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Madri assassine. Alberto Figliolia intervista Adriana Pannitteri
07 Marzo 2007
 

Adriana Pannitteri

Madri assassine. Diario da Castiglione delle Stiviere

Alberto Gaffi, 2006, pagg. 123, € 10,00


Sotto i guanti di filo nero/ le unghie d’agata assassine/ taglienti e lucide come un rasoio, Paul Varlaine.

Con l’accompagnamento e l’eco di questi versi s’inizia a sfogliare Madri assassine. Diario da Castiglione delle Stiviere, il libro di Adriana Pannitteri, giornalista Rai che lavora al TG1 per cui conduce anche i telegiornali delle edizioni del mattino. Una giornalista che ama appassionatamente il suo lavoro e lo svolge con eccezionale professionalità.

Come intuibile dal titolo, non si tratta di un libro facile. L’argomento e il soggetto, anzi, sono assolutamente ardui: le madri figlicidie, che Adriana ha incontrato recandosi più volte all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, raccogliendone le confessioni, raccontandone la solitudine e il disagio psichico e sociale, la “malattia subdola” che ha portato a un gesto tanto estremo e, all’apparenza, assolutamente inspiegabile. Gli psichiatri parlano della “follia mostruosa della normalità”.

Dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi rimbalzano, talvolta anche fuori controllo, storie di questo genere, un balenio di sofferenze mal comprese, vite falcidiate, quelle dei bambini, o che lentamente e brutalmente si spengono, autentiche morti viventi, quelle delle madri sopravvissute all’omicidio della propria prole, frutto del proprio ventre. Storie terribili per le quali occorrerebbe, prima di tutto, capire. Precisamente quel che ha tentato di fare la Pannitteri con il suo libro, senza inutili infingimenti, in nome della verità e con coraggio, sensibilità e delicatezza. Nessuna morbosità è nelle pagine che scorrono alla lettura, nessun ipocrita paravento. Un diario che scruta a fondo, alla ricerca delle radici di un guasto e di un male che potevano, forse, essere evitati, se soltanto si fosse stati capaci d’ascoltare il grido d’aiuto lanciato da quelle donne e madri...

 

Adriana, perché ha voluto raccontare queste storie?

«Per me era fondamentale andare al di là delle notizie, oltre l’inflazione delle notizie, che diamo tutti i giorni nelle redazioni. Se molto spesso non riusciamo ad andare oltre, io invece volevo vedere sotto la superficie. Ho poi un interesse per il tema della follia e l’unica diagnosi possibile per queste madri è la follia».

Quant’è stato difficile scrivere questo libro?

«È stato difficilissimo anche dal punto di vista pratico, per i problemi legati alle autorizzazioni per poter incontrare queste donne e instaurare un dialogo con loro. Le persone con disagio psichico hanno una sensibilità spiccatissima. Il libro è un diario di questi incontri. L’impatto emotivo, per quanto mi riguarda, è stato fortissimo. La prima volta che sono andata via da Castiglione delle Stiviere ho avuto davanti a me, che volevo scrivere, una pagina bianca. Ho pagato in termini emotivi un costo piuttosto elevato, ma è stato anche un percorso che mi ha dato tanto».

Quando finiva un colloquio come si sentiva?

«Malissimo. Ho raccontato quali erano anche i dolori fisici e reali che finivo per provare. A volte m’era intollerabile il dolore che i racconti fattimi e sentiti mi suscitavano».

Raccogliere cocci di dolore per provare a ricostruire un’esistenza. E’ un mondo quello nei cui tristi mari ha navigato da cui è stata bandita la rotta della speranza?

«Io credo che la speranza ci debba sempre essere, anche se non la voglio catalogare come un concetto religioso. Piuttosto credo fermamente in un percorso di comprensione e di elaborazione a livello profondo, con la ricerca delle ragioni che hanno spinto a compiere un gesto così atroce. Parlo della conquista di una consapevolezza che non deve essere solo razionale. Quando incontro nuovamente M., una di queste madri, alla fine del libro, lo dico, lo racconto: M. ha capito che era stata malata ed erano stati i fantasmi della mente a spingerla a uccidere».

Citiamo dal libro... «M. sa ormai davvero quello che ha fatto, lentamente, piano piano, goccia dopo goccia, graffio dopo graffio, la parte più sana di lei deve aver iniziato a scavare e a comprendere. Si è guardata allo specchio, ha sfiorato con le mani l’immagine riflessa nel vetro, ha seguito i contorni con le dita e ha riconosciuto il suo viso. Nessuna ombra dietro di lei. Non ha più dovuto stringere alleanze con quelle voci che nella sua testa le costruivano storie che non c’erano. Pensieri fasulli. Trabocchetti mortali. Agguati. Forse ora M. sa di non aver salvato la sua bambina. L’ha uccisa e basta. M. era malata».

Lei si è sentita mutata dal dover confrontarsi con quelle tragiche vicende e che cosa ha acquisito da quest’esperienza di vita e di scrittura?

«Intanto ho acquisito il fatto che noi giornalisti dobbiamo avere un supplemento di responsabilità quando ci avviciniamo a questi fatti. Io stessa cercherò di essere molto attenta nei termini da utilizzare. Dobbiamo fare uno sforzo per capire che cos’è una schizofrenia, una malattia mentale; dobbiamo documentarci di più nel momento in cui si entra nella sofferenza di persone che hanno compiuto azioni così drammatiche e avere più comprensione verso chi vive e subisce la malattia mentale. C’è ancora molto da fare su questo argomento. Quello della malattia mentale è il grande tema rimosso: è molto più semplice dire... Era una mamma cattiva... dando dei giudizi approssimativi, invece che andare a vedere che cosa c’è nella mente delle persone».

Il suo è un libro molto giornalistico, nel senso che è un documento di straordinaria importanza, ma ha anche finissime qualità letterarie...

«La parte in cui c’è più rapporto con la fantasia della parola è nel racconto semi-immaginario ambientato in Sicilia, che ha una doppia ragione: stilistica per spezzare la drammaticità del racconto delle madri; cambiare il punto di vista, facendo parlare la bambina che è colei che potrebbe essere la vittima di una madre malata. Il racconto, reale, delle madri e quello, di fantasia, della bambina Maria Grazia possono però correre su due binari paralleli».

Lei è riuscita a trattare con enorme sensibilità un argomento tanto complesso e tormentato, senza mai celare però la verità delle cose...

«La “sfida” era quella di entrarci in queste storie. Doveva essere raccontato quasi tutto per comprendere veramente quello che c’era nelle menti di queste donne. Però al tempo stesso avevo stretto un patto di fiducia con le madri e a loro si doveva un grandissimo rispetto. Il modo in cui ho scritto ha certo aiutato a raccontare le cose: senza nascondere, certo, ma sempre con rispetto».

Lei lavora in TV, la quale dà l’impressione sovente di accendere i riflettori in maniera sbagliata su queste tragiche storie, ma ha scelto la scrittura, mezzo ben più antico, per raccontare il dramma...

«Effettivamente è così. L’informazione televisiva viaggia molto velocemente e gli spazi di elaborazione sono più ridotti. Anche se l’immagine conta molto, la riflessione della penna è qualcosa di più e aggiunge».

Non trova che il piccolo schermo dovrebbe al riguardo trovare un codice etico anziché inseguire, anche a costo della morbosità, gli indici di ascolto?

«Noi su questo argomento abbiamo fatto un incontro con la stampa romana ed è nato un progetto che spero si possa portare a termine: un seminario con psichiatri sull’approfondimento dell’uso dei termini e l’approccio a questi fatti. Credo poco ai codici etici, nel senso che questi possono essere violati, anche volutamente, senza che accada nulla. I codici etici già ci sono, non vedo la necessità di aggiungerne altri. Essi vengono violati perché non si conoscono le cose. Ecco, è la conoscenza che porta alla coscienza. Il compito che noi abbiamo è quello di conoscere di più e di documentarci lasciandoci alle spalle certi cliché».

C’è una via sociale al riscatto e alla guarigione per le donne di Castiglione delle Stiviere?

«Quelli che tuonano contro l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario dovrebbero sapere che cosa accadrebbe invece in un carcere a queste donne: dopo due giorni in una prigione s’impiccherebbero, forse. A Castiglione fanno tantissimo. È l’unico Ospedale Giudiziario che non è come un vecchio manicomio criminale e, con tutti i suoi strumenti formativi e di socializzazione e i suoi percorsi di formazione professionale per reinserire quelle persone in un processo lavorativo anche esterno, va assolutamente salvaguardato».

 

«La pazzia non è espressione di malvagità neppure quando porta a compiere il più inconcepibile dei delitti. L’uccisione dei propri figli piccoli. È malattia... Sappiamo come sono fatti gli anelli di Saturno e il Grand Canyon ma non c’è informazione sulle malattie della mente tranne i soliti luoghi comuni: “il raptus” o “era in cura per depressione”... Il racconto di Adriana è anche il tentativo rispettoso, mi pare, di sapere come si origina questa malattia che è la psicosi gravissima», ha scritto in una saggia e acuta postfazione la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg.

Ma la più doverosa chiusa va all’autrice... «In primo luogo ringrazio le madri ricoverate nell’Ospedale Psichiatrico di Castiglione delle Stiviere che hanno creduto nell’onestà del mio lavoro e hanno avuto il coraggio e la forza morale di raccontarmi le loro storie».

 

Alberto Figliolia


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