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Rosangela Pesenti. Perché ho fischiato Formigoni, il 25 aprile in piazza a Milano
27 Aprile 2009
 

Ieri, 25 aprile, ero tra quelli che in piazza Duomo a Milano hanno fischiato Formigoni. Intorno a me su questo è nata una vivace discussione tra chi protestava ad alta voce e chi difendeva il diritto di parlare da parte di tutti, preoccupato soprattutto della possibile strumentalizzazione del nostro comportamento.

Il contesto non si prestava a discussioni pacate e quindi ognuno di noi ha agito come meglio credeva, ma oggi voglio avanzare alcune riflessioni proprio sulla democrazia nei “contesti” perché penso che la democrazia non è un astratto sistema di poche regole, ma una pratica complessa che per esprimere il meglio delle sue potenzialità non può prescindere dalla realtà dei soggetti e dalla loro collocazione. In una manifestazione di piazza come quella di ieri il rapporto tra oratori e partecipanti è asimmetrico: gli oratori parlano dal microfono e possono produrre discorsi articolati, chi sta in piazza può solo esprimere consenso e dissenso con applausi o fischi e questo fa parte delle regole democratiche.

Nel suo ruolo ha fatto bene il Presidente Scalfaro a ricordarci che la democrazia è prima di tutto la libertà di parola per chi la pensa diversamente da me, al suo posto avrei detto le stesse parole, ma dal mio posto, la piazza, ho esercitato il mio diritto al dissenso. E non è un caso che lo stesso presidente Scalfaro in un passaggio successivo abbia ricordato il comportamento ignobile da lui subito nell’aula del Senato della Repubblica e non da una piazza di “facinorosi”, ma dai senatori della cosiddetta casa delle libertà che si sono costantemente prodotti in gesti e parole volgari sguaiati e lesivi non solo della dignità del ruolo, ma delle persone stesse, gesti e parole di cui io stessa ho provato vergogna come cittadina e come insegnante perché fuori dalle regole di qualsiasi convivenza civile, inaffrontabili sul piano della democrazia, pericolose per il popolo sovrano che può solo assistere impotente.

Per questo voglio ricordare a quelli che ci invitavano a tacere che in piazza duomo ieri la nostra protesta era quella di una minoranza che non solo non viene ascoltata, ma anche costantemente censurata e oscurata da una maggioranza arrogante che abusa della sua posizione e del suo potere usando modi leciti e illeciti per svilire proprio la complessità delle regole democratiche, sbandierando una semplificazione che mira a costruire nei fatti la passività di un consenso plebiscitario che rappresenta la forma moderna della riduzione dei cittadini a sudditi.


Ho contestato Formigoni perché conosco la distanza tra le astratte dichiarazioni di ossequio alla giornata del 25 aprile e la sua pratica politica.

Sappiamo quanto sia cresciuta negli ospedali l’obiezione di coscienza ai fini di carriera con un danno non solo sul piano della possibilità di esercizio dei diritti civili da parte di cittadini e cittadine (e questo già è gravissimo), ma ancora più grave considero la diffusione di quella forma di amoralità pubblica che favorisce l’asservimento individuale al più o meno tacito ricatto del potere.

Per non parlare della mortificazione costante della scuola pubblica e lo sfacciato sostegno delle scuole private col denaro pubblico, contro il dettato stesso della Costituzione.

Certo sarebbe stato più politico cantare Bella ciao girando tutti le spalle al palco invece di fischiare, ma ci manca l’organizzazione e non è cosa da poco.

Ma tacere no, non è possibile: chi ha il potere deve sapere che oggi, come durante il fascismo e la guerra, ci sono persone che non oscillano tra interesse e coscienza, perché rispondere alla propria coscienza è comunque l’interesse più alto.

Guardo con preoccupazione a un mondo in cui le relazioni sociali sanno esprimersi solo con formule di cortese affettazione, sorrisi falsi e ammiccamenti o, l’altra faccia della medaglia, sequele di insulti sguaiati, e sembra poco opportuna, antiquata, una trasgressione alle tacite regole del quieto vivere, la ferma esposizione delle proprie convinzioni.

Tanto per stare nella questione delle regole democratiche ho invece considerato grave l’abuso di microfoni da parte di un gruppo giovanile che ha cercato di sovrastare il discorso di Scalfaro che, da parte sua, con grande sapienza politica, ne ha rilevato ed esaurito la presenza in una bonaria battuta (ma dov’era la pubblica sicurezza della città tanto sbandierata in altre occasioni?).

La piazza del 25 aprile appartiene alle istituzioni perché quel giorno è stata liberata dalla dittatura fascista proprio la possibilità di costruire la democrazia nel nostro paese, una democrazia grazie alla quale qualsiasi associazione può chiedere una piazza e invitare i cittadini all’ascolto.

Il 25 aprile è un rito laico di cui abbiamo bisogno e non vogliamo cittadini qualsiasi sul palco, ma i rappresentanti delle istituzioni, proprio per poter esprimere quella libera dialettica di consenso e dissenso che esprime la vitalità stessa della democrazia, la visibilità concreta di quel patto scritto nella Costituzione che promuove la responsabilità della propria differenza nel rispetto di pari possibilità per tutti.

I rappresentanti delle Istituzioni però, su quel palco, devono essere credibili se non vogliono essere contestati, devono essere onesti e non nascondersi dietro la vuota retorica.

La verità dei fatti è dura, ma non è di parte e la falsificazione della storia a cui assistiamo quotidianamente è pericolosa per tutti.

Gli errori/orrori e le nefandezze del fascismo e del nazismo sono state pagate da tutti, ma della salvezza dell’Italia e delle vite tutti devono ringraziare quella parte che ha saputo fare resistenza a cominciare da coloro che hanno saputo alzare la propria voce lungo tutto il ventennio. Molti bambini e bambine, figli di antifascisti, che hanno condiviso con la famiglia le persecuzioni del regime sono diventati poi i giovani resistenti che hanno restituito la libertà agli italiani.

Anche per questo ho ascoltato con particolare piacere e commozione le parole di Giovanna, la figlia di Maria Massariello Arata, deportata a Ravensbrück, perché sono state le parole più concrete, precise e articolate, insieme a quelle del presidente Scalfaro. Intorno a me molti si sono chiesti chi fosse, perché in questo paese smemorato pochi nomi di antifascisti e deportati hanno “bucato” il silenzio della storia e poco si è fatto anche nella scuola in questi 60 anni, per dare volto e nome alle migliaia e migliaia di donne e uomini che hanno saputo testimoniare la loro fede nella libertà nei tempi bui del fascismo e della guerra. Le memorie di Maria Massariello mi sono state regalate dalla nuora al tempo in cui noi, insegnanti “fannulloni” organizzavamo e frequentavamo, grazie al piccolissimo contributo di un decreto applicativo della legge sulle Pari Opportunità, corsi di storia delle donne. Tempi in cui si parlava di empowerment femminile da costruire attraverso la scuola e la cultura e non come ignava eredità di famiglia o, peggio, pratica di servilismo con il potente di turno.

Per questo ieri ho ascoltato con commozione e mi sono riconosciuta nelle parole della figlia che saldano il presente al passaggio di una memoria consapevole tra generazioni di donne, una memoria che può diventare collettiva solo se sa misurarsi con la singolarità delle storie, che sa interrogarsi sulla storia perché mette in gioco la propria nel rinnovarsi dei pensieri e delle scelte. Ho sentito nelle sue parole quella capacità delle donne di annodare legami, tessere reti, stringere nodi allentati, riannodare fili tagliati che è stata la politica del femminismo diffuso in Italia. Una capacità politica che è stata mortificata e mistificata, ma ancora esiste ed ha passato a molte giovani donne e uomini il desiderio e gli strumenti per costruire relazioni libere e biografie non sottomesse.

Ho bisogno di riti laici in cui rinnoviamo la consapevolezza che solo la tenacia di mille anonime straordinarie vite ci ha regalato la possibilità di camminare liberi nella nostra.

Vado a Milano a festeggiare il 25 aprile per rinnovare memorie personali e sentire che lì posso condividerle con tante e diverse. Ho trascritto in un libro, anni fa, i ricordi di Velia Sacchi, partigiana bergamasca entrata in clandestinità a Milano per far parte della redazione dell’Unità e ogni anno mi sembra di vederla correre il 25 aprile con i suoi compagni. Si tenevano per mano e correvano verso la tipografia che avrebbe potuto stampare la prima copia libera del giornale, nel cuore il dolore per l’assassinio recente del compagno Curiel e la paura per i cecchini che sparavano dalle finestre e la libertà mi sembra preziosa anche nei giorni più grigi per quel loro correre a costo di ogni rischio, a costo della vita, per una libertà di stampa che oggi viene così facilmente svenduta.

Vado a Milano per ricordare mio padre, contadino, partito soldato a diciannove anni, prigioniero in Germania a venti, cresciuto nel fascismo, che ha scelto di non aderire alla Repubblica di Salò insieme a tanti suoi compagni perché ha capito che quella non era la sua repubblica. Sono spesso dimenticati gli internati militari italiani, così come per anni sono state dimenticate le stragi di soldati e di civili; ormai torna di moda parlare di soldati, del soldato che esprime la fedeltà con l’obbedienza, e invece dobbiamo ricordare che proprio nel pieno della tragedia i giovani soldati cresciuti nella fede fascista seppero diventare cittadini, seppero prefigurare quella democrazia che sarebbe nata dopo, e proprio dal loro sacrificio, dalle loro sofferenze, dalla loro morte. Nei campi d’internamento tedeschi, condannati ai lavori forzati, senza lo status di prigionieri di guerra, sono rimasti la stragrande maggioranza dei soldati italiani deportati e molti non sono mai tornati.

Vado a Milano per ricordare mia madre, ragazza di campagna fiera del suo lavoro di operaia perché non voleva fare la serva “col grembiulino e la crestina sui capelli” come diceva lei, lavoro continuato anche durante la guerra, viaggiando al freddo ammassata nelle tradotte militari piuttosto che accettare l’invito di un’amica che viaggiava comoda con i gerarchi. L’amica non era fascista, voleva solo viaggiare al caldo, la giustificava lei, “perché eravamo ignoranti e non capivamo la politica, ma a me sembrava sbagliato, non era il mio posto, ecco tutto”, e così liquidava sobriamente la questione.

Sono i piccoli passi che ti portano da una parte o dall’altra, i piccoli passi che decidono delle grandi scelte come ci ha ricordato Imre Kertész nel suo libro Essere senza destino.

Quel servilismo, dal quale ci ha così bene messi in guardia Scalfaro, è spesso la pratica meschina di chi cerca il privilegio all’ombra dei potenti calpestando i diritti di tutti.

Penso sia stata una fortuna nascere da una donna e un uomo che hanno cercato sempre la strada della libertà, ma nessuno è figlio solo dei propri genitori: con il taglio del cordone ombelicale comincia quel percorso di crescita che dà la possibilità a ognuno di diventare figlio di se stesso, di costruirsi uomo o donna, leggendo opportunità e risorse, difficoltà dolore e inciampi, secondo le proprie inclinazioni e scelte; nessuno può scegliere i propri genitori ma tutti e tutte siamo chiamati a fare i conti con la storia che ci precede e a scegliere quella a cui vogliamo appartenere.

Non porta nessuna pacificazione la proposta di cancellare dure e dolorose differenze tra le generazioni passate, non ci sono scorciatoie per vivere con dignità il presente e la mistificazione della storia corrode la possibilità dell’incontro e del confronto tra le persone.

Non è facile misurarsi col sentimento della filialità e contemporaneamente scegliere la propria autonomia, ma è necessario ricordare che non ci sono eredità innocenti e l’affetto non può mai diventare la misura del legame sociale; l’enfasi sull’appartenenza famigliare è l’esatto contrario di quell’intuizione politica che ha fondato il diritto sull’appartenenza di ognuno e (molto più tardi) ognuna, prima di tutto a se stesso, fondando la possibilità di abitare una comunità di liberi ed uguali.

Anche l’appartenenza politica non può essere solo l’etichetta di una collocazione di parte, ma va testimoniata nelle scelte, misurata nelle pratiche che tolgono ambiguità alle parole, diffidando delle forme semplificate a cui ci sta abituando la sovraesposizione mediatica.

 

È una strada ancora lunga quella che ci aspetta, ma dobbiamo stare attenti a non fare passi indietro.

Per questo vado a Milano il 25 aprile, per condividere le molte storie che formano la memoria di ognuno e la speranza di tutti.

Vado a Milano il 25 aprile perché ho bisogno di un rito laico in cui perdermi felicemente nella folla e sentirmi a casa mia.

 

Rosangela Pesenti


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