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Monica Lanfranco. Sassi nell’acqua 
Appunti da una docenza universitaria su giovani, saperi e mondi lontani
06 Maggio 2008
 


«Non esiste una nazione libera          

quando la sua esistenza come Stato 

riposa sulla schiavitù di altri popoli».

Rosa Luxemburg

 

Parma, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di ‘Teoria e tecnica dei nuovi media’, circa 80 ore di lezione, valutato in 10 crediti (un complesso sistema che sa molto di partita doppia e che ancora non capisco, ma mi dicono essere importante, che rende questo esame rilevante al fine del curriculum studentesco perché i crediti sono tanti).

Viaggi e alloggio a mio carico (vado e vengo da Genova, per fortuna una coppia di amici mi offre un letto); non pagati anche i viaggi per l’effettuazione di 4 sessioni di esame, 2 previsti tra giugno e luglio, e 2 in settembre.

La retribuzione per tutto questo è di 2.000 euro lordi: se prendo solo treni regionali (e se non faccio più di un viaggio a/r a settimana, con lezioni di almeno 4 ore al giorno) riesco, a fine corso, a guadagnare circa 1.300 euro netti.

Fornisco la cifra perché è interessante capire come, (e quanto), nel sistema Italia sia valutato, in termini economici, il lavoro di una persona con titoli, curriculum e pubblicazioni riconosciute per accreditarla a tenere un corso nel tempio del sapere nazionale: l’Università, appunto.

Consapevole che non si vive di solo pane, (nonostante quest’ultimo sia sempre più caro, e infatti quando posso le faccio a casa), parto per questa avventura carica dell’emozione della neofita: da decenni mi sono familiari sia le scuole che le università, così come le aule della formazione, ma è pur sempre la prima volta che potrò tenere un corso tutto mio.

Va detto che, a parte un fugace contatto con due gentilissime segretarie della presidenza e uno con il professore che coordina i corsi non ho avuto nessuna disposizione sui contenuti. Così la sensazione è che potrei entrare in aula declamando Scum di Valerie Solanas, o inneggiare alla Jihad islamica visto che nessuno mi ha chiesto nulla sul programma.

Prima constatazione: troppa (apparente) libertà, che somiglia pericolosamente al vuoto, è peggio del controllo, e persino della censura. Mi sento lasciata sola, abbandonata a me stessa e al mio presunto sapere, non condiviso né avversato, come se non importasse nulla di quello che ho in mente di fare.

 

Al primo incontro si presentano in circa 35, quasi tutte ragazze, età tra i 21 e i 24 anni. I ragazzi saranno sempre non oltre cinque.

La classe resta interdetta al mio approccio informale (non sono una docente classica, e mi accorgo che la impostazione giornalistica non è consueta qui, a partire dal fatto che non sto in cattedra, ma tra di loro, e che cammino, e gesticolo). Alcuni sguardi sono lievemente divertiti, altri decisamente non approvano; in tre si alzano e se ne vanno, ma l’emorragia si ferma lì.

Cerco di coinvolgere la classe in uno scambio, spezzando quella che mi pare una tacita richiesta di monologo unilaterale da parte mia tentando di domandare aspettative e bisogni rispetto all’argomento del corso, ma a parlare sono pochissime. La sensazione è che siano lì pronte a prendere appunti e basta, e che questa sia l’unica modalità alla quale sono abituate da anni nell’approccio al sapere.

Incredibile: in tv vedi orde di giovani che urlano e si insultano, piangono e ridono nei reality e nelle cosiddette trasmissioni di intrattenimento. Qui, nella banale e noiosa vita reale, l’assenza di telecamere genera silenzio e afasia.

Per farmi coraggio mi dico che questo silenzio è fisiologico perché è la prima volta che ci vediamo, e mi pare una buona idea quella di provare ad attribuire per la prossima lezione un piccolo compito: oltre a leggere una pagina che ho tratto dall’Internazionale (il racconto di un romanzo d’amore interamente elaborato da un computer, l’idea di una casa editrice russa che ha fatto scalpore) chiedo loro di stilare il diario personale di una giornata-tipo in relazione alle nuove tecnologie che usano. In questo modo spero che non solo riescano a interloquire meglio con me, ma anche che comincino a sgelarsi tra loro, visto che si nota con chiarezza che, a parte due o tre gruppi già formati da due/tre amiche, in generale la classe non è per nulla incuriosita a fare conoscenza.

Mi viene anche in mente di chiedere quante persone abbiamo visto Cloverfield, una sorta di sequel del Blair witch project, il falso film con il quale due giovani filmakers americani fecero uso per la prima volta di Internet, una decina di anni fa, per lanciare un prodotto video, e mi aspetto una selva di mani alzate.

Sorpresa: non ne sanno nulla. Eppure, come verrà fuori dalla condivisione del compito a casa (“il mio full day con i nuovi media”) stanno di continuo attaccate alla rete, e Cloverfield è stato nei mesi scorsi un successo planetario nella rete e al cinema, almeno oltre oceano, e molto se n’è parlato anche in Italia. È la prima stonatura in una partitura musicale che presenterà varie distorsioni.

 

Al secondo incontro il tempo atmosferico offre una tregua, e nella mezz’ora senza pioggia decido di passare alle maniere forti.

Dedico mentalmente il mio gesto dissacrante a Domenico Starnone, vero eroe della scuola italiana, che come pochi è riuscito a raccontare il quotidiano personale/politico di un docente nella scuola di appena vent’anni fa, un tempo che sembra irraggiungibile e lontanissimo.

Nel bellissimo cortile dell’università scendo insieme alla classe (che nel frattempo è lievitata di numero, forse lo stile informale è passato di bocca in bocca, e ho suscitato curiosità) e propongo loro un ‘gioco’ nel quale fare conoscenza passeggiando ad occhi chiusi, evitando il senso ‘imperiale’ della vista, così dominante nell’era tecnologica.

Il tentativo è quello di ragionare sulle nuove tecnologie non dando per scontato che l’umano sia sempre capace di usare gli strumenti senza farsi oggetto: una strada per tenere vivo lo spirito e il pensiero critico mi pare, sempre , quella di partire dal corpo. E così faccio, anche con questo semplice gioco.

Tranne alcune ragazze, che evidentemente hanno fatto esperienze di training (o più semplicemente sono state scout) l’imbarazzo regna sovrano; al ritorno in aula la restituzione delle emozioni è molto faticosa, come se non avessero niente da dire, come se non ci fosse niente da dire.

Niente da dire avranno dopo la visione di un video sull’esperienza del centro interculturale Trama di terre, che tra l’alto si trova sul loro territorio regionale, a Imola, e non in un altro continente; niente o pochissimo da dire su Sei gradi, il video prodotto dal National Geografic in occasione della giornata mondiale della terra (su cinquanta in classe solo in quattro sapevano dell’esistenza dell’Earth Day, alla quale tra ben quattro canali tv, tra cui Mtv, molto diffusa tra le giovani generazioni, hanno dedicato almeno otto ore di programmazione); niente assoluto da dire dopo la visione di Mio Fratello Mini Vip, di Bruno Bozzetto (sconosciuto totalmente), un geniale cartone animato allegramente profetico sui guasti della società dei consumi.

Quando, per legare storicamente uno dei temi del film provo a ricordare alcuni nomi che hanno delineato e riflettuto sulla società di massa e sulla società del consumo, e cito Pasolini, Eco, Vandala Shiva, Popper non si alza alcuna mano, nessuno sguardo di ricognizione. Sono nomi sconosciuti.

Qualcosa si muove, ma dolorosamente poco, quando propongo la visione del film collettivo Un altro mondo è possibile realizzato da oltre venti registi italiani sul Public Forum organizzato dal Genoa Social forum dal 16 al 19 luglio 2001.

Su questa proiezione, e i suoi effetti, vale la pena di soffermarsi.

 

Anche se sembra ormai uno stanco ritornello mi tocca ribadire lo stesso concetto: nella classe nessuna delle persone presenti conosceva i registi (nemmeno Salvatores, né Tognazzi, né Archibugi), nessuna aveva mai sentito nominare alcuna delle personalità che comparivano nel filmato (tra queste due premi Nobel).

La miccia che accende un po’ la prima vera discussione è il commento di una ragazza, una tra le presenze più vivaci nella classe, che afferma: «Non capisco come si possa cambiare il mondo con dei cortei, o delle canzoni. Questi manifestanti mi sembrano usciti dal secolo scorso, l’aria è quella della festa di paese».

A quel commento, finalmente, partono le reazioni: una voce obietta che definire ‘festa di paese’ un evento come le giornate di Genova è offensivo per i contenuti che sono circolati, un’altra dice che le persone intervenute allora, a parte i blackbloc e la polizia violenta, erano lì per cambiare pacificamente il mondo.

Ma è una parola, già emersa nella debolissima discussione dopo Sei gradi a farla da padrona: ormai.

Un semplice avverbio arriva, micidiale, a definire e delimitare con chiarezza l’orizzonte: nel caso dell’allarme ambientale, così come nell’aspirazione all’allargamento dei diritti e allo sdegno per le ingiustizie c’è una sola posizione condivisa. Ormai le cose stanno così, poco si può fare, tanto nulla può cambiare.

Solo una ragazza, timidamente, esce fuori dal coro: «Ma se chi ci ha preceduto avesse pensato così non sarebbe cambiato mai niente», dice.

Già, ma lei è una su cinquanta.

Un’altra cerca inconsapevolmente di spostare le responsabilità di questa disfatta della (loro) volontà sostenendo che lei queste cose non le ha viste né sentite da nessuna parte.

A quel punto mi tocca intervenire dicendo che se è vero che l’omologazione è fortissima dall’altra parte le persone giovani, nessuno escluso, sono responsabili, avendo gli strumenti, di cercare e guardare oltre.

Ma mi rammento che, poche lezioni prima, una di loro aveva bollato come ‘moralista’ un articolo dell’Internazionale contro l’invadenza della pubblicità sul social network Facebook.

«Non capisco perché si debba essere infastiditi dalla pubblicità», sosteneva. «A me la pubblicità serve perché mi informa».

Quando chiedo loro la differenza tra ‘informazione’ e ‘pubblicità’ stentano a trovarla e, quel che è peggio, non ne afferrano l’importanza cruciale.

Nelle prossime settimane ho deciso che porto la classe prima a visitare Arcoiris Tv e poi a parlare con il team di donne progettiste della rete di Techné donne, due esperienze da anni presenti sul territorio emiliano, parliamo di Modena e di Bologna, delle quali (è il caso di dirlo?) non sanno nulla.

Il mio viaggio nel deserto della conoscenza, e quel che è peggio nel deserto della curiosità da parte di chi oggi ha vent’anni, continua.

 

Monica Lanfranco


 
 
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