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Maria Paola Forlani. Pietro Paolo Rubens e la nascita del Barocco
13 Novembre 2016
 

A Milano nei saloni nobili di Palazzo Reale si è aperta, fino al 26 febbraio 2017, la mostra “Pietro Paolo Rubens e la nascita del Barocco”, a cura di Anna Lo Bianco (catalogo Marsilio).

Per Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640) l’arte è la forma visibile di una struttura unitaria che stringe l’uomo e il mondo, la storia collettiva e l’esistenza degli individui. Una struttura governata da due autorità entrambe legittime e necessarie, l’autorità del sovrano e quella della Chiesa. Due poteri al servizio dei quali egli lavorò e produsse per tutta la vita, in questo tanto simile a Bernini e a Velàzquez e sideralmente distante da grandi suoi contemporanei come Rembrandt o Vermeer.

Con Bernini e Rubens il barocco riceve la sua consacrazione, con loro giunge al culmine. Soltanto Rubens e Bernini, in un momento della storia lacerato e convulso quale fu quel secolo, riescono a fondere la tradizione religiosa del Medio Evo, la cultura figurativa dell’Umanesimo, l’idealizzazione allegorica del potere.

Se per Bernini questo appare quasi naturale, nel contesto del secolare rapporto fra arte e Chiesa a Roma, per Rubens si tratta di una scelta fra diverse, possibili opzioni. I Paesi Bassi erano infatti lontani dalla sede del Papato, la borghesia finanziaria e mercantile vi occupava un ruolo ben più elevato che a Roma e nell’Italia tutta, e la pittura cominciava a rivolgersi al consumo privato, a diversificarsi in generi, a specializzarsi e a rimpicciolirsi nelle dimensioni e nelle intenzioni. Rubens avrebbe potuto diventare un ritrattista, un paesaggista, un pittore di storia o di nature morte o il cronista arguto della vita fiamminga. Sceglie invece la strada della totalità e decide di essere tutto: decoratore e ritrattista, pittore di storia e di fede, creatore di un universo visivo e concettuale che non ammette fratture, gerarchie di valore e di manifestazioni. Questa la sua grandezza, questa la radice della sua straordinaria personalità, anche umana, nel contesto dell’arte fiamminga, che con Rubens esce dai propri confini e dilaga per tutta Europa, ponendo semi della stagione decorativa che troverà in Giambattista Tiepolo l’estremo, sublime interprete.

Per rendere chiaro e lineare questo tema complesso la curatrice della mostra, ha selezionato un gruppo di opere assolutamente esemplari, con confronti il più possibile evidenti tra dipinti di Rubens, sculture antiche, opere di alcuni grandi protagonisti del Cinquecento e di artisti barocchi: un corpus di oltre 70 opere, di cui 40 del grande maestro fiammingo, riunito grazie a prestiti provenienti da alcune delle più grandi collezioni italiane ed internazionali.

Il viaggio in Italia per Rubens costituisce non tanto un’esperienza tecnica quanto l’occasione per immagazzinare i dati e le suggestioni di un patrimonio cui attingere per tutta la vita, un deposito di memorie e di pensieri ai quali ritornare e dai quali ripartire, sempre dagli anni giovanili fino alla gloriosa vecchiaia. Michelangelo a Roma, Tiziano a Venezia e nelle collezioni spagnole, Correggio a Parma, Giulio Romano a Mantova. Ma non solo: anche i portati rivoluzionari di Caravaggio, il classicismo eroico di Annibale Carracci e l’orchestrazione delle superfici di Veronese entrato nel suo bagaglio.

La mostra divisa i quattro sezioni tematiche: Nel mondo di Rubens; Santi come eroi,

Pittura sacra e Barocco; La furia del pennello; La forza del mito, dove le opere del maestro sono accostate a quelle degli artisti italiani – per scorgerne le affinità e i debiti – e a esemplari di statuaria classica, noti a Rubens, che vi si ispira liberamente.

Quando il maestro lascia l’Italia e si accinge al ritorno in Anversa, nel 1608, Rubens ha accumulato una cultura vastissima, che sa scegliere il meglio ovunque si trovi.

Per questo appare subito come l’artista deputato, predestinato quasi, alla riedificazione della pittura nei Paesi Bassi meridionali, dove la Chiesa e il potere intendono riaffermare di fronte al laicismo borghese e all’iconoclastia protestante il valore educativo delle immagini.

Il prestigio acquisito negli anni italiani, la vastità della cultura e la sovrana maestria esecutiva permettono a Rubens di dialogare da pari a pari con i potenti che richiedono il suo lavoro. Ne è prova la libertà di movimento accordatagli, a cominciare da quella di risiedere ad Anversa pur essendo il pittore di una corte stabilita a Bruxelles. Ne è prova la sua attività diplomatica, che lo vede inviato degli arciduchi in tutta Europa a trattare mediazioni, alleanze, finanziamenti, acquisti di opere d’arte. Proprio nel momento in cui a Roma la colonia degli artisti fiamminghi e tedeschi – per i quali l’esempio di Caravaggio è soverchiante – inizia a delineare la figura dell’artista come individuo slegato da ogni responsabilità pubblica e ideologica, nelle Fiandre Rubens assume con piena coscienza il ruolo pubblico, e il conseguente peso morale, del grande funzionario, del rappresentante ufficiale.

Ma Rubens è uomo libero, integro e pienamente consapevole di quanto fa, scrive, dice, dipinge. Un’armonia psicologica che sostiene e sostanzia in primo luogo la sua arte, ma anche la sua serena esistenza.

Come afferma Jacques Lassaigne: «Quale privilegio è riservato ai grandi artisti! La magia dei pennelli di Velàzquez è sufficiente a far dimenticare le ombre nelle quali si immerge la monarchia spagnola. Del pari, la vita generosa che sgorga dalle creazioni di Rubens dà una promessa di rinnovamento al secolo più fosco della storia delle Fiandre… e gli conferisce nella memoria lo splendore dell’età dell’oro…»

 

Maria Paola Forlani


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