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Asamae Dachan. Huna Halab, siamo ad Aleppo 
Dall’altra parte del mare §2. “Una città ferita, che sanguina, una città che non vuole morire”
25 Agosto 2013
 

Mentre scrivo queste parole ho ancora addosso la polvere, il sudore e la stanchezza di due giorni intensi passati nella martoriata città di Aleppo. Ho l’odore della morte nelle narici, il suono di mortai, spari ed esplosioni nelle orecchie; il dolore che ho potuto toccare con mano mi stringe come in una morsa. Huna Halab, siamo ad Aleppo. È come se non volessi liberarmi dal peso e dalla sofferenza che ho visto con i miei stessi occhi, è come se volessi prolungare in qualche modo le sensazioni che ho provato nel vedere per la prima volta in vita mia la città delle mie origini, trovandola colpita al cuore dalla violenza, dall’abbandono, lasciata all’oblio dal resto del mondo, insieme alle altre città della Siria.

Trentasei ore ad Aleppo, tra spari di cecchini appostati sui tetti ed esplosioni, mentre la popolazione civile, con una dignità e un coraggio impressionante, cerca di continuare a condurre la sua normale esistenza. In poche ore avanti ai miei occhi si svolgono scene terribili, che purtroppo sono diventate la normalità per le persone del posto. Mentre inizio le riprese, assisto all’estrazione del corpo di una donna seppellita da una settimana tra le macerie del palazzo dove abitava, che era stato colpito da un razzo; l’esplosione ha provocato centinaia di feriti e la morte di oltre 80 persone. Si cercano ancora 6 dispersi, tra cui un bimbo di tre anni. Poi davanti a noi esplode un colpo di mortaio: fumo, paura, la gente è esasperata. L’aria è irrespirabile, la sofferenza tangibile. Nel cuore della città vecchia ci sono famiglie che prima dell’inizio delle violenze erano in condizioni di grave disagio, ora sono stremate dalla povertà e dagli stenti. Chi ha in casa un malato o un disabile bisognoso d’assistenza, deve farcela da solo. Il che equivale, in alcuni casi, ad aspettare inermi la morte. Un antico nosocomio del 1300, diventato sito culturale di grande importanza, che conserva busti come quello di Ibn Sina, presenta lesioni gravi. In ogni strada si ripete la scena di case, scuole, luoghi di culto colpiti dalle bombe. Dopo la preghiera del venerdì alcuni ragazzi si riuniscono all’incrocio tra due strade e organizzano un sit in; cantano per chiedere libertà: nelle loro parole c’è tutta la voglia di vivere di una generazione che rischia di non conoscere la parola domani. Arrivando ad un ospedale da campo, vediamo giungere a forte velocità un’auto con i lampeggianti accesi: scende, sorretta da un ragazzo, una donna con il braccio sanguinante che grida dal dolore. Dopo di lei ne arriva un’altra, ferita ad una gamba, anche lei sorretta da un giovane. Sono state colpite entrambe da un cecchino mentre attraversavano una strada vicina al mercato delle verdure. Per terra, di fronte al punto di soccorso, un sudario bianco impregnato di sangue; è il sangue ancora caldo di un uomo colpito nella stessa zona, dallo stesso cecchino. Mentre si svolge questa scena c’è un via vai di auto e persone a piedi; ci sono schiamazzi di bambini. Alcuni negozi sono aperti. Visito diverse case: la gente è di un’accoglienza straordinaria e ognuno mi racconta la sua storia, la sua ferita; ogni casa ha subito almeno un lutto, ma la vita deve continuare ad Aleppo. Continua nella segretezza delle case, dove giovani donne si improvvisano maestre per dare un minino di istruzione ai loro figli e a quelli del palazzo in cui vivono; dove i civili chiedono che si smetta di uccidere, che Bashar se ne vada per sempre e che si facciano riforme per dare un presente e un futuro ai loro figli; dove giovani che non hanno davanti a sé prospettive si preoccupano di assistere gli anziani, le vedove, le persone malate.

Huna Halab, questa è Aleppo, la città del sapone di alloro e delle rose, che è oggi una città ferita, che sanguina, una città che non vuole morire. Durante il viaggio di ritorno mi sento come intrappolata in ognuna delle situazioni che ho vissuto; mi sembra tutto assurdo e ancora più assurdo è che dopo 36 ore io torni alla vita “tranquilla” ai confini turchi, mentre quelle meravigliose persone che mi hanno accolta nelle loro case, pregandomi di raccontare al mondo cosa accade veramente in Siria, rimangano lì, sotto il tiro spietato dei loro aguzzini. Lascio Aleppo, come se avessi visto per la prima volta la mia madre naturale, ma l’avessi trovata sanguinante, in fin di vita. La lascio per tornare tra le braccia della mia mamma adottiva, l’Italia, dove vorrei portare le voci, i sorrisi, le lacrime, la paura e la dignità di questa gente.

 

Asamae Dachan

(da Diario di Siria, 25 agosto 2013)


 
 
 
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