L’Iraq rappresenta una delle ferite più grandi per il Medio Oriente. Da oltre trent’anni in guerra, è un Paese dove i giovani non sanno cosa voglia dire la pace. Le informazioni che arrivano parlano di un’imminente sconfitta dell’Isis e sembra che il peggio sia passato. Ma è davvero così? L’ho chiesto al collega Amedeo Ricucci, pluripremiato inviato Rai, tra i maggiori esperti di Medio Oriente e terrorismo, al suo rientro dalle porte di Mosul, dove tornerà nei prossimi giorni per continuare a documentare.
– Quale situazione hai lasciato a Mosul?
Una cosa è l’eco mediatica di quello che sta succedendo, un’altra è la realtà sul terreno. Dire che gli irakeni sono entrati a Mosul sembra una notizia molto bella, la fine dell’Isis e dei suoi orrori, ma purtroppo non è così. Entrare a Mosul, città conquistata e tenuta dall’Isis, vuol dire che si procede di un metro ogni tre ore, perché comunque c’è da sminare il terreno e ci sono le trappole esplosive. La battaglia vera per Mosul, quindi, è solo iniziata e stando almeno ai precedenti che abbiamo, Kobane in Siria, Sirte in Libia, ma anche Ramadi e Falluja in Iraq, non è una questione che si risolverà in breve tempo. È ovvio che i comandi militari irakeni e quelli curdi facciano proclami di vittoria, ma non è così semplice la questione.
– Si può parlare di sconfitta dell’Isis?
Che la sconfitta dell’Isis sia prossima è ovvio, lo era già prima che iniziasse l’avanzata, nel senso che l’Isis non ha mai mantenuto forze soverchianti a Mosul, né nelle altre città che ha occupato. Il sedicente califfato ha sempre peccato sul piano militare di non avere una potenza di fuoco comparabile agli eserciti con cui si confrontava. Mosul l’ha conquistata grazie all’effetto sorpresa, perché l’esercito irakeno, davanti all’avanzata di combattenti agguerriti e addestrati, è scappato. L’Isis si è così impossessata delle loro armi pesanti e ha conquistato Mosul. Ci sono voluti due anni per ricostituire un esercito iracheno abbastanza affidabile, la cui manovalanza è stata costituita soprattutto dai peshmerga curdi che hanno un’esperienza trentennale di guerriglia sul campo. Sono stati loro a conquistare chilometro su chilometro.
In due settimane di offensive l’Isis ha lanciato ben ottanta attacchi kamikaze, molti dei quali hanno provocato vittime. Le cifre dei morti e feriti tra le fila dell’esercito irakeno e i peshmerga non è dato saperle, le tengono segrete. A noi giornalisti non è stato dato accesso neppure ai funerali. Secondo la propaganda dell’Isis si parlava di 250 morti solo nella prima settimana. Le ultime notizie riferiscono comunque di un’aspra resistenza nella cintura periferica di Mosul. Hassan Hassan, che è il giornalista che forse conosce meglio la realtà dell’Isis diceva che anche sulla base di testimonianze di combattenti che fuggivano, il sedicente califfato ha già dato per persa la città, e non considera questa perdita una cosa grave. L’Isis sta smettendo di essere un presunto Stato islamico e torna a essere un movimento di guerriglia che va a rifugiarsi nel deserto. Stanno puntando a trasferirsi in Siria, intorno a Raqqa probabilmente. Questo non vuol dire che il pericolo cessi.
– Mosul senza Isis sarà una città finalmente libera?
Il vero problema non è solo strappare Mosul all’Isis, ma cosa fare poi di questa città, perché comunque la situazione è complessa. Mosul è sempre stata contesa tra arabi e curdi; inoltre c’è la pressione della minoranza turcomanna che è attiva e presente nella città ed è difesa dall’esercito turco. Per questo bisognerà capire come le varie forze si metteranno d’accordo per avanzare e stabilire la pace. Il problema, e lo dimostra la storia dell’Iraq, non è tanto strappare le città ai miliziani di al Baghdady, ma piuttosto come governarle dopo. Bisogna evitare che il fondamentalismo riappaia sotto nuove vesti. È stato così tra il 2006 e il 2007, quando al Qaeda è stata sì sconfitta dagli americani, ma è rimasta perché le tribù sunnite sono state penalizzate dal governo centrale di Baghdad, favorendo così il rafforzamento del fondamentalismo. La stessa cosa rischia di accadere a Mosul.
– In questo, momento quali sono le forze in campo?
Il quadro è articolato e complesso. Ci sono i peshmerga curdi che hanno effettivamente svolto il loro lavoro, facendo l’avanzata più veloce e arrivando a cinque chilometri da Mosul, dove poi si sono fermati. L’accordo politico che c’è col governo di Baghdad, infatti, è che i curdi non debbano entrare a Mosul, che è una città araba. In questi giorni però, i curdi hanno fatto una dichiarazione importante tramite il presidente Barzani, affermando che la terra che i curdi hanno conquistato (circa il 90% del territorio conteso) resterà terra del governo curdo regionale. Già questo potrebbe rappresentare un problema. Baghdad ha ammonito l’esercito turco a non entrare a Mosul. L’esercito turco è lì a pochi chilometri, ha le forze per avanzare, ma Baghdad non vuole il suo ingresso in città. Vedremo se la Turchia ottempererà a questo diktat. Ankara dice che i turcomanni sono sotto la sua protezione, sono una componente minoritaria importante a Mosul. Bisogna poi domandarsi, da parte dell’esercito irakeno, chi è che entrerà, se l’esercito regolare irakeno, the Iraqi Defence Forces, oppure le milizie. Tra queste ultime ho visto sul campo soprattutto ritratti di Alì, quindi sono gli sciiti che andavano al fronte.
– Cosa comporterebbe questo ingresso?
Se entrano gli sciiti c’è il rischio che la popolazione di Mosul venga presa dal panico perché le milizie sciite, stando ai rapporti di Amnesty International, e di tutti gli organismi internazionali, si sono già caratterizzate per operazioni di pulizia etnica, come è accaduto a Ramady, Falluja e Tikrit. Sono precedenti per nulla positivi. È vero che sotto l’ombrello delle milizie, ci sono anche assiri, cristiani e sunniti, però la grande maggioranza, dai cinque ai 10mila combattenti, sono sciiti. Il passato ci insegna che il fondamentalismo è risorto perché il governo di Baghdad ha penalizzato i sunniti e questa esclusione li ha spinti ad avvicinarsi agli elementi più radicali ed estremisti. Oggi più che mai l’Iraq ha bisogno di una pace duratura, una pace che non può che includere i sunniti che rappresentano il 30% della popolazione e a che a Mosul sono la stragrande maggioranza.
– Esiste un dato certo del numero dei miliziani asserragliati a Mosul?
Assolutamente no; stime più attendibili parlano di 3mila, massimo 5mila combattenti. Le cifre sono molto aleatorie. A Sirte, in Libia, si diceva che fossero 7mila, poi si è scoperto che in realtà il grosso di questi combattenti era riuscito a fuggire. Ora non sappiamo quanta gente sia riuscita effettivamente a scappare da Mosul. È comunque vero che il corridoio di uscita, che dalla città porta verso Ovest, in Siria, è stato lasciato ai combattenti dell’Isis (siriani, irakeni e foreing fighters) e soprattutto alle loro famiglie. Ora questo corridoio è stato messo in pericolo dall’attacco delle milizie sciite vicino al confine siriano sulla città di Tal Afar, che conta circa 100mila abitanti. Se l’attacco va avanti, questa via di fuga verrà chiusa e l’Isis rimarrà prigioniera insieme ai suoi stessi ostaggi civili. The Indipendent parlava della presenza di Abu Bakr Albaghdady all’interno della città. Sono notizie che si rincorrono, ma probabilmente non sapremo mai la verità, se non alla fine.
– Qual è la situazione dei civili, si può parlare di crisi umanitaria?
I civili fuggiti da Mosul sono 4/5mila, stanno in campi ben attrezzati, allestiti sia dalle forze curde, che da quelle irakene. I numeri per ora non sono quelli di una crisi umanitaria, come ad esempio quella in corso ad Aleppo. La grande incognita sono i civili ancora prigionieri all’interno della città, circa un milione e mezzo tra autoctoni e abitanti dei villaggi limitrofi che l’Isis ha rastrellato portando a Mosul. Ho fatto un reportage sulla resistenza all’interno di Mosul e dalle testimonianze raccolte ci sarebbero cecchini dappertutto che impediscono ai civili di uscire di casa. L’intenzione è di usarli come scudi umani. Comunque sarà difficile entrare ed evitare la carneficina di civili. Teniamo presente che l’interno della città vecchia, la old Mosul, dove è trincerato il grosso delle forze dell’Isis, è un posto dove non si entra con i carro armati; bisognerà avanzare casa per casa e l’Isis ha già dimostrato di essere estremamente efficace in questo tipo di scontro, con trappole esplosive di ogni tipo e autobombe. Per questo la battaglia non è ancora vinta. Possiamo dire che la vittoria è già data, però i tempi per ottenerla sono tutti da vedere.
– In questo quadro drammatico, c’è una nota positiva, il ritorno della croce sui villaggi cristiani.
In quasi tutti i villaggi della terra di Ninive, come a Karakosh e Karamles è effettivamente tornata la croce cristiana. L’operazione di riconquista di questi villaggi è stata appannaggio dell’esercito irakeno. Sono villaggi dove la popolazione, comunque, non è ancora rientrata perché bisogna bonificare tutta l’area. Pochi giorni fa sono state ritrovate due anziane donne, di ottantacinque e novant’anni che avevano vissuto per venticinque mesi nascoste in un seminterrato, mentre l’Isis controllava il villaggio. È una storia straordinaria. Ora sono entrambe in ospedale. Ho visitato sia Karakosh, sia Karamles. Lì la furia distruttiva dell’Isis ha assunto i contorni della persecuzione religiosa perché comunque le chiese sono state tutte profanate e distrutte. A Karamles il santuario di Santa Barbara, che è una delle perle del cristianesimo caldeo, è stato utilizzato come base dell’Isis con tunnel interminabili che servivano a nascondere i miliziani.
– Quanto contano gli errori del passato in Iraq?
Tantissimo. Adesso siamo tutti eccitati di fronte a questa riconquista di Mosul e ci si dimentica che l’Iraq è un Paese che da trentasei anni vive in guerra. Prima contro l’Iran all’epoca di Saddam Hussein, poi le rivolte curde a più riprese, poi la prima e la seconda guerra del golfo, poi c’è stata al Qaeda, l’occupazione americana e chi più ne ha più ne metta. I giovani che sono al fronte non sanno cos’è la pace perché non l’hanno mai vissuta. È un Paese che va rimesso completamente in sesto, ma non si può farlo senza rispettare la sua complessa componente etnica. Ci sono sunniti, sciiti, curdi, yazidi e diverse altre minoranze. La posta in gioco è importantissima e ovviamente il petrolio e le risorse economiche rischiano di rendere questa partita molto più complicata.
– Quali sono le differenze nell’effettiva battaglia contro l’Isis in Siria e in Iraq?Molti paragonano Mosul ad Aleppo…
Non c’è nessun raffronto possibile tra Mosul e Aleppo. Sono situazioni completamente diverse. Ad Aleppo non c’è l’Isis a combattere, ma il regime che bombarda le zone occupate dall’Esercito Siriano Libero. L’Isis è fuori dalla partita militare ad Aleppo. Quello che fa la differenza è il fatto che a Mosul ci sono centinaia di giornalisti e quindi quella di Mosul è una battaglia che i media possono seguire e raccontare. Aleppo resta un massacro che va avanti ormai da anni, senza che nessuno possa documentarlo.
– Quali sono, secondo te, le possibili prospettive?
Vedo sia elementi positivi, che negativi. O la battaglia di Mosul porta a una ridefinizione dei rapporti tra la comunità sciita e sunnita, o ci sarà la possibilità, e l’Isis lo sa già, di riconquistare la minoranza sunnita emarginata. L’Isis non sparirà, si nasconderà nelle pieghe della società sunnita e, se questa non verrà reintegrata, c’è il rischio che l’Isis o chi ne prenderà il posto, trovi terreno fertile per ricominciare la sua guerriglia.
Asmae Dachan
(da Diario di Siria, 4 novembre 2016)