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Giuseppina Rando. Eminenza 
Ipazia, martire del pensiero
31 Luglio 2015
 

Chi ama la verità e considera sacra la libertà non può non essere affascinato da Ipazia, astronoma e filosofa che visse tra il IV e V secolo ad Alessandria d’Egitto.

Il dramma di questa bellissima giovane, uccisa dal fanatismo dei primi cristiani, da sempre un’icona della resistenza ad ogni integralismo, resterà in ogni tempo «simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza».

È considerata capofila di tanti altri martiri del libero pensiero, tormentati o giustiziati come Giordano Bruno, (che semplicemente scriveva: “Esistono innumerevoli soli; innumerevoli terre ruotano attorno a questi, similmente come i sette pianeti ruotano attorno al nostro Sole…") come Galileo, impegnato, per tanto tempo della sua vita, a tentare di conciliare il dissidio tra la Sacra Scrittura e la scienza moderna, e, perseguitato dal Santo Uffizio, sotto minaccia di scomunica, costretto a sconfessare la teoria copernicana, generatrice di eresia.

Giustamente, però, la filosofa Luisa Muraro fa notare che non bisogna considerare Ipazia antesignana di Galileo, anche se fu una scienziata di prima grandezza e come Galileo, si dedico' all'astronomia con avanzate tecniche di osservazione.

Il famoso processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell'idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l'epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da un insieme di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.1

Galileo, in breve, è il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia, invece, è l'esponente di una tradizione secolare millenaria e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il Cristianesimo, che fu anche una rivoluzione sociale.

Più che un’antenata di Galileo o una martire della scienza, Ipazia ha giocato il suo ruolo di essere donna in un particolare contesto storico e la sua vicenda di studiosa va letta in un contesto politico-religioso che vede il passaggio dall’antichità al Medioevo.

 

Visse in quella provincia d’Egitto, fertile di grano e di intelletti, ove fiorivano la matematica, la musica, la poesia e la filosofia e da tutti era considerata una mente così luminosa che «da ogni parte del mondo greco e romano gli amanti del sapere venivano ad ascoltare le sue lezioni accademiche, in cui si perpetuava la tradizione dell’antica scuola platonica».2

Il suo nome nella lingua greca significava “eminenza”, “acutezza, “suprema altezza”. Glielo aveva dato suo padre che progettava per lei una carriera di studiosa. Nessuno però poteva immaginare che il destino o il caso, che è il re del mondo, avrebbero fatto di Ipazia una martire del pensiero.3

All’epoca, in Alessandria d’Egitto, si respirava una sotterranea lotta per il potere combattuta più o meno palesemente tra l’antica elite pagana, vicina al governo imperiale, i dirigenti cristiani (il vescovo Cirillo) e la ricca comunità degli ebrei. Anche il ruolo del vescovo e del filosofo venivano confusi se non sovrapposti.

In tanto caos e fuoco di sentimenti si consumò uno dei più atroci delitti dell’umanità.

Era il mese di marzo del 415 dopo Cristo quando, ad Alessandria d’Egitto, Ipazia fu aggredita mentre tornava a casa. I cristiani la trascinarono fuori della sua carrozza e la condussero in una chiesa dove fu denudata e fatta a pezzi a colpi di cocci aguzzi. I resti furono bruciati.

Cirillo, vescovo di Alessandria e tutore delle bande di monaci autrici del massacro, alluse all’evento in un discorso: “È stata fatta tacere l’Egizia”.

Ma chi era in realtà l’Egizia per essere così barbaramente uccisa?

Era principalmente una donna colta che insegnava pubblicamente, all’interno della più importante istituzione culturale del tempo, il Museo di Alessandria, mettendo in ombra molte intelligenze dell’altro sesso.

Infatti, a differenza di Giordano Bruno o di Galileo Galilei, Ipazia non subì alcun processo perché, in quanto donna, non solo non era considerata una cittadina e (in un’epoca in cui la donna era stimata meno di un oggetto) aveva commesso un crimine inconcepibile: era entrata nel tempio della cultura.

Si rivelava, inoltre, rappresentante di una corrente di pensiero, il Neoplatonismo, i cui presupposti, allora, erano ritenuti inconciliabili con il Cristianesimo.

L’attività culturale di Ipazia tormentava i cosiddetti custodi del “sapere” i quali ben sapevano essere stata lei a salvare le edizioni delle opere di Euclide, Archimede e Diofanto; opere che poi presero la via dell’Oriente, e tornarono in Occidente, in traduzione araba, dopo un millennio di oblio.

Racconta lo storico Filostorgio che, istruita dal padre nella matematica, “ella divenne molto migliore del maestro, particolarmente nell’astronomia”.

Secondo il filosofo Damascio, “non si accontentò del sapere che viene dalle scienze matematiche alle quali lui l'aveva introdotta, ma con altezza d'animo si dedicò anche alle altre scienze filosofiche”.

Ipazia viene ricordata come inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, strumento che serviva a misurare il diverso peso specifico dei liquidi.4

 

Luisa Muraro in un suo articolo5 sostiene, appunto, che l’astronoma, la scienziata fu eliminata -da un lato- perché infastidiva, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, il vescovo e il prefetto, e -dall'altro- perché per «la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non era pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di sé, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini».

Differente l’analisi di Silvia Ronchey, bizantinista dell’Università di Siena.

Bella della sua “altera avvenenza”, Ipazia incarnava, scrive la Ronchey, «la superiorità di casta, l’ascetica compostezza e la dote di aristocratico riserbo che unita al naturale senso del dovere sociale e dell’impegno politico contraddistingueva le classi alte nell’antichità».

Tu hai sempre avuto potere, – scrisse ad Ipazia il vescovo Sinesio, suo allievo.

A quale potere si riferiva? Ipazia traduceva il neoplatonismo in matematica ed astronomia. Ma le sue formule non si limitavano a rendere il cosmo intelligibile; secondo l’uso esoterico, esse iniziavano ai misteri dell’antica élite pagana la nuova classe dirigente cristiana. Bastava questo perché il vescovo Cirillo, futuro santo e dottore della Chiesa, volesse la morte di Ipazia?

Schiacciate le pratiche pagane, distrutto il Museo, uccisi o banditi gli ebrei, sarebbe stato normale per il tempo che Cirillo tollerasse residui di filosofia pagana inoffensivi per il suo potere. Dell’uccisione di Ipazia, insomma, non vi era necessità. E allora perché?

Secondo la studiosa Ronchey «è stato un atto di insofferenza, oltre che di intolleranza»;6 Cirillo cedette a un madornale e irrazionale accesso di frustrazione, a quel sentimento che gli antichi chiamavano Ftonos, …invidia per il carisma e il prestigio della pagana.

In verità, lungo il corso dei secoli, la terribile vicenda di Ipazia è stata più volte ripresa e rielaborata dalla letteratura e dall’arte, come accade ai temi classici che rinascono continuamente dalla penna e dall’ingegno degli artisti più diversi.

Al fascino di Ipazia non si è sottratto il grande Raffaello Sanzio che l’ha ritratta nel celebre dipinto La Scuola di Atene, unico personaggio, con il volto rivolto verso gli spettatori così come non s’è sottratto il poeta Mario Luzi che, certamente, osservando il famoso dipinto, è stato colpito dall’espressione del volto di Ipazia, (apertura verso l’altro) e ha voluto costruire per lei uno spazio scenico con la sua prima opera teatrale, Libro di Ipazia.

Nello sguardo della filosofa il poeta Luzi ha colto un bisogno di comunicare con l’altro, un desiderio di rivolgersi all’umanità tutta – per inviarle un messaggio:

...Il pensiero senza parola è niente/ la verità non comunicata s’inaridisce e si corrompe…studio e passione della conoscenza/ nutrirono per anni in silenzio la nostra vita./ Quando abbiamo deciso di uscire all’aperto/ a diffonderne il frutto, a portare lumi a questa città bastarda/ non pensavamo ad una fuga ma a una battaglia… ma è nel fuoco che bisogna ardere./ Niente si addice alla parola più che la temperatura del fuoco...

Ma dopo? Che sappiamo del poi?/ Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani/ Il vento di tempesta di fanatismo e di barbarie/ si accanisce sul vecchio mondo, sferza i rami,/svella le radici,sommuove i fondamenti di tutto./ Con il marciume porta via e disperde anche il sano./ Ma dopo? Che sappiamo del poi?

Gettiamo questo seme nella bufera/ in questa taverna turbolenta che è Alessandria/ giochiamo questa partita a dadi con la storia del mondo!7

Alfredo Luzi, accademico presso l’università di Macerata, giustamente osserva: «(...) nel Libro di Ipazia, il poeta Luzi fa una riflessione sulla filosofia della storia, nella sua doppia valenza di accumulo di passato e mutamento per il futuro».8

Poi, con un’analisi acuta e profonda, il prof. Luzi restituisce al personaggio Ipazia – fuori da ogni diatriba – quel ruolo che la Storia, nei suoi imperscrutabili fini, le ha assegnato:

«Se l’immagine della partita a dadi rinvia a suggestioni di tipo mallarmeano, il ruolo di Ipazia è invece strutturato secondo una concezione della storia che ha non poche affinità con il pensiero manzoniano. In comune con il Manzoni, seguace di Tierry e degli altri storici francesi del primo Ottocento, Luzi condivide l’idea che la macina spietata dei secoli9 continui a ruotare tramite l’alternarsi di vincitori e vinti, di oppressori ed oppressi, nell’inesausto conflitto di popoli per l’accesso al potere, la cui violenza e le cui ingiustizie vengono riscattate da soggetti sacrificali.

Ipazia, icona della filosofia neoplatonica in Alessandria, convinta assertrice del logos e della tolleranza, portatrice di una voce profetica (Parlava di Dio presente)10 viene uccisa dal fanatismo dei rappresentanti del nuovo mondo, i cristiani. Ma collocata anche lei dalla provvida sventura infra gli oppressi apre con la sua morte la strada ad una nuova era, ad una futura liberazione dell’uomo. Recuperando la lezione di Teilhard de Chardin il poeta Luzi fa di Ipazia un segno di contraddizione in cui si concretizza il progetto divino. Rappresentante della cultura ellenistica, ma nella sua tensione di attesa di un mondo nuovo, già in possesso dei fondamenti della creatura cristiana, cercatrice di verità attraverso il logos, ma pronta ad accettare la voce profetica che le parla, Ipazia è un esempio di una soggettività che ha dato spazio alla alterità, di un destino di morte che si fa nuova vita.11

 

Giuseppina Rando

 

 

1 A. Petta – A. Colavito, Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo, Prefazione di Margherita Hack, La Lepre edizioni, 2010, pag. 9.

2 Silvia Ronchey, Ipazia. La vera storia, Rizzoli, 2011, pag. 18.

3 A. Petta – A. Colavito, pag. 15.

4 Cf. Documentazione ragionata, pp. 195-292. in Silvia Ronchey, Op. Cit.

5 Luisa Muraro, “Ipazia, 16 secoli di bugie”, in Giudizio Universale, 11/12/2009.

6 Silvia Ronchey, Op. Cit.: p. 175.

7 Mario Luzi, Libro di Ipazia, Rizzoli, Milano, 1978, pp. 73-77.

8 Alfredo Luzi, “Parola e fede nel Libro di Ipazia”, in Italian Poetry Review. Plurilingual Journal of creatività and criticism, Società Editrice Fiorentina, Volume III, 2008, p. 402.

9 Mario Luzi, Op. Cit., p. 78.

10 Ivi.

11 Alfredo Luzi, Op. Cit., p. 403.

 

 

(“Eminenza” è tratto da: Giuseppina Rando, Le belle parole, Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero 2013)


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