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Luigi Bolognini. La squadra spezzata 
Intervista di Alberto Figliolia al giornalista e scrittore
28 Settembre 2008
 

Quella squadra era tutto quello che avevano, lui, Sandor, milioni di giovani: i sogni, la speranza di farcela, l'eleganza, la bellezza incarnata, la depositaria unica dell'orgoglio nazionale, la sola realizzazione del socialismo apprezzata da tutti e riuscita.


Non ha vinto il “Bancarella Sport” assegnato pochi giorni or sono a Pontremoli, in Toscana, ma essere entrato con il suo libro nella sestina di quelli in corsa per l'ambito premio (se l'è aggiudicato infine Luigi Garlando con il suo “romanzo interista” Ora sei una stella), è stata senza dubbio una gran soddisfazione. Tutta meritata peraltro, dato il valore de La squadra spezzata (2007, Limina, pp. 149, prefazione di Roberto Beccantini), autore Luigi Bolognini, 36 anni, sondriese, giornalista de la Repubblica nella redazione milanese, poliedrico cronista e sensibilissimo artefice di parole e storie. La squadra spezzata altri non è che l'Ungheria degli anni Quaranta e Cinquanta, un team di football leggendario. Quella che segue è una lunghissima intervista con Luigi sulle ragioni dello sport e della vita, una sorta d'indagine, attraverso i destini di quella formidabile e per certi versi sfortunata équipe, sui casi drammatici della Storia e le storie individuali ad essa indissolubilmente legate, felicità e tragedia a governare, in apparente caos, le nostre esistenze. Il calcio come metafora e sfondo, gioco e qualcosa di più che un gioco.

Aranycsapat, la squadra d'oro, la leggenda dell'Ungheria che non perdeva mai e che non perse mai, tranne l'unica partita che non avrebbe mai dovuto perdere...

«Tra il 1950 e il 1956 questa squadra giocò cinquanta partite, ne vinse quarantatré, ne pareggiò sei e ne perse per l’appunto una, la finale della Coppa del Mondo del 1954 contro la Germania Ovest. Ma forse è proprio questo che ha consegnato questa squadra dritta dritta alla storia: che sia stata una magnifica incompiuta, che sia stata memorabile per gioco e per talento e che però non abbia vinto niente. Esattamente come la Grande Olanda degli anni Settanta, che di finali mondiali ne perse addirittura due. E spesso uno si ricorda più di chi ha perso che di chi ha vinto: pensiamo a Ettore nell’Iliade».

Tu hai narrato le vicende della mitica squadra di Ferenc Puskas intrecciandole con quelle della società magiara sino alla tragedia collettiva del 1956. Ancora una volta calcio e vita s’incontrano, nella bellezza e nella crudeltà dei giorni e degli eventi…

«Direi lo sport in generale, per la sua capacità di suscitare passioni e sentimenti, di lasciarti ricordi che poi inevitabilmente si intrecciano a quelli dei fatti privati e degli eventi pubblici. Questa vicenda ha una particolarità, quella dello sport nell’ex impero sovietico, che era frutto di severissime pianificazioni a tavolino (e più tardi in laboratorio). Anche allo sport si applicava la logica del piano quinquennale che regnava nell’economia e nell’agricoltura. Solo che mentre nell’economia e nell’agricoltura non funzionavano mai, nello sport sì, o quantomeno erano gli ultimi a fallire, considerato che l’Ungheria perse il Mondiale in finale. Lo scopo di tutto questo era naturalmente la propaganda, visto che ogni regime ha usato e usa lo sport per motivi di propaganda. Propaganda interna, cioè mantenere il consenso della popolazione, specie se oltre alla libertà è privata anche dei soldi e del cibo: non potendo dare il panem, diamo almeno i circenses per distrarli, regaliamogli della vittorie per farli felici. Propaganda esterna, cioè mostrare al mondo la grandezza del Paese. E l’Ungheria, Paese piccolo e poverissimo, in effetti si fece riconoscere e rispettare da tutti con quella squadra, che seminava gol e spettacolo ovunque andasse. Naturalmente l’effetto può anche essere boomerang, se le cose vanno male: la propaganda diventa negativa. Non a caso la prima rivolta contro l’ottuso regime filo-sovietico in Ungheria fu la sera del 4 luglio 1954, ovvero subito dopo la sconfitta nel Mondiale: il popolo, che non era sceso in piazza a protestare contro il cibo razionato, la libertà negata e la vita misera a cui era condannato, lo fece per protestare contro l’incapacità dei comunisti di fare vincere la Coppa alla squadra più forte. In fondo la rivoluzione del 1956 iniziò allora: i semi furono piantati quella sera e in due anni germogliarono. Quello shock, quella privazione improvvisa e inattesa del bello e del poetico, del solo bello e del solo poetico che avevano, fece aprire gli occhi agli ungheresi. E la rivoluzione del 1956 in fondo fu la trasposizione della vicenda calcistica in politica: il tentativo di fare qualcosa di pazzesco, di impossibile (un Paese di 6 milioni di abitanti che domina il mondo, così come un popolo lacero e una massa di giovani che batte l’impero sovietico), però col gusto di provarci comunque, perché è giusto farlo. E alla fine entrambe queste rivoluzioni sono state a un passo dall’essere vinte. Poi, essendo impossibili, sono fallite entrambe».

Romanzo, saggio, racconto interiore… Come definiresti il tuo libro?

«Indubbiamente romanzo. Anche se poi è chiaro che deve spiegare avvenimenti, personaggi e contorno della vicenda per cui si intreccia con il saggio calcistico. Ma questa è la vicenda di un bambino che simboleggia quella del suo intero popolo. Proprio per il discorso di cui sopra: il romanzo deve essere un racconto di passioni, di persone, di emozioni, di sentimenti».

Ci risulta che sei stato in Ungheria per documentarti, prima di scrivere il libro, e che hai incontrato anche qualcuno che era stato protagonista di quella storia...

«Protagonisti di quella storia no. Puskas era agli ultimi, gli unici due ancora vivi tuttora sono il portiere Grosics e il terzino Buszansky, ma non sono riuscito a parlargli. Ho parlato semmai con chi ha dei ricordi da persona qualsiasi, per farmi raccontare l’air du temps: com’era la vita quotidiana, cosa si mangiava, come si riusciva a campare nelle privazioni, cosa si vedeva al cinema, come e dove si ascoltavano le partite della Nazionale alla radio. E ho approfittato di una bellissima mostra all’Istituto italiano di cultura sulla rivoluzione del 1956 per vedere facce, vestiti, paesaggi. Poi ho girato molto la città per trovare ambientazioni alle varie fasi della storia, cercando di immaginarmi come potessero essere quelle strade negli anni Cinquanta. Ci sono zone di Budapest, soprattutto quelle periferiche, che sono rimaste abbastanza ferme ad allora. Più che con le persone, insomma, ho cercato di parlare con le cose. Il dialogo più utile è stato quello con un vicoletto lungo 100 metri e largo 5 in centro, dove sono capitato per caso: via Pal! Proprio quella! Nel libro l’autore, Molnar, la faceva sembrare una lunga strada di periferia, in realtà è tutto il contrario. Ma trovarsi in via Pal (dove l’unica cosa che ricordi il libro è una targa che incredibilmente è in italiano, messa lì da Radio Tre) è stato comunque incredibile, come se fossi stato sull’Isola che non c’è di Peter Pan, nel paese di Lilliput di Gulliver o sull’isola di Robinson Crusoe. Anche perché pure quel libro parlava di ragazzi che lottano per qualcosa, per difendere la propria innocenza, i propri ideali e la propria gioventù, esattamente come quelli che nel 1956 animarono la rivoluzione contro il regime. Per cui è stato inevitabile inserire anche via Pal nel libro».

Che cosa aveva in più quell'équipe rispetto al resto del mondo?

«Tantissimo, sia tecnicamente che tatticamente. Tecnicamente una nidiata di campioni che l’Ungheria non aveva avuto e non avrebbe avuto neanche dopo. Su tutti Puskas, ovviamente: sinistro devastante, preciso come un laser, ma volendo anche morbido, dribbling naturale, senso tattico, poteva giocare anche da fermo e lo faceva vista la pancia sempre più prominente. Ma senza dimenticare la lucidità del regista Boszik, che con un lancio da 50 metri ti metteva il pallone sul piede, la potenza e lo stacco di testa del centravanti Kocsis, il dribbling delle ali Budai e Czibor. E poi Hidegkuti, che merita un discorso a parte. Oltre ad avere dei piedi raffinatissimi, aveva un senso tattico eccelso. Cosa che gli permetteva di giocare ufficialmente come centravanti, col 9 sulle spalle, ma in realtà faceva il centrocampista. E questo introduce il discorso tattico. Il calcio di una volta aveva una sorta di codice cavalleresco, per cui il centravanti aveva il 9, il terzino sinistro il 3, lo stopper il 5, l’ala destra il 7 e così via. In un’epoca in cui non esisteva la televisione, viaggiare era lungo e complicato e gli studi sulla scienza calcistica erano pochi, di analisi tattiche sul calcio internazionale ce n’erano poche, e i numeri di maglia fissi e immutabili spesso erano il solo punto di riferimento. L’Ungheria invece aveva il 9 che era un centrocampista, così come l’11, il centravanti vero era l’8 e l’altra punta il 10. Aggiungiamoci che un’altra caratteristica della squadra era che tutti sapevano fare un po’ di tutto e si scambiavano le posizioni, per cui il centrocampista faceva anche l’attaccante o il difensore se serviva, e così via. Cose comuni, adesso, così come i fraseggi in velocità e di prima intenzione con cui avvolgevano il campo, ma oltre mezzo secolo fa erano rivoluzionarie, e i difensori avversari non ci capivano più niente. Fu così che nacque il 6-3 sull’Inghilterra a Wembley nel 1953: gli inglesi, presuntuosissimi, non studiarono minimamente gli ungheresi, e in campo videro i sorci verdi. Ancora più presuntosi, chiesero la rivincita a Budapest, ma non cambiarono minimamente la squadra e la tattica, dimostrando di non aver capito niente, e persero 7-1».

La finale perduta a Berna, nel 1954, con i tedeschi in odore di sostanze sospette è la più grande sorpresa calcistica e ribaltamento di valori nella storia del football. Sei d'accordo?

«Sì. Di vagamente simile ricordo solo la Grecia che vince gli Europei del 2004 con una squadra davvero orrenda. Ma è stata una vittoria sul campo, frutto di una legittima e astuta tattica di gioco, limpida, cioè senza sospetti. Quella tedesca del 1954 fu ben diversa. Il campo era una risaia per il diluvio continuo, cosa che impedì agli ungheresi i loro fraseggi eleganti, mentre la Germania era il solito cingolato tutto muscoli. Puskas era in campo per onor di firma: un paio di settimane prima un avversario gli aveva quasi divelto una caviglia con un intervento. E l’avversario era tedesco, visto che le squadre si erano già incontrate nel girone iniziale e avevano vinto gli ungheresi 8-3. In finale l’Ungheria vinceva 2-0 dopo pochi minuti, poi si fece recuperare e, a 6 minuti dalla fine, subì il gol del sorpasso. All’ultimo secondo un gol di Puskas fu annullato per un fuorigioco quantomeno dubbio. Infine, il doping. Questione controversa: le prove non ci sono tuttora. Ma quel che è certo è che poche settimane dopo parecchi tedeschi furono ricoverati con l’epatite virale, e che molti di loro sono morti di tumore».

Fu forse boicottata l'Ungheria in quell'edizione dei Mondiali in quanto squadra di un Paese schierato nel blocco sovietico, nel duro regime della Guerra Fredda?

«Come per il doping non ci sono prove. Solo un dato di fatto: nessuna squadra del blocco sovietico ha mai vinto il Mondiale. Oltre all’Ungheria, ci fu in finale nel 1962 la Cecoslovacchia, battuta dal Brasile. E nel 1966 l’Urss di Metreveli, Porkujan, Malafev, Voronin e Yashin fu fermata in semifinale giusto dalla Germania Ovest, ma forse anche un po’ dall’arbitro Lo Bello, che non sorvolò su un fallo su Cislenko da cui nacque l’1-0 e anzi espulse Cislenko per proteste. Ma tornando al 1954 c’è da dire che, se intervento politico ci fu, mi sembra più probabile sia stato pro-Germania che anti-Ungheria, anche se le due cose in concreto coincidono. Nel senso che la vittoria ridiede fiducia in se stessi ai tedeschi, usciti in ginocchio economicamente e moralmente dalla Seconda Guerra Mondiale».

Tu sei di Sondrio, ma vivi a Milano. Ti manca la tua città d'origine circondata dalle montagne? Ci torni spesso?

«Mi manca sì, naturalmente, e cerco di tornarci almeno un paio di volte al mese. Qui ho i parenti e gli amici, qui ho la mia casetta in montagna, sopra Ponte in Valtellina dove vado per respirare un po’ di aria (non dico aria buona: aria e basta, non essendo la roba che ti entra nei polmoni a Milano catalogabile come aria), per rilassarmi al contatto con il verde e con il silenzio, per tornare a essere parte della natura, per fare feste con gli amici e per solenni dormite. Sono e resterò un montanaro, anche se il lavoro mi costringe a vivere nella giungla d’asfalto, se qualcuno mi definisce milanese lo azzanno. Le montagne sono una barriera che ti protegge, ti culla. Mi piacerebbe solo che fossero trattate meglio, che noi valtellinesi rispettassimo di più l’ambiente in cui viviamo, considerato che oltretutto ci tornerebbe anche utile a fini turistici. Ormai io a Sondrio ci torno la notte, finito di lavorare al giornale, anche per un motivo banale: non vedere il fondovalle e lo stato pietoso, tutti villini in stile barocco brianzolo e capannoni, in cui è stato ridotto. Lo sviluppo, d’accordo, ma lo sviluppo dovrebbe portare da qualche parte. Poi un turista, dopo che è stato da noi, va in Alto Adige, trova una montagna perfetta (anche per le paccate di soldi pubblici che arrivano lì, certo) e in Valtellina non torna più. Hai voglia a parlare di terme e pizzoccheri. Per tacere dei boschi abbandonati, condannati ad ammuffire, e naturalmente dello sfruttamento di ogni piccolo salto. Non tutte le colpe sono di noi valtellinesi, ci mancherebbe pure, ma ci abbiamo messo e continuiamo a metterci molto del nostro. Anche nei dettagli, che poi spesso sono quelli che contano di più. Penso a San Bernardo di Ponte dove ho la casa, luogo tutto sommato ancora incontaminato. C’era una fontana di quella dove si abbeverano anche le mucche, rustica, brutta ma perfetta, in cemento. L’hanno tolta per metterne una che neanche in Tirolo: col cannello lungo, la vasca in pietre a vista. Magari neanche brutta in sé, ma finta, falsa, di cattivo gusto, che non c’entra nulla col posto. È stata messa in buona fede, perché poi tutti questi peggioramenti alla nostra terra noi valtellinesi li facciamo in buona fede, ma il danno è irreversibile. E temo il peggioramento, perché sempre meno conteranno modelli culturali, artistici e ambientali del posto e sempre più modelli imposti dalla televisione. A proposito, ci sarebbe da parlare anche delle baite di montagna con la parabolica sul tetto. Ma siccome vorrei tornare vivo a casa mia anche la prossima volta, passerei alla domanda successiva».

Può il calcio considerarsi ancora un sogno popolare?

«Tutto sommato, sì. Nonostante stiano facendo di tutto per ammazzarlo, trasformandolo in un format televisivo e in una macchina da soldi, resta sempre una fonte di passioni. Certo, il calcio è meno bello di una volta, i calciatori sono uomini bionici che vivono in un mondo tutto loro fatto di muscoli, soldi a palate, sgallettate in discoteca, telecamere. Ma alla fine di tutto c’è sempre la partita, c’è sempre la volta in cui la neopromossa batte i campioni d’Italia, c’è sempre il dribbling, l’invenzione, il talento, la gioia, il dolore. Finché ci saranno bambini che vanno tristi a scuola il lunedì perché la loro squadra ha perso, finché un tiro all’incrocio riuscirà a sollevare il morale di un anziano malato, qualcosa ci sarà sempre».

Risponde al vero quel che si dice di te, vale a dire... “visti i tempi presenti, apprezza sempre più il passato, soprattutto quello che non ha vissuto”?

«Più che altro l’ho scritto nel risvolto del libro. È una frase di Altan. Comunque sì. Non sono nostalgico di nulla: amo la memoria. Anche di quello che non ho vissuto, per l’appunto. Mi piace cercare di capire come si pensava, come si viveva, come si sognava, nei tempi andati. Che poi sia una reazione ai tempi orribili che stiamo vivendo adesso è più che probabile. Credo che sia la prima volta nella storia dell’uomo in cui “progresso” non ha più la sfumatura di “miglioramento”. Anzi, ogni novità della scienza, della politica, della società, dell’economia viene accolta istintivamente con un velo di timore».

La squadra spezzata è la tua seconda fatica autoriale, preceduta da Gli eroi son tutti giovani e belli. Ci vuoi parlare anche di questo lavoro?

«Siamo sempre sul concetto di laudatio temporis acti. Insomma, quant’è bello il passato. Sono una serie di ritratti, cioè di interviste inframmezzate da mie considerazioni e ricostruzioni biografiche, di campioni del passato più o meno noti, da Savino Guglielmetti a Lea Pericoli, da Osvaldo Bagnoli a Giampiero Branduardi. Racconti di vita, di uno sport che era più a contatto con la vita comune, che era fatto solo per passione e non per business».

Ora stai per caso dedicandoti a un nuovo libro?

«No. Non ho idee. Cioè ho tante cose che mi sguazzano nella testa, ma sono come saponette nella vasca da bagno, inafferrabili quando provo a bloccarne una. Qualcosa verrà fuori, non ho fretta, non mi interessa scrivere un libro qualsiasi, ne voglio uno che sia mio e che mi convinca. Sono uno da tempi lenti, anche in questo. L’idea arriverà, magari all’improvviso come questa dell’Ungheria. Le sole cose di cui sono passabilmente sicuro è che il prossimo libro non sarà di sport e che parlerà dell’Italia».

Ci sono per te “maestri di penna”, autori di riferimento et similia? Per esempio, la vicinanza con Gianni Mura...

«Ce n’è una serie infinita, sia tra i giornalisti che tra gli scrittori. Mi capita spessissimo, leggendo un libro o un articolo, di pensare sconsolato: “Ma quando mai io saprò scrivere così bene?”. Mura sì, ovviamente: diventarne amico è stata una delle poche cose che mi rendono orgoglioso di me stesso. Per quello che è, oltre che per quello che scrive e per come lo scrive. Ma non cerco di imitarlo, così come lui non ha mai cercato di imitare Gianni Brera, il suo maestro. Ognuno è e deve essere se stesso, anzitutto. Anche se è vero che pian piano, man mano che la conoscenza aumentava, è migliorato anche il mio livello di scrittura. Sarà osmosi. Ma di scrittori potrei davvero citarne mille. Mi limito a dire di Luciano Bianciardi, probabilmente il più grande dell’ultimo mezzo secolo, ora dimenticato. Il suo La vita agra – malgrado sia stato scritto quasi mezzo secolo fa – è tuttora la migliore descrizione delle dinamiche umane e lavorative di Milano, un racconto perfetto sull’alienazione che tutto ottunde in chi vive in questa città e nei tempi moderni».

Quanto il tuo essere giornalista aiuta l'attività di autore? Qual è il tuo campo di elezione? Cronaca, sport o varia umanità?

«Credo varia umanità. Nel senso che a me piace raccontare le persone, i moti dell’animo, i sentimenti, le passioni, e questo qualunque sia il settore di cui mi occupo, dalla cronaca nera agli spettacoli, dallo sport alla politica. E in questo il giornalista aiuta l’autore, nel senso che col mio lavoro devo conoscere gente».

 

Alberto Figliolia

(per 'l Gazetin, ottobre 2008)


 


 
 
 
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