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In libreria/ Alberto Figliolia. “La strada e il canneto” di Vittorio Mantovani
07 Agosto 2012
 

Una voce poetica fra le maggiori del nostro tempo. Una proposizione reboante, un facile spreco di parole? Prego, prima di giudicare iperbolico l'enunciato andate a leggere il nucleo di questo volume, la sezione contrassegnata dal titolo La strada e il canneto.

È, quella di Vittorio Mantovani, una poesia che vive (e non sopravvive) anche in condizioni esistenziali estreme, quando l'essere ai limiti è una condizione della quotidianità, una irreparabile e non voluta abitudine. Per il vero, il libro si apre con un pacchetto di composizioni, Bolle finanziarie e associate, in cui il poeta si diverte: con l'arma dell'ironia stigmatizza e sbeffeggia il mondo virtuale dell'economia e della finanza, tanto lontano dalle nostre intime vite e dai sogni e bisogni dell'essere umano; quel mondo, che però sulle nostre vite incide vano e spietato, dove spread e bond parrebbero nell'immaginario assurgere a quasi metafisiche vette. Una virtualità bara e cinica, con cui oggi più che mai siamo costretti a fare i conti (meglio sarebbe una resa dei conti).

Un capitolo “lirico” senza dubbio spassoso, nella sua punta d'amaro, nel quale risalta l'abilità dell'autore nel maneggio delle parole, mai fini a sé stesse tuttavia, non ridondante mera dimostrazione di superbe capacità tecniche. Sono parole lievi e pesanti, moti, che denunciano e che nel contempo fanno da anticamera al cuore del libro, quel nucleo di malinconia e ricordi, di rabbia e inesplicabile, di meditazione e dolorosa sincerità, in cui non è lecita alcuna pietosa bugia alla mente e il cuore è sempre aperto, irrimediabilmente e coscientemente.

«Il tram passava sotto luminarie spente,/ io immaginavo luci da raccontare/ e intorno ognuno intuiva il proprio freddo./ Il mio aveva il colore delle labbra dei chierichetti/ che servivano la prima messa,/ aveva il passo di un funerale/ che arrancava sulla salita del Sacro Cuore,/ aveva la forma dei ricami ghiacciati/ sul vetro della finestra in camera./ In quel freddo ho custodito per anni/ figure di vascelli disegnati a matita,/ libretti di manutenzione unti d'olio/ e uno stridio di cingoli sulla ghiaia del Sesia./ A volte loro mi chiedevano di ricordare/ ed io introverso pedagogo di frontiera/ seguivo il filo dell'accetta sul ceppo/ spaccando legna secca di robinia». Fatevi rotolare nella mente quest'immagine: “introverso pedagogo di frontiera”.

Un lessico ricco, una poesia colta e pur alimentata dalle cose semplici, elementari, che compongono il quadro, tanto complesso e arduo, delle nostre vite. Già, che cosa sono mai i nostri giorni nell'assalto dei rimpianti e dei rimorsi, delle opportunità mancate, delle rielaborazioni postume, degli affetti vivi o di quelli avariati? Le figure ataviche o, meglio, archetipiche di padre e madre e finanche dei figli, il presente negato e la forza dei desideri, l'amore e l'abbandono, la caduta e, ancora una volta, la palingenesi. Nessuna finestra ha sbarre tanto robuste da trattenere il volo delle idee e dei sentimenti, la speranza che anela.

Madre: «Ho sentito il tuo pianto/ quel grido di rabbia/ che si perse nella nebbia/ di un mattino di novembre. [...] Ma ora il tuo pianto/ si riflette nei miei occhi/ e mi manca l'umiltà/ con la quale hai accettato,/ mi manca il coraggio/ col quale hai ricominciato».

Padre: «Mio padre seduto fuma Alfa,/ immobile, assente ai discorsi,/ avvolto nel largo paltò./ Distratto riempie il bicchiere,/ gli occhi fissano un piede,/ sul tavolo un piccolo meccano./ Davvero non ti ho mai conosciuto/ Ma mi sono bastati i racconti/ e talvolta ritorno ad accucciarmi/ sul freddo dei gradini di sopra/ e rivivo l'attesa delle tue mani mai vuote./ Maledetto quel giorno di novembre,/ mi è morta la voglia di crescere,/ di intendere il significato di padre./ Ora sono solo foto sbiadite/ ma qualcuno ha mentito,/ ha giocato con la tua tragica fine./ Qualcuno incrociando il mio passo/ ha sempre abbassato lo sguardo». Accenti pascoliani in tono nuovo per una storia sempiterna, una sorta di ciclico cilicio, cosmico dramma. Versi da brivido. Come quelli che si rivolgono alla figlia: «Per quanto cammini/ sui sentieri del mio fallimento/ non ritrovo i termini di confine/ Custodisco rare immagini/ polverose come una lontananza amara/ un vestito azzurro fra i girasoli/ e un altro, bianco, in un campo di papaveri./ Questo è il tuo fragile padre/ instabile come il ramo del salice/ incapace di trovare la sua isola/ di misurare l'esistenza/ senza guardare oltre l'invisibile./ Ti posso solo scrivere di sogni,/ di parole che scorrono sotto la pelle/ e si mischiano al sangue,/ parole che non ti ho mai detto».

Dirompente, al di là dei toni nostalgici o di sommessa tristezza, è l'ingresso del Mantovani nelle stanze della poesia italiana. Il fatto è che lui ne sfonda le pareti. Il fatto è che la sua voce è la nostra voce, in un processo d'immedesimazione interiore come rare volte è dato di constatare. Un talento che era sepolto, un tesoro che viene alla luce in seguito a situazioni disparate, fors'anche disperate. Una capacità senza pari nel frugare e ritrovare negli scrigni dell'anima, nel ripescare dal profondo del più torbido o ignoto mare: ricordi, paure, dubbi, tormenti. Aspettative deluse, voglia di non arrendersi, neppure alle più dure circostanze.

La vita di un uomo si ciba di errori. Anche la poesia è un errore. Un magnifico errore, contro l'orrore. Anime cosmetiche. «Ed io creditore di vita e d'amore/ contavo i corvi sui pluviali penzolanti/ per indovinare una scorciatoia/ che portasse oltre l'orfana esistenza».

La dannazione e il riscatto attraverso formule apotropaiche, l'identità negata, la preghiera di Proteggimi: «Trascino i frammenti di una stritolata coscienza/ strascicando pietre angolari di un sacrario diroccato./ Eccomi vestito solo di vita autentica/ un libro settanta volte letto/ prigioniero di un'anima pura./ Non voglio un cuore nuovo/ dammi mille cuori pulsanti/ dammi mille occhi che fissano il sole/ per scrutare la profondità delle tenebre./ Dammi mille orecchie/ che intendano il linguaggio della risacca/ per distinguere le tonalità del silenzio./ Dammi mille braccia e gambe per scappare/ mani per stringere nerbi disseccati,/ per palpare corpi caldi,/ per strappare cadaveri dalla melma./ Dammi ancora mille volti/ che nessuno conosca quale sia il mio». Qual è il nostro volto, oltre la maschera? Dopo La cura di Franco Battiato bisognerà ora confrontarsi con questo testo.

Ma non si esaurisce in questo registro, da gigante, l'arte di Vittorio Mantovani. Non possiamo dimenticare di citare gli haiku inseriti in corpore libri («La bicicletta/ Sognavo di viaggiare/ Raggi spezzati» o «Sono confuso/ Tra sacro e profano/ Testa o croce»), i pastiches (Oroscopo), le inserzioni del dialetto, le sperimentazioni ben rappresentate dai deliziosi, anche nella licenziosità e nel dissacrante manifesto che sono, tautogrammi (dalla A alla Z), le poesie storiche (autentici gioielli e vividissimi affreschi – quasi dei quadri, ricchi di introspezione, l'attesa spasmodica, il fumo della battaglia prima e dopo – sono Notte prima della battaglia (Magenta 4/6/1859) e Palestro 31/5/1859 e la sezione che sigilla la silloge nella quale compaiono svariate poesie dedicate alle due ruote (Marco Pantani, Fabio Casartelli, Roubaix, Fausto Coppi, l'ascesa al Mont Ventoux, l'ipnotico velodromo, Francesco Moser in forma di prezioso acrostico, il viaggio a pedali con il fratello verso Santiago de Compostela et alia), di cui Vittorio è un inguaribile appassionato. Il ciclismo, del resto, è una perfetta metafora della vita: fatica e piacere; sofferenza e sudore; salite e discese; il traguardo ambito, lontano, impedito, da tagliare; la solitudine e il gioco di squadra; vittoria e sconfitta; rivalità, odio, sorriso e condivisione. Un argomento, quello dello sport, meno leggero di quel che possa sembrare, come ben appalesato dai versi del nostro autore.

Inestimabile poi l'attenzione ai particolari e ai dettagli di ogni narrazione poetica, che si tratti dei paesaggi interni e delle geografie dell'anima o di esterni quali strade di città, campagne, lanche, cieli, animali od oggetti.

Straziante la poesia dedicata a Francisco, suicida in un carcere; indimenticabile la strofa di chiusa: «Spira un'aria dalla fessura/ un gelido soffio di morte/ affila la lama di una luna di ghiaccio/ la corda tesa pareggia i destini,/ apri, guarda il mio corpo appeso».

Consentitemi di abusare della vostra pazienza di lettori, prima che v'immergiate nella magia di queste poesie, citando altri versi sparsi:

«Io masticavo bocconi amari/ che non ho mai vomitato,/ poi uscivo a guardare il sole/ che si adagiava sull'orizzonte,/ come un acquarello rosa dietro le foglie del sambuco». Una pennellata indelebile, colma di significati.

«La polvere estiva inghiottiva le grida/ risucchiava fantastici viaggi/ e un sapore di mare/ usciva da un mangiadischi arancione». Come in una strofa raccontare la vita e le sue promesse.

«C'è certezza nello stare da soli/ c'è speranza nel nulla/ nel fermarsi a oziare seduti/ nel guardare quell'uomo calvo/ sul battello di lamiera/ che raccoglie i sassi bianchi». Oltre ogni ottusa ambizione e convulsione. O, per contrasto, del senso del nostro transeunte cammino, cosparso di detriti e schegge. Ma anche d'amore: «Riso di donna/ Luce di una mimosa/ Scoppio di sole».

Ultimo ma non meno importante per definire la felice ed empatica irruzione dell'universo di Mantovani nella nostra attenzione e consapevolezza quel che la poesia è (per lui, ma non solo): «Sono le folate di un vento che fugge/ sotto le ali dell'albatro/ e che riporta l'odore del mare/ alla mia unica finestra./ Sono il fischio della marmotta/ che rimbalza fra i corni di dolomie,/ lo odi nella nebbia, ma non vedi./ Le mie parole trovano nutrimento/ nei resti di banchetti nuziali/ dove non sono stato accolto./ Sono la sfacciata eredità/ che incido sul marmo della mia tomba,/ sono le gocce di sudore/ che cadono sugli occhiali./ Sono la voce di lunghi silenzi».

 

Alberto Figliolia

 

 

Vittorio Mantovani, La strada e il canneto

La Vita Felice, 2012, pagg. 136, € 12,00


 
 
 
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