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I Vivarini. Lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento
17 Marzo 2016
 

Si è aperta a Palazzo Sarcinelli di Conegliano, fino al 5 giugno 2016 la prima mostra mai realizzata sui Vivarini, la famiglia di artisti muranesi in primo piano nel magico panorama dell’arte veneziana del Quattrocento, che giunse a contendere il primato alla celebre bottega dei Bellini.

L’evento promosso dal Comune di Conegliano e da Civita Tre Venezie Srl è a cura di Giandomenico Romanelli (catalogo Marsilio) con il titolo “I Vivarini, lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento”.

I tre artisti Vivarini (Antonio, il fratello Bartolomeo e il figlio di Antonio, Alvise) furono tra i principali e più originali interpreti della pittura veneziana nella stagione di passaggio tra la cultura figurativa gotica e l’affermazione del Rinascimento.

La loro attività copre un arco cronologico di circa sei decenni (tra il 1440 e il 1503) e ha lasciato un imponente numero di opere nei territori della Repubblica di Venezia (dalla capitale al confine occidentale verso il Ducato di Milano, con particolare densità a Bergamo) come sulle coste adriatiche, sia in Istria e nella Dalmazia che nelle Marche, in Abruzzo, in Puglia e nelle province del regno di Napoli.

La bottega artistica dei Vivarini ha sviluppato una sua poetica e un suo peculiare linguaggio: a fianco e talvolta in competizione con l’altra celebre famiglia di pittori veneziani, quella dei Bellini, essa si è confrontata e ha recepito l’esperienza dei grandi innovatori dell’arte del primo Rinascimento: Paolo Uccello, Donatello, Masolino da Panicale, Filippo Lippi, Andrea del Castagno; quindi Andrea Mantegna e Antonello da Messina, poi Perugino e altri ancora. Tracce di questi contatti e di questi confronti si possono riconoscere nella pittura dei Vivarini, che si è venuta aggiornando e arricchendo in maniera assai evidente nel corso dei decenni senza perdere in originalità e novità.

L’intenzione dei curatori della mostra, la prima mai dedicata ai Vivarini, è quella di illustrare l’importante percorso da loro compiuto.

Di sfatare alcuni ingiustificati pregiudizi, come quello per cui i Vivarini sarebbero gli interpreti di un’avventura culturale destinata a soccombere rispetto alla linea vincente (quella, per altro straordinaria, Bellini-Giorgione-Tiziano) o a rappresentare una corrente artistica marginale e provinciale (le opere in mostra dell’ultimo Alvise e l’intero coneglianese e trevigiano con la ricchezza e la qualità della pittura dei “seguaci” dei Vivarini smentiscono decisamente tale ragionamento). Infine è l’occasione per indagare e conoscere la composizione della committenza della Chiesa del secondo Quattrocento e, soprattutto, con il mondo delle osservanze, ossia delle correnti riformate negli ordini religiosi.

I pittori Vivarini furono tre, come ben noto: Antonio, il più anziano, nato prima del 1420; suo fratello Bartolomeo, di una decina d’anni più giovane e Alvise, figlio di Antonio, nato in una data tra il 1442 e 1433. Originari di Murano in una famiglia proveniente da Padova trasferitasi in laguna a lavorare il vetro, continuarono a praticare questa materia e, anzi, la più celebre delle grandi vetrate veneziane, quella della basilica dei Santi Giovanni e Paolo, vide la partecipazione creativa di Bartolomeo e, forse, Alvise.

Le opere di esordio di Antonio, nella prima sala della mostra, quali il Polittico di Parenzo, firmato e datato 1440, al quale si può affiancare per affinità stilistiche la raffinatissima Madonna col Bambino Gallerie dell’Accademia di Venezia, sono caratterizzate da una soffice plasticità nella resa delle figure che vengono però ancora impaginate contro un fondo oro uniforme che annulla lo spazio e le immagini in un’atmosfera sospesa e irreale.

La forma classica dell’ancona gotica prevede una complessa cornice intagliata e dorata articolata verticalmente su uno o più livelli e orizzontalmente su una serie di edicole o scomparti, ciascuno occupato da una e più figure; gli scomparti centrali erano solitamente destinati alla Vergine con il Bambino oppure al santo titolare dell’altare. In alto, nel fastigio, compariva il più delle volte il Cristo in passione.

Nell’Uomo dei dolori della Pinacoteca Nazionale di Bologna, probabile scomparto di un polittico smembrato, Antonio mette a punto un’originale raffigurazione con il Cristo che appare quasi vivente, pervaso da una forza dinamica e arditamente inserito nel paesaggio.

Dal principio degli anni quaranta l’attività di Antonio si intreccia con quella del pittore Giovanni d’Alemagna che ne sposa la sorella. Questo sodalizio ed operosità in comune è presentata nella seconda sala pel percorso espositivo.

Le opere firmate da entrambi sono sontuose e complesse ancone per chiese veneziane richieste da una committenza strettamente religiosa. Tra i capolavori di questa spettacolare produzione vi è la Madonna in trono con il Bambino, parte di un trittico smembrato proveniente quasi sicuramente dalla veneziana chiesa di San Moisè. Lo scomparto centrale con la Vergine e il Bambino è uno splendido esempio di virtuosismo formale e tecnico specie nella resa prospettica del trono gotico, riccamente intagliato e traforato.

Nel 1446 Antonio risulta residente a Venezia, nella parrocchia di santa Maria Formosa, ma l’anno seguente la bottega viene trasferita a Padova, città nella quale lavora per ben dieci anni Donatello e dove sta crescendo potentemente la personalità di Andrea Mantegna. Qui la sfida più impegnativa che Antonio e il cognato Giovanni affrontano fu la decorazione della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani, da condursi lavorando a fianco di due giovani artisti emergenti: Andrea Mantegna e Nicolò Pizzolo. La documentazione fotografica anteriore al bombardamento del 1944 su Padova mostra lo sforzo di Antonio e Giovanni di adeguarsi a un nuovo e moderno gusto, ricco di interessi antiquari.

Nella terza sala spicca la figura di Bartolomeo Vivarini, fratello minore di Antonio che segue probabilmente il fratello a Padova e, dopo la brusca interruzione dell’esperienza Ovetari, la morte di Giovanni di Alemagna avvenuta nel giugno 1450, si trova a collaborare strettamente con lui. Gli anni cinquanta risultano infatti intensi e ricchi di commissioni, non solo in terra veneta ma anche in quella sorta del “golfo di Venezia” che si espandeva lungo le coste adriatiche. Ѐ molto difficile in tali lavori distinguere le due diverse mani, ma nel polittico per la chiesa di San Francesco a Padova del 1451, disperso in varie collezioni, di cui in mostra appaiono gli scomparti con i santi Antonio da Padova e Ludovico da Tolosa ma soprattutto nel Polittico di Rutigliano (Puglia) e nel Polittico di Arbe dalla chiesa di San Bernardino nel monastero di sant’Eufemia di Arbe (Rab. Croazia) il linguaggio di Bartolomeo risulta ancora coincidente con quello della bottega, mentre lo stile di Antonio sembra mutare verso modi nuovi.

La quarta e la quinta sala sono dedicate a Bartolomeo Vivarini che dopo la morte del fratello Antonio, a partire dagli anni sessanta, appare muoversi verso un suo personale e originale itinerario. Negli anni ottanta Bartolomeo seguita a dipingere secondo la formula che gli ha garantito il grande successo: non sa, o non vuole aggiornare il proprio linguaggio. Lavora per la terra veneziana o per le località lungo le coste adriatiche, ma dalla seconda metà del decennio, si affaccia anche il mercato bergamasco eseguendo numerosi polittici a fondo oro.

Nelle tre ultime sale abbiamo il percorso del nipote Alvise Vivarini. Inizialmente vicino ai modi dello zio Bartolomeo (e di Andrea Mantegna), egli se ne distacca progressivamente, attratto dal magistero di Antonello da Messina e di Giovanni Bellini. Nella sua fase finale la sua pittura si caratterizza in un impegno di ricerca sperimentale inedita. Tra le sue opere più rivoluzionarie è il Cristo risorto della chiesa di San Giovanni Battista in Bragora (Venezia), databile al 1497-1498, riconducibile a nessun modello della coeva pittura veneziana. La figura atletica di Cristo risulta animata da un moto di torsione che scardina ogni precedente modalità di inserimento del corpo nello spazio, portando dentro la storia la dimensione dell’evento soprannaturale.

 

Maria Paola Forlani


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