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La donna delle selve 
di Sara Bovo
Ca
Ca' Pipetta (foto Erveda Sansi) 
04 Febbraio 2012
 

Il padre morto giovane, la madre poco dopo, il fratello impiccato in un bosco di castagni. La sua vita si era svolta in solitudine.

Ilaria era rimasta sola al mondo con un piccolo deficit mentale che l’aveva resa ancora più fragile agli occhi della gente, ma forte di fronte alle intemperie dei giorni che passavano gli uni uguali agli altri.

Fra tutti i componenti della famiglia sembrava quella candidata alla peggior sorte, come una morte prematura a causa delle precarie condizioni fisiche e mentali, invece era sopravvissuta al padre, alla madre, al fratello impiccato nel bosco di castagni e aveva trascorso una vita semplice in solitudine.

Aveva ereditato una casa grande che aveva mantenuto con il lavoro della montagna, degli animali, mentre i parenti le erano stati accanto per l’eredità che avrebbero ricevuto alla sua morte. In realtà era poca cosa, ma in una società contadina il poco non si buttava via, si sommava ad altro e formava un tanto.

Ogni mattina si alzava prima dell’alba per andare a mungere la mucca e portare il latte alla latteria. Vestita di marrone, con il fazzoletto che le copriva i capelli, le calze spesse di lana, un leggero golf addosso, la veste, il gerlo sulle spalle; andava dalla sua bestia.

Aveva dato tutto il suo amore alla terra, agli animali, a chi le regalava una parola di saluto e a se stessa. Viveva di ciò che produceva, si faceva bastare tutto, trovava nella preghiera conforto spirituale e fonte di serenità, conosceva la natura. Così la sua esistenza si era riempita nonostante la solitudine.

E nessuno l’aveva mai sentita lamentarsi per i piccoli acciacchi, anche se ne aveva molti e pure qualcosa di più serio.

Un giorno Ilaria camminava lungo il sentiero delle selve e aveva freddo perché in montagna l’aria pungente di fine primavera dopo il temporale penetra nelle ossa e le raggela. Si tirava le maniche del golf marrone e continuava a camminare col suo passo cadenzato ma veloce. La corporatura esile racchiudeva un fascio di nervi e dove non ci arrivava la forza sopraggiungeva la volontà.

Il gerlo sulle sue spalle era sempre molto pesante, legna, fieno… sacrifici necessari. La legna era preziosa per riscaldarsi, cucinare e lavorare il latte; il fieno diventava oro una volta riposto nel fienile. La vita aveva già fatto capire a Ilaria quanto fosse dura: la morte dei genitori e poi la terribile disgrazia del fratello, che aveva scelto di andarsene in un bosco di castagni.

Mentre camminava lungo il sentiero delle selve, nel bosco dei castagni, Ilaria chiamava la gatta che viveva nella stalla insieme alla mucca. E la gatta arrivava. Formavano una famiglia loro tre: Ilaria, la gatta e la mucca. Tre femmine così diverse. Tre complici che mai avrebbero voluto separarsi.

Giugno era arrivato con la pioggia, ma quando il sole usciva scaldava come un fuoco e faceva maturare il fieno nei prati. Bisognava falciarli al più presto e si cominciava dal basso, dalle selve che davano sui precipizi in fondo alla valle e si risaliva lentamente fino a dove le anime sceglievano di riposare in eterno.

Ilaria si trovava sul prato ripido pronta per iniziare il lavoro. Il rumore della falce che abbatteva l’erba spaventava le bisce che fuggivano nel bosco o rimanevano a pezzi sotto la lama. Cadaveri a seccare sotto il sole.

Il terreno bagnato era scivoloso, lei era caduta e aveva sentito un dolore sottile ma atroce; doveva essere successo qualcosa di grave alla sua gamba perché di alzarsi in piedi non ne aveva proprio la forza. Infatti aveva strappato i legamenti del ginocchio ma dal dottore non era andata perché per queste cose si andava da quello che aggiustava le ossa.

La gente non andava da lui per risparmiare soldi, ma perché il medico per le cose delle ossa non serviva. Il dottore si chiamava per i dolori alla pancia, alla testa, non per le gambe e le braccia. Per i bambini era diverso, ma quando crescevano andavano anche loro da quello che aggiustava le ossa.

Alla fine anche Ilaria aveva dovuto decidersi ad andare dal medico vero, perché il dolore non passava e non poteva andare ad accudire le sue bestie. Questa era stata una di quelle occasioni in cui si era accorta che il mondo cambiava al di fuori della sua valle e della piccola contrada in cui abitava. Al di fuori della perfetta sintonia della sua famiglia tutta al femminile composta da una donna sola, una gatta e una mucca.

 

Davanti al fuoco, la sera, ci si trovava per raccontare le cose che erano accadute durante la giornata, per passare il tempo in compagnia. E anche per pregare.

C’era un’altra donna che abitava nella contrada proprio accanto a Ilaria. Contadina, montanara, fiera, alta, longilinea, devota.

Due vite parallele la sua e quella di Ilaria, che si incrociavano e si allontanavano con una naturalezza sorprendente. Non c’era bisogno di darsi un appuntamento, entrambe avevano i ritmi della vita cadenzati dalle fasi della luna, dall’alba e dal tramonto del sole e il campanile pensava a battere le ore. I rintocchi si sentivano ovunque sulla montagna e ciò era sufficiente a sapere che ora fosse, bastava contarli.

Quella sera accucciata davanti al fuoco c’era anche la gatta mentre la mucca riposava nella stalla. Le due donne, che si erano trovate dopo una giornata trascorsa a falciare il fieno nei prati della mezza montagna, raccontavano la vicenda di un ragazzo del paese, straordinariamente bello ma dall’animo estremamente selvatico. Aveva lo slancio del camoscio per via del suo fare veloce e del suo arrampicarsi sulle montagne con la stessa abilità dell’animale, ma il carattere schivo del cervo che sta nascosto nel bosco. La bellezza e il fascino erano quelli del capriolo.

Dicevano fra di loro che a quel giovane l’idea di andarsene dalla montagna proprio non piaceva, a che cosa serviva scendere a valle se la pace era lì?

Boschi impervi, radici, piante di rododendro e ginepro, cespugli di mirtilli. L’anima di quel giovane cavalcava nel fitto del bosco, incurante di che cosa andasse a calpestare. Il suo cuore era lacerato dall’amore, fatto a pezzi, frantumato.

Lo spirito di chi era nato selvatico era tornato a esserlo in eterno, come un dannato in una bolgia infernale. Il tormento e la fatica, l’angoscia e il male di vivere, l’annebbiamento della ragione. Un’anima perduta nei dirupi di rocce a strapiombo sulla valle. Cervi, caprioli spaventati da un animale con il sangue che bolliva nelle vene e batteva nelle tempie, impazzito per amore, assassino per stanchezza.

Una sera d’inverno mentre nevicava da due giorni senza interruzioni, l’animale selvatico che cavalcava nei boschi senza meta era insieme a quella che desiderava diventasse la sua compagna per la vita, ma lei gli voleva bene e nulla più. Gliel’aveva detto quella sera di neve (piangendo) mentre le si stringeva il cuore per il dolore di dargli un dispiacere.

La rabbia di quell’animale impazzito si era sfogata in un assalto improvviso mortificando l’onore e la dignità della sua compagna.

Era durato pochi attimi, eterni. Poi lui si era accorto della pazzia che stava compiendo e aveva smesso improvvisamente. Coperto di vergogna era fuggito nella neve, che brillava nella notte, per purificarsi.

Le due donne, complici nell’essersi introdotte nella vita altrui e di aver osato pensare a quello che si dice fosse successo a quei due giovani, conclusero la serata recitando il Rosario.

 

La madre di Ilaria era morta giovane, lasciando i due figli soli al mondo. Era morta in autunno, al tempo delle castagne.

Le zie erano rimaste in disparte, avevano già da sfamare i loro figli e poi i due ragazzi non erano così piccoli da non potere cavarsela da soli. La stalla era avviata ed entrambi sapevano fare il lavoro dei contadini e anche quello dei pastori. Cos’altro poteva servirgli?

Da molti giorni sulla credenza c’era la scodella con cui la mamma aveva consumato l’ultima minestra prima di morire. Nessuno l’aveva spostata. In una notte di freddo e nuvole basse la malattia aveva finito di sconvolgere il corpo della donna e aveva lasciato il passo alla morte, che era venuta a prenderla nel letto dove dormiva anche Ilaria.

La vicina della contrada aveva detto a Ilaria: – Lava la scodella e mettila via.

È della mamma, la lascio lì era stata la risposta.

La scodella, ammuffita e sporca, era sopravvissuta anche alla morte di Ilaria parecchi anni dopo.

Quella donna aveva la straordinaria abitudine di conservare ogni cosa con una cura incredibile. Come delle reliquie, nella casa in paese e nella stalla e nelle baite, si trovavano barattoli, vecchi abiti, santini, caramelle, pettini e messali.

Nello scrigno di ogni baita riponeva da una parte la farina e dall’altra il riso, separati da un divisorio di legno. Ma c’era una baita in alta montagna dove accadeva qualcosa di bizzarro.

Quando Ilaria vi arrivava alla sera, dopo una giornata di lavoro nei prati oppure dopo aver pascolato la mucca, trovava la farina e il riso mischiati tra loro. Come poteva accadere? Era certa di averli smistati versandoli dal sacchetto all’interno dello scrigno, la farina da una parte e il riso dall’altra.

La scoperta ogni volta la rendeva furiosa. Non desiderava altro che entrare nella sua baita, accendere il fuoco e prepararsi la minestra di riso prima di stendersi sul letto di foglie e dormire fino all’alba del giorno seguente.

Sapeva che l’artefice del dispetto era una donnola, ma non riusciva a prenderla. Era convinta che l’animale stesse ad aspettarla nascosto da qualche parte per sentirla inveire alla vista della farina mischiata col riso dentro allo scrigno. Dove si nascondesse la donnola e come facesse a infilarsi nello scrigno di legno rimaneva un mistero, ma Ilaria era convinta che tutto quello scompiglio fosse opera del maledetto animaletto. Si era aperta una guerra fra loro due, una sorta di rituale che aveva costretto Ilaria a mettere un po’ di riso in un vaso di vetro per evitare gli scherzi della donnola. Così era sicura di potersi preparare la minestra calda. La donnola, annoiata da tanta razionalità, aveva abbandonato la baita.

 

Un’altra sera d’inverno le due donne si trovavano davanti al fuoco, nella casa in paese. Fuori nevicava e con il gerlo con dentro un po’ di legna, erano arrivate a mettere a cuocere la minestra di riso e patate.

I muri di pietra della casa di giorno custodivano gelosamente il freddo che entrava dagli spifferi ma alla sera si concedevano al tepore del fuoco, facendo rivivere storie di un tempo. Come quella che riguardava una vecchia amica di scuola, diventata una giovane graziosa e intraprendente, sensibile a tutte quelle percezioni che le persone comuni non distinguevano ma che lei coglieva benissimo.

Il catenaccio che teneva chiusa la porta all’improvviso aveva fatto un rumore assordante, strillando nella notte e raggelando il sangue di chi lo aveva sentito.

La ragazza si era domandata come mai proprio quel catenaccio si era aperto: chi era arrivato?

Non c’era nessuno sulla montagna oltre a lei e suo padre. C’erano le mucche e le capre, anche le galline, ma quelle stavano nella stalla e nel pollaio, giù sotto alla contrada, e a quell’ora dormivano.

Il buio avvolgeva le ore della sera, nemmeno una stella in cielo, era stata una di quelle giornate senza luce.

Il rumore, forte, era durato un attimo ed era arrivato da quella porta che di solito rimaneva chiusa. Sbarrata da un catenaccio che aveva strillato in quella notte fredda di una primavera che assomigliava all’inverno.

La ragazza e suo padre stavano lì per mesi, soli nel silenzio di una pace senza confini, su una montagna selvatica che legava le persone con un filo indissolubile, nella vita e nella morte.

Un’anima si era stabilita nella baita dove aveva trascorso giorni indimenticabili e quella sera aveva aperto la porta tirando il catenaccio più forte del solito, provocando un rumore assordante, destando curiosità e terrore in lei che sulla montagna stava col padre, le mucche, le capre e le galline.

La ragazza aveva sempre saputo che sulla montagna ci abitavano le anime dei morti (le aveva anche sentite) alcune volte viste muoversi. Le conosceva e così come ci scambiava qualche parola in vita, anche in morte faceva la stessa cosa.

Ma chi era stato a tirare il catenaccio in quella notte? Chi aveva fatto tanto rumore? Accidenti era stato eterno.

No, era stato un attimo lungo quanto la paura e lo spavento. Le membra che tremavano, il sangue che gelava, il sudore che colava sulla fronte. Era impietrita, immaginava di chi poteva essere l’anima che tirava così forte il catenaccio, ma non ci credeva. Non aveva mai pensato che potesse tornare ad abitare da quelle parti.

Eppure lo aveva sempre visto da vivo nella baita, nei boschi dove andava a fare la legna, ma non le era venuto in mente che potesse tornare lì da morto.

Questa volta la morte le aveva messo paura. Come mai? Con mille anime di montanari morti lei parlava.

Ecco il punto, lui non le sembrava un montanaro, le incuteva timore e rispetto, come se non fosse uno di quei posti. Ma lui lì ci stava perché c’era sempre stato da vivo, anche quando gli altri se ne andavano, spinti dal freddo dell’inverno e dalle neve che faceva gelare le ossa.

La ragazza non era sicura di essere felice a stare lassù (quasi tutto l’anno) in solitudine con gli animali e suo padre. Del resto non aveva scelta, la vita aveva riservato questo per lei.

Un’opportunità di fare altro l’aveva avuta a quindici anni, ma aveva sofferto talmente tanto per quell’allontanamento forzato dalle sue montagne che non aveva più voluto saperne per il resto della vita. In città, nella tristezza, senza nessun altro colore che quello delle piastrelle del bagno che era costretta a pulire.

No grazie, non ci sto, torno sulle montagne dove ho vissuto e dove costruirò il mio futuro. Non posso fare a meno della stalla con le mucche, che mi danno da vivere e gioia”.

Niente di tutto questo le aveva dato la città. Fare la serva in un posto senza verde e senza animali non era quello che aveva in mente, ma era l’unica possibilità che il Signore aveva riservato per lei al di fuori della montagna.

No grazie, non ci sto, torno da dove sono venuta, felice di cercare le capre nei dirupi”.

La ragazza aveva sempre vissuto la vita con i ritmi di chi è vecchio, le stesse cose da fare, da mangiare, gli stessi lavori, le stesse preghiere. Lei era viva nella montagna, moriva al di fuori di essa. Come una marmotta.

A scuola non ci andava, fuggiva nei boschi. I genitori non la rimproveravano, dopo tutto se rimaneva a casa dava una mano con gli animali e i prati. Del resto sui banchi non aveva mai dimostrato di avere un grande interesse per quello che studiava; la testa era libera di pensare al altro piuttosto che concentrarsi sulle nozioni impartite da una maestra trapiantata in montagna per via di un matrimonio infelice.

I vincoli della sua vita erano stati due e portavano il nome di due uomini, quello di suo padre e quello dell’unico uomo che avrebbe mai amato, suo marito.

L’aveva conosciuto in una calda estate al ruscello e la prima volta che si erano amati lei era rimasta incinta. Il trascorrere degli anni aveva trasformato la ragazza in una donna generosa, vecchia prima del tempo, del resto come i vecchi aveva sempre vissuto. Con le anime parlava ancora, le vedeva e le salutava ma raramente saliva in quella baita dove aveva passato molto tempo con il padre, le mucche e le galline. E la sera non usciva mai, se non per andare in chiesa a dire il Rosario.

 

La famiglia delle donne era sempre unita, tranne in estate quando la mucca saliva all’alpeggio. E in quel periodo di solito la gatta metteva al mondo la cucciolata.

Il parto avveniva di nascosto, la gatta era molto riservata e si appartava per vivere quel momento in tutta la sua magia. Il suo talento di madre era davvero straordinario, una presenza leggera ma efficace. L’amore che quella gatta riversava sui suoi figli era indescrivibile. Ilaria conosceva il momento in cui la gatta partoriva perché non la vedeva gironzolare ma non la cercava, sapeva che quando sarebbe stata pronta si sarebbe fatta viva. E così capitava ogni volta. Non appena aveva superato il trauma del parto, la gatta faceva capire alla sua complice che poteva cercare i gattini. Così Ilaria apriva la stalla e andava dritta alla mangiatoia dove i suoi occhi ogni volta rimanevano esterrefatti davanti alla bellezza della cucciolata. Ma Ilaria aveva stabilito una regola: niente gatti tigrati nella loro famiglia. Quel colore del manto non le piaceva, le striature la infastidivano e poi non poteva tenere tutti quei gatti, ci voleva un criterio di selezione. E quello del colore era il primo.

Alcune volte i gattini erano già sistemati prima di nascere, altre volte trovavano un padrone nei primi mesi di vita, ma la maggior parte delle volte bisognava ucciderli e lasciarne soltanto uno o due per fare smaltire il latte alla gatta. Il macabro rito avveniva durante i primi giorni di vita per evitare che i gattini aprissero gli occhi e i sensi di colpa diventassero troppo grandi. Uccidere quegli animali non era semplice, la coscienza rimordeva e affrontare la gatta non era cosa da poco.

Se nella cucciolata c’erano dei tigrati avevano già il destino segnato al momento della nascita, erano i primi a finire dentro al sacco ed essere portati al torrente dove trovavano la morte nelle fredde acque che scendevano dal ghiacciaio. Quelli che rimanevano nella mangiatoia di solito avevano il pelo bianco e rosso oppure bianco e nero. Così si era diffusa una genealogia di gatti che derivavano da quella fattrice generosa e perfetta, madre per vocazione, femmina ricercata per la sua straordinaria bellezza. Il suo manto a tre colori, bianco-rosso-nero, piaceva ai maschi della valle che la corteggiavano perfino quando era incinta. Ma il suo cuore batteva per un gatto selvatico dal pelo bianco latte che aveva perso una zampa in una tagliola. L’incidente l’aveva fatto diventare ancora più selvaggio e diffidente, un cacciatore fenomenale che viveva nei boschi e si cibava di uccelli ma anche di lepri. Purtroppo questo particolare lo aveva reso inviso ai cacciatori del paese che però non erano mai riusciti a fargli la pelle. La tagliola gli aveva portato via una zampa ma non la voglia di vivere e di amare.

Era un gatto straordinario, grande e agile, difficile da vedere durante le ore del giorno. Di sera invece andava dalla sua gatta preferita, la più bella della valle, ed entrava anche nella casa della sua padrona che gli preparava un po’ di minestra. Ilaria era l’unico contatto che il gatto bianco a tre gambe aveva con il mondo degli uomini.

Molti dei cuccioli che la gatta aveva partorito nel corso della sua vita erano figli suoi. Lui così bianco, lei a tre colori, avevano dato la vita a una razza bellissima ed i cacciatori che lo volevano eliminare avevano in casa o alla stalla, a loro insaputa, uno dei suoi figli. Un giorno però il vecchio tre gambe non era più arrivato. Il bosco l’aveva inghiottito e a nulla erano valsi i richiami della sua splendida compagna. Di sicuro non era stato ucciso dai cacciatori, altrimenti il racconto si sarebbe diffuso nel paese. Era semplicemente morto.

 

Con la morte si conviveva ogni istante della giornata, non era un concetto separato dal vivere quotidiano. Con le anime si parlava, le si percepiva e non era necessario andare al cimitero a trovarle, anche se Ilaria si sentiva di farlo.

Le interminabili giornate che iniziavano prima dell’alba per mungere la mucca e finivano a tarda sera con una scodella di minestra davanti al fuoco, prevedevano quasi sempre una visita al camposanto dove c’era la famiglia di Ilaria. Il padre, la madre e il fratello morto impiccato in un bosco di castagni.

In estate la donna arrivava sul fare del tramonto e non doveva aprire il cancello perché ci trovava già qualcuno. Un giro tra lapidi, croci, madonne, fiori e ceri. Un silenzio molto simile a quello che udiva durante tutta la giornata e poi le campane che battevano otto rintocchi le facevano ricordare che era tempo di fare ritorno a casa.

Anche alla madre, al padre e al fratello così come alla mucca e alla gatta, Ilaria raccontava le faccende di ogni giorno e pregava per dargli la luce eterna e chiedergli un po’ di misericordia dall’alto dei cieli.

Il giorno in cui suo fratello aveva deciso di togliersi la vita stava per finire l’inverno e affacciarsi la primavera. Era stato pesante per lui sopportare quei mesi freddi, i più freddi in ventisei anni di vita. Il gelo gli aveva attanagliato il cuore, i sentimenti e le emozioni.

Per lui che era bello, molto bello, con i lineamenti perfetti e lo sguardo gentile, tutto quel freddo era stato troppo da sopportare. Quando ti si ghiaccia il sangue nelle vene, quando si intorpidiscono i pensieri e la malinconia ti prende per non lasciarti più, diventa difficile passare giorni e giorni al freddo. Nulla lo avrebbe potuto riscaldare, non la preghiera e non l’affetto degli animali che riempivano le giornate di sua sorella Ilaria, non il lavoro di tutta la settimana, non il sorriso di una bella ragazza. Ormai era troppo tardi anche per quello. Il cuore aveva chiuso i battenti, la serratura si era rotta e niente e nessuno poteva riaprirla. Quando ci si sente soli è difficile sopportare l’inverno in montagna senza forza interiore e volontà di ferro.

Ilaria, con il suo piccolo deficit mentale, riusciva a convivere molto più facilmente con tutto quel silenzio, i momenti eterni, la solitudine e le situazioni gelide. Si isolava nel suo mondo di fantasie e ci giocava, come una bambina.

Lui non poteva. La sua mente concepiva che tutto ciò era tremendo da sopportare, che avrebbero potuto esserci altri sbocchi, ma quali? Dove prendere la forza di dare una svolta alla propria vita, dove cercarla? E che fare di Ilaria, così fragile, così sola, così estraniata da tutto quello che succedeva alla loro famiglia. Soli in una grande casa a badare ai prati e alle bestie, ma soprattutto a se stessi. Quale futuro per loro? Quanti anni, quanti ancora, prima di morire e porre fine a tutto quel dolore? Quanti ancora?

Quanti anni può avere un castagno? Basta tagliarlo per scoprirlo, contare gli anelli del tronco e sapere tutto di lui. Ecco, tagliarlo, sì…

Tagliare una pianta significa ucciderla, farne legna da ardere, renderla utile. Ecco…

Anche lui poteva tagliarsi, poteva con un solo gesto scoprire quello che c’era dentro se stesso e porre fine alle sue sofferenze, rendersi utile togliendosi di mezzo.

Bastava un castagno, un semplice castagno per trovare la pace. E nella selva di castagni ce n’erano quanti ne voleva. Ne aveva scelto uno in mezzo al bosco, forse per non sentirsi solo nel momento della morte. E lì, a modo suo, aveva salutato la vita con una corda intorno al collo.

 

Le due donne durante le feste consacrate ricevevano le visite dei parenti e i biglietti di auguri da famigliari che vivevano lontano. Per il resto non cambiava niente. A Natale andavano a messa come del resto tutti i giorni dell’anno e mangiavano insieme gli gnocchi di grano saraceno che Ilaria preparava con il cucchiaio.

Poi di corsa dalle bestie perché era con loro che si celebrava il rito delle feste. La famiglia si riuniva in stalla: Ilaria, la gatta e la mucca. Qualcosa di buono per tutte e due, un po’ di pane e una manciata di sale per la mucca, qualche gnocco per la gatta e poi lì a raccontarsela e a spazzolare il manto della mucca prima di mungerla.

La fine dell’anno non era una gran festa, dopo tutto finiva un ciclo e se ne riapriva un altro. L’inverno ancora per qualche mese avrebbe ricoperto le strade di neve e di ghiaccio e poi sarebbe arrivata la primavera con le piogge purificanti e il primo sole che faceva inebriare come un buon vino rosso.

La prima sera dell’anno le due donne erano davanti al fuoco a far cuocere le castagne nel latte e a Ilaria era tornato alla mente quel giovane sfortunato che sulla montagna badava a cento mucche, due cavalli e un toro. Lo aveva visto al cimitero quel pomeriggio, una foto sbiadita dietro ai fiori freschi.

E se fosse stato diverso? Se invece di andartene per sempre mi avessi convinto a non avere paura di te, se avessi aspettato sbocciare miei anni e maturare le mie fantasie come il fieno sotto al sole? Se avessi fatto crescere il mio amore per te così come lo sentivi tu e mi avessi fatto capire che i sentimenti veri sono difficili da trovare… Ero così giovane, che ne sapevo della vita, dell’amore, dei baci?

Perché non mi hai parlato di più, perché mi guardavi con quegli occhi neri che ancora vedo dentro ai miei e non mi spiegavi che cosa sentivi nel cuore, che cosa avresti voluto da me?

Perché hai lasciato che io immaginassi tutto nella mia mente senza dare la tua versione dei fatti? O forse ero io che non capivo e tu con quegli occhi neri parlavi, urlavi, gridavi ma io ero sorda e cieca, pensavo che il miele della vita fosse altrove. Che sbaglio…

 

Ilaria aveva delle espressioni che facevano intendere il suo stato di isolamento dal mondo intero, come se stesse viaggiando con la mente e si trovasse in un luogo fatto di pace assoluta. Questo almeno percepiva chi la osservava.

Un giorno era seduta sul muretto in fondo al prato, l’erba intorno era già stata falciata ma stava crescendo quella pronta per il secondo taglio. Il braccio destro di Ilaria era piegato e appoggiato sul fianco mentre il sinistro sorreggeva la testa sul palmo della mano. Gli occhi socchiusi, il capo leggermente inclinato, i capelli raccolti sotto al fazzoletto nero, i piedi appoggiati sulla terra e un po’ divaricati. Sembrava una ciuffo di erba in mezzo ai fiori del prato. Il viso mostrava tutte le rughe che nell’arco della vita le avevano segnato le mattine e le sere e le notti solitarie e fredde.

Ilaria, immobile in quella posizione così plastica, assomigliava a una scultura. Per quasi un’ora aveva riposato sotto al sole mentre la sua anima se n’era andata a trovare la madre e a chiederle cosa avrebbe voluto per cena.

 

D’estate quando c’era la luna piena che si intravedeva nel bosco attraverso le cime degli abeti e dei larici, le notti erano calde anche in alta montagna. Una sera il giovane dall’animo selvatico che aveva la bellezza del capriolo e il temperamento del camoscio, era andato a guardare il tramonto in cima alla montagna.

Lì si era fermato fino a quando il cielo era diventato buio. Al tramonto gli animali selvatici uscivano dal bosco per raggiungere le radure dove l’erba era più tenera e si sdraiavano agli ultimi raggi del sole che scaldavano il loro mantello. Così aveva fatto anche lui.

A poco a poco le sue pupille si erano adattate al buio della notte e quando la luna era finalmente apparsa da dietro il profilo della montagna e non era più necessario fare alcuno sforzo per vedere tutt’intorno, il giovane aveva deciso di incamminarsi lungo il sentiero che dalla pietraia scendeva nel bosco e arrivava a valle.

Nelle notti di luna piena non si incontravano i bracconieri, troppa luce per i loro crudeli delitti, ma si potevano sorprendere gli amanti. La luna, piena e tonda simbolo di fertilità, incantava il pensiero e scaldava il sangue nelle vene di chi viveva la passione, soprattutto se clandestina. Così, mentre il giovane tornava verso casa, il suo cammino era stato interrotto da un gemito proveniente dal laghetto nel bosco. Non si trattava di un animale, di questo era convinto, era senza dubbio la voce di una donna. Una donna ubriacata dal chiarore della luna.

Il giovane si era fermato, aveva ascoltato ancora per essere sicuro delle direzione dalla quale provenivano quei gemiti, poi col passo felpato di un felino aveva proseguito fino al laghetto. Accovacciato sotto a un larice, aveva assistito a una danza di corpi che si intrecciavano alla luce della luna, in riva a quelle acque complici, in una piccola radura in mezzo alla pineta.

La coppia non lo aveva sentito arrivare, così intenta nel gioco dell’amore. Lei era la moglie di uno dei pastori dell’alpe e lui un bel ragazzo con le spalle forti.

Il buio avrebbe custodito il loro segreto, la luna invece lo aveva svelato a quel giovane che come un animale selvatico si era appostato senza fiatare. La passione che aveva travolto i due amanti non lo aveva certo lasciato indifferente. Avrebbe tenuto per sé il segreto, questo sì, ma la passione dei due amanti gli aveva infuocato ancora di più l’animo per quella che avrebbe voluto diventasse la sua compagna per la vita. Accovacciato tra le radici di un larice, immaginava come sarebbe stato fare l’amore con quella straordinaria creatura, assaggiarne la pelle, sentirne l’odore. La luna piena gli aveva fatto battere forte le tempie, il respiro era diventato affannoso, ci voleva una sigaretta… subito, una bella sigaretta per non pensare, per scacciare l’immagine di quella straordinaria creatura che lo rendeva pazzo d’amore e di desiderio. E poi gemiti di quella donna, così appassionata, così…

Dove le ho messe, dov’è il pacchetto… pensava fra sé, cercando nella tasche della giacca verde militare.

Dai, salta fuori, maledetto pacchetto…”.

Eccolo, trovato, finalmente”.

Con la mano destra si era portato alla bocca la sigaretta mentre con la sinistra aveva sfregato il fiammifero contro una pietra per accenderlo. Un rumore rapido e poi la fiamma e la sigaretta che diventava un bagliore nel buio.

C’è qualcuno… aveva detto la donna al ragazzo.

Chi c’è?

Oddio… Oddio… Oddio, è la fine.

I gemiti della donna si erano trasformati in singhiozzi di paura. La voce tremava, in fretta si era rivestita ed era scappata. La passione aveva lasciato il posto alla vergogna.

Il giovane si era accorto che accendere quella sigaretta era stato un errore grossolano e banale. In fretta l’aveva spenta schiacciandola con lo scarpone e si era inoltrato di corsa nel bosco prima che il ragazzo potesse raggiungerlo. La luna piena gli aveva fatto perdere la ragione. Come ai due amanti del laghetto nel bosco.

 

Passavano gli anni e le due donne nella contrada invecchiavano; da sole. Quelli che un tempo erano solo acciacchi si trasformavano in dolori e i loro corpi diventavano ogni giorno un po’ più curvi e deboli.

La gatta era morta. Non di vecchiaia, però. L’avevano uccisa i cacciatori e Ilaria l’aveva trovata cadavere davanti al fienile. Probabilmente chi aveva sparato credeva che fosse un animale selvatico, di quelli che mangiavano le lepri e gli uccelli, come il gatto bianco a tre gambe. Il destino aveva riservato per la femmina la morte che i cacciatori avrebbero voluto dare al maschio. E così di quella magnifica gatta a tre colori erano rimaste una figlia bianca e rossa nella stalla e la fama di animale sorprendentemente intelligente.

Come molto spesso accade ai montanari, Ilaria aveva sofferto in silenzio per la morte della gatta ma dentro di lei uno squarcio si era aperto e, di lì a poco, non sarebbe stato il solo.

Quello che era successo alla gatta le aveva fatto sentire ancora una volta l’odore della morte, che la sfiorava ma non si decideva a portarla via, come se la sfidasse a vivere.

C’era stato un momento in cui anche la spensierata vita di Ilaria aveva subito uno scossone. Le prime avvisaglie erano apparse sottoforma di cadavere della sua amata gatta e lei, che aveva una straordinaria sensibilità, le aveva percepite. Il suo modo di pensare, offuscato dal piccolo deficit mentale, aveva iniziato a scorgere un futuro dai toni scuri e ombrosi. Era come se i rami del castagno sui quali il fratello aveva finito di vivere stessero per raggiungere anche lei.

La vita diventava ogni giorno più dura. I denti le facevano male, bisognava curarli, ma come? Forse era meglio farseli strappare piuttosto che sentirli marcire in bocca. Usava i chiodi di garofano e gli sciacqui di malva per togliere l’infiammazione, ma ormai erano un rimedio che le dava poco sollievo. Il dolore le faceva scoppiare la testa, sopportava a fatica il freddo e le dava fastidio la luce del sole. Mangiava poco perché faceva fatica a masticare e le forze erano improvvisamente diminuite. In più stava per arrivare l’inverno e non si prospettava facile affrontarlo in quelle condizioni fisiche. Ilaria se ne rendeva conto.

Un giorno, mentre faceva la legna nel bosco di faggi, aveva sentito i primi fiocchi di neve posarsi gelidi sulle sue mani nude. Era soltanto ottobre, ma la neve era già bassa e la sua salute preoccupante. Alla sera arrivava nella contrada un po’ prima del solito, accendeva il fuoco e poi andava a letto. Se alla mattina non avesse dovuto andare a mungere la mucca, probabilmente a letto ci sarebbe rimasta tutto il giorno. La sua mente si stava colorando di grigio e i giorni diventavano fardelli pesanti da sopportare anche perché ancora una volta la vita aveva deciso che lei dovesse rimanere sola.

L’altra donna della contrada si era ammalata gravemente e, dopo l’ospedale, era stata portata via da una sorella. Lontano dalle montagne ma soprattutto lontano da quella contrada dove aveva trascorso tutta la vita e dove aveva lasciato Ilaria a invecchiare da sola.

La separazione fra le due donne era stata molto difficile, nessuna delle due si rassegnava all’idea di cambiare la propria vita e di porre fine a quei rituali che duravano da mezzo secolo, come prepararsi la minestra di riso alla sera e consumarla davanti al fuoco. Avevano creduto di affrontare insieme anche le ultime salite della vita, quelle più dure, con il ghiaccio che rende scivoloso il terreno e la nebbia autunnale che copre le montagne e non fa intravedere nemmeno l’altro versante della valle. Pensavano che quell’incredibile intreccio di donne e animali potesse essere eterno, indistruttibile, non avevano considerato la malattia e nemmeno l’intrusione dei parenti. Le due donne bastavano a se stesse e fino a quel momento i fatti della vita avevano dato ragione a loro.

Quando la sorella dell’altra donna era arrivata nella contrada e si era affacciata sulla soglia di casa, Ilaria aveva capito che tirava un’aria strana. Con fermezza e anche freddezza le aveva comunicato che sua sorella dall’ospedale sarebbe stata portata in città e nella contrada non avrebbe fatto ritorno, almeno per quell’inverno.

Il gelo era piombato nel cuore della dolce Ilaria, che si era offerta di prendersi cura dell’altra donna della contrada, di prepararle da mangiare e darle le medicine, di starle vicino e di pregare Dio e la Madonna per lei. Ma a nulla erano valsi i suoi buoni propositi, avrebbe trascorso nella casa della contrada l’inverno da sola e anche gli altri che sarebbero seguiti ancora per qualche anno.

 

Quelle case della contrada erano arroccate lungo la via che sale e taglia il paese in due. Sopra altre case, sotto gli orti e lo strapiombo che si gettava nell’orrido del torrente in fondo alla valle. Erano antri impenetrabili che si aprivano con una piccola porta e poi diventavano una miriade di stanze, solai, ripostigli e infinite scale che salivano all’interno e all’esterno degli edifici. Apparentemente non c’era nulla di più semplice di quelle case della contrada, così povere a vedersi, ma così ricche di storie e racconti e con una certa dignità nobiliare a guardarle con gli occhi del cuore.

Sapevano di muffa e di terra inumidita, avevano tutte le sfumature del grigio e mai un colore. Erano fredde in estate e gelide in inverno, ma quel fuoco che ardeva all’interno del camino e che anneriva le pareti le rendeva terribilmente calde. Vi si respirava un’atmosfera di altri tempi e si sentivano gli echi di voci che non c’erano più, di amori sussurrati, dolori gridati, segreti custoditi.

Ilaria, l’altra donna della contrada e i gatti erano un tutt’uno con quelle case, ne erano custodi e al tempo stesso artefici del loro futuro. Le avevano abitate talmente intensamente da vive che nulla aveva proibito loro di tornarci da morte.

Le anime delle due donne della contrada sarebbero rimaste per sempre in quei muri così spessi per tramandarne i segreti a chi aveva il cuore e gli occhi in grado di carpirli.

Certi incontri entravano nell’anima e nel cuore e negli occhi. Quasi ancestrali. Occhi profondi, lucidi, vivi, intensi; sinceri o ingannatori?

Altri occhi dolci, scrutatori, giovani, inesperti, desiderosi; sinceri o ingannatori?

I primi erano arcaici e appartenevano a un mondo diverso, monopolizzavano il pensiero e l’azione. Il ritrovarsi in epoche diverse e riconoscersi.

I secondi erano gli occhi dell’attrazione, calamita della fisicità e della voglia di vivere. Però giovani.

 

Provata dai dolori e dalla febbre che non le dava pace, Ilaria continuava a occuparsi con amore della sua mucca. Cercava di accudirla come aveva sempre fatto, ma lei stessa si rendeva conto che le forze le mancavano e che a volte era quella bestia ad accudire lei. Le dava calore, qualche carezza strofinandole il muso addosso al corpo e leccandole le mani.

Il freddo dell’inverno era pesante da sopportare e il fisico di Ilaria, a poco a poco, dava dei segnali di cedimento. Si consumava fino quasi a sparire sotto a quei vestiti che erano diventati improvvisamente larghi. Una mattina Ilaria era stata male sulla strada che dalla stalla portava alla latteria, era caduta a terra rimanendo immobile sulla terra ghiacciata. L’avevano soccorsa altre donne, che si erano date da fare per avvisare i parenti in paese.

Ilaria era spossata dalla febbre e il dottore aveva ordinato il ricovero. Anche la sua mente se ne stava andando, consumata dal dolore che non cessava mai, e il piccolo deficit mentale ora non si distingueva più dal resto del pensiero. In ospedale le condizioni di Ilaria erano apparse subito piuttosto gravi e i medici aveva diagnosticato una degenza di almeno quindici giorni. Poco alla volta la donna riprendeva le forze e cercava di farsi coraggio pensando alla sua mucca che era rimasta sola alla stalla. Era per lei un chiodo fisso e allo stesso tempo un motivo per rimettersi in fretta.

Quindici giorni, però, erano lunghi da passare e i parenti di Ilaria non avevano dimostrato di avere molto a cuore le sorti della mucca. E poi, se Ilaria fosse stata di nuovo male, avrebbero dovuto occuparsi ancora della bestia; un tormento infinito. Così, mentre la donna era in ospedale, avevano venduto la mucca a un mercante che ne avrebbe fatto carne da macello.

La notizia era arrivata a Ilaria come un colpo di fucile dritto al cuore. Con quella mucca era morta una parte di lei, ora rimaneva ben poco del suo mondo se non quello che poteva inventarsi con l’immaginazione. La famiglia delle complici si era sfaldata, la gatta e la mucca erano già state uccise e Ilaria aspettava il giorno in cui la morte sarebbe venuta a prendere anche lei.

L’altra donna della contrada era stata portata a casa della sorella e Ilaria abitava tutta sola in quelle case che un tempo avevano conosciuto la storia di tante persone. Non c’erano più gli animali, non c’era più il lavoro per la vecchia Ilaria, non c’era più l’amicizia. Le erano rimaste la preghiera che le dava serenità e la visita al camposanto per implorare la madre, il padre e il fratello impiccato in un bosco di castagni di aiutarla dall’alto dei cieli. Così Ilaria aveva trascorso ancora una primavera e un’estate e un altro autunno ma all’inizio del nuovo inverno, una sera davanti alla fuoco, era morta. Da sola, come aveva sempre vissuto.

Forse se n’era accorta e aveva gridato, ma nessuno l’aveva sentita. O forse aveva chiuso gli occhi e iniziato il suo viaggio verso un mondo nuovo. Come sempre da sola, Ilaria aveva raggiunto Dio.


 
 
 
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