
Tutti i suoi libri meritano di essere letti, riletti, meditati. Ma se proprio si deve fare una selezione, tra i fondamentali azzardiamo Il Giorno della civetta, dove si racconta la mafia e come combatterla, con gli strumenti del diritto e della legge, inseguendo le tracce che lascia il denaro, quei metodi che vent’anni dopo saranno usati con successo da Giovanni Falcone; La morte dell’Inquisitore, storia di un eretico perseguitato dall’Inquisizione, il frate Diego La Matina; Il Cavaliere e la morte, libro che parla del potere e del suo lato criminale; La Scomparsa di Majorana, al di là della vicenda misteriosa di questo scienziato, affronta la questione del rapporto tra scienza e potere; Una storia semplice, dove Sciascia fa i conti con la magistratura, e certo modo di amministrare la giustizia, straordinario il dialogo tra il vecchio professore e il suo alunno diventato magistrato, e l’importanza dell’italiano.
Sciascia andrebbe ricordato per tante cose buone e giuste che ha fatto; ma se ne potrebbe parlare per tutta la giornata. Voglio però ricordare una polemica che gli procurò molta amarezza, quando scrisse un piccolo saggio, pubblicato sul Corriere della Sera e poi ripreso in un volume che raccoglie alcuni suoi articoli, A futura memoria; e mi riferisco a quell’articolo titolato redazionalmente “I professionisti dell’antimafia”. Venne ricoperto di insulti, volgari e meschini. Si arrivò a dargli del quaquaraquà e si sostenne che era praticamente un complice dei mafiosi. Una vera vergogna, furono in pochi a difenderlo e sostenerlo. In quell’articolo Sciascia parlava del prefetto Mori, della lotta alla mafia durante gli anni del fascismo, e pensava anche ai giorni nostri, comparandoli con quelli di allora: “…E da tener presente”, tra l'altro scriveva, “l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando”. Aveva ragione Sciascia.
Valter Vecellio
(da Notizie Radicali, 19 novembre 2014)