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Giuseppe Rippa. Marcia per l'Amnistia, 12mila detenuti digiunano: il servizio pubblico se ne fotte
03 Novembre 2016
 

Il sapere è come la moneta corrente. Si ha il diritto, in parte, di compiacersi del suo possesso se si è lavorato il suo oro e se si è provato a coniarla, o per lo meno se la si è acquistata onorevolmente, una volta già coniata. Ma quando non si è fatto nulla di tutto questo, e la si è ricevuta da qualcuno del passato che ce l'ha gettata in faccia, che fondamento ha il compiacimento?

John Ruskin

(Citazione premessa nella diffusione della nota di G. Rippa da Newsletter Ecumenici di oggi, ndr)

 

 

Insieme ai dati, molto significativi, di adesione alla “Marcia per l'Amnistia del prossimo 6 novembre nel giorno del giubileo dei carcerati e che vedono a cinque giorni dalla sua effettuazione la partecipazione di regioni come Piemonte, Basilicata, Calabria oltre che numerosi Comuni e sindaci e l'iniziativa dello sciopero della fame di compagne e compagni del partito radicale, un evento emerge come uno dei più clamorosi e quindi indigesto per il sistema politico-istituzionale: sono circa dodicimila (e numerose sono le lettere ancora da aprire per dare un dato definitivo) i detenuti che hanno deciso, come segno di adesione alla marcia a cui non possono partecipare, di realizzare per il 5 e 6 un'azione nonviolenta di sciopero della fame.

Qualcosa di “inaccettabile” per una classe dirigente che è figlia dello stato-nazione italiana formatasi sul “rito del sangue”. La disobbedienza civile, la politica dei diritti civili che si muove sulla coscienza e sulla responsabilità della persona è garantismo e libertarismo combinato, come ha sempre ripetuto Marco Pannella. Questo Stato non può permetterselo.

La nonviolenza è rivoluzionaria. Il nostro tempo non vuole recuperare in termini laici la componente “religiosa” dell'odierna possibilità di fare politica in forma alternativa alla pulsione di sangue e di morte che è nello Stato contemporaneo. La classe di potere non può accettare che la “subburra” della nostra società, il carcere, i carcerati, ladri, assassini e quanto di peggio ci possa essere divenga, nella sua nuova e possibile consapevolezza un avamposto di speranza nonviolenta.

È per questo che il servizio pubblico, ma anche l'informazione cosiddetta privata, non dà la notizia che un quinto (ma solo quelli che sono riusciti a sapere) dei carcerati hanno dato vita ad una azione nonviolenta in occasione della marcia. C'è bisogno di violenza e lo Stato vuole essere egemone... Quindi paura, emergenza, per inculcare domanda di necessità di difesa con aggressione... L'informazione di regime fa il suo mestiere. Non ha altri strumenti culturali e pensare alla deontologia professionale è un eufemismo.

Come si può pensare che una notizia come quella che vede la “feccia” (secondo la loro rappresentazione) dell'umanità diventare attore positivo e nonviolento possa essere divulgata?

 

Giuseppe Rippa

(da Agenzia Radicale, 2 novembre 2016)


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