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Umbria Jazz 2007: il genio timido e il magnifico antipatico
26 Luglio 2007
 

Circa 400 musicisti per 300 concerti sparsi su 10 giorni di programmazione: ovvio che di fronte a simili numeri sia necessario fare una selezione, non solo perché molta era musica senza pretese e di solo intrattenimento, ma soprattutto perché pochi si possono permettere di investire tempo e denaro per un periodo così lungo. Ho scelto di rimanere a Perugia per tre giorni pensando di riuscire a mantenere una media di tre concerti quotidiani, ma stanchezza e distanze tra hotel e teatri mi hanno portato a rinunciare alle esibizioni di mezzanotte. Ho quindi assistito a sei concerti, tutti di musicisti che conosco bene e che ho visto più volte dal vivo, ma che hanno rinnovato, quasi tutti, ognuno nel modus espressivo consono quanto di meraviglioso c'è nella propria proposta musicale. Comincio lunedì 9 luglio con i Doctor 3 al Teatro “Morlacchi”, arrivando appena pochi minuti prima dell'inizio dopo un viaggio lungo e faticoso per raggiungere Perugia. Si parte con “Generale” di De Gregori e poi, via via, gran parte dei brani presenti nell'ultimo album, con una lunga ed estatica versione di “Close to you”. Non c'è nulla di nuovo nella musica del trio, ma fino a quando Rea, Pietropaoli e Sferra sapranno rivestire di magia e di raffinatezze il loro set, la formula rimarrà godibile, anzi, irresistibile per la capacità di intesa, scambio dei ruoli e profondo lirismo insito nelle loro cover d'autore. La sera all'Arena di Santa Giuliana si rivela fredda e ventosa, Rava giganteggia con il suo quintetto, novello mago Gandalf dai lunghi capelli bianchi scomposti dal vento. Petrella regge magnificamente il dialogo, e la sezione ritmica risponde al meglio. Come sul disco per E.C.M, chi più mi intriga è però il gioco intelligente e sapido di Andrea Pozza, capace di far dimenticare Bollani. Concerto intenso, giocato su ritmi verticosi e setose ballads. Nulla di nuovo anche qui, ma tanta classe e buon gusto da riempire la serata. Non altrettanto intenso, almeno a mio parere, il risultato del progetto di Stefano Bollani, Mirko Guerini e I Solisti di Perugia. Non si discute della capacità del gruppo d'archi e, naturalmente, nemmeno quella del pianista e dell'arrangiatore. Il concerto si è sviluppato tecnicamente in modo perfetto ma algido, piuttosto lontano dal linguaggio jazzistico e abbastanza insipido per suscitare clamori, esteticamente godibile ma privo di reali emozioni. Naturalmente i giorni successivi ne ho letto peana e meraviglie su diversi quotidiani, ma personalmente mi sono discretamente annoiato. Horacio El Negro Hernandez non mi infonde l'appeal sufficiente per sobbarcarmi il ritorno al Morlacchi, sono stanco e chiudo lì la giornata.

La mia giornata inizia alle 18 con l'ottetto di Gianluigi Trovesi. Avendo ammirato molte volte il gruppo dal vivo sono abbastanza preparato a un ripasso generale del repertorio, senza particolari scossoni. Trovesi non è solamente uno dei migliori specialisti in circolazione della famiglia dei clarinetti, ma credo soprattutto sia uno dei più interessanti compositori italiani ed europei di questo frangente storico. Il suo free-bop speziato, le improvvise aperture in puro stile new-orleans, ironiche marcette e ammalianti danze medioevali ne caratterizzano una scrittura dal sapore unico e immediatamente riconoscibile. Il concerto è stato strepitoso, l'affiatamento del gruppo impressionante, cosi' come il moderno e intrigante uso dell'elettronica. Ho sentito qua e la differenti arrangiamenti e soluzioni di brani oramai famosissimi, ma soprattutto ho goduto dell'evidente piacere dei musicisti di comunicare con la musica. Molto molto cresciuto il ruolo e lo spessore musicale del trombettista Massimo Greco, capace di assoli da fare invidia a colleghi più celebrati e famosi. Sempre godibile l'uso delle percussioni di Fulvio Maras, spesso doppiate da soluzioni elettroniche. Mi aspettavo routine, anche se di classe, ho trovato invece musica palpitante e dannatamente divertente. Il pezzo finale costruito su un inizio tematico di Mahler diventa una simpatica ed irresistibile marcetta che permette al sempre caustico Trovesi di presentare i musicisti. Applausi, bis, ovazioni.

«Una volta stavamo suonando ad Amburgo (erano i primi anni '70), e davanti al palco c'era una buca per i fotografi e le macchine fotografiche continuavano a scattare. All'improvviso Keith si fermò e li mandò a quel paese. Poi riprese esattamente da dove aveva interrotto. Straordinario». (Paul Motian dal libro di Ashley Kahn La Storia della Impulse)

Di quel che è successo la sera oramai tutti ne avrete letto. Quotidiani e blog si sono occupati molto del caso Jarrett, dando molto spazio al carattere eccentrico e arrogante del pianista e parlando poco e di sfuggita della musica suonata. Personalmente tendo comunque a distinguere l'uomo (decisamente presuntuoso ed antipatico) dal musicista raffinato e colto che subito dopo la sfuriata a base di fucking ha suonato meravigliosamente come è solito fare nei giorni di grazia. Cinque i brani della prima parte, iniziando da un “Green Dolphin Street” dalla inusitata armonizzazione, per finire con una coda improvvisata in cui il semplice rintocco del piatto di De Johnette diventa base per una dolcissima e sognante improvvisazione che si vorrebbe non finisse mai. Gli spettatori, numerosissimi, hanno reagito con freddezza alle frasi maleducate, e nell'intervallo i commenti sono più per la sfuriata che per la musica. Il vento gelido spazza l'Arena e alla ripresa nonostante un magnifico “Django” eseguito dal trio il pubblico sembra non partecipare più emotivamente. La seconda parte è breve e nervosa, nemmeno “Joy spring” risolleva la situazione e il pianista coglie l'atmosfera negativa e dopo poco chiude e se ne va rifiutando il bis. Si scatenano fischi e proteste ma il magnifico antipatico è già in viaggio verso l'aereo privato che lo riporta a Montecarlo. Anch'io mi rimetto in viaggio verso la mia camera. Infreddolito e in parte deluso rinuncio a Edmar Castaneda, l'unico arpista capace oggi di suonare un latin jazz boppeggiante e divertente. Peccato.

«La bellezza ci può trafiggere come un dolore». (Thomas Mann)

Terzo e ultimo giorno a Perugia: decido di ignorare gli eventi della giornata e di rivedere Spello e Spoleto. Decisione gratificante in attesa del concerto migliore che il festival mi ha offerto. Parlo ovviamente del musicista che da 50 anni continua ad innovare e a proporre musica freschissima e palpitante: Ornette Coleman, genio musicale e gentiluomo. Prima del concerto invita i fotografi con modi timidi e pacati a fare il loro lavoro limitatamente ai primi brani (...). Il gruppo presenta tre contrabassisti, Tony Falanga che lavora prevalentemente con l'archetto, Charnett Moffett dal suono scuro e potente e Al Macdowell che imbraccia un basso elettrico dalle sonorità prettamente chitarristiche. Completa l'organico Denardo alla batteria, il figlio di Ornette, che nel corso del tempo è di molto cresciuto diventando perfettamente funzionale al linguaggio musicale del padre. Il repertorio è prevalentemente quello del celebrato album Sound Grammar, con una lacerante, bellissima versione di “Sleep Talking” e una emozionante “Turnaround”. Nel corso della serata vengono ripescate le splendide “Song X”, “Kathelin Gray” e il “Bach Prelude” con un Falanga impeccabile nella parte del concertista classico. Brani per la maggior parte di breve-media durata, con Ornette che passa con disinvoltura dalla tromba al violino. Ma quando imbraccia il sassofono è pura poesia. Le melodie sbilenche, rarefatte e struggenti dipingono un universo musicale originale e personalissimo. Coleman è un caposcuola senza eredi e questo lo rende unico. Peccato che le folle che avevano riempito l'Arena per Jarrett abbiano invece in gran parte disertato il concerto più vero e più bello.

Nel tardo pomeriggio al Teatro Morlacchi il quartetto di Franco D'Andrea ha presentato le composizioni che registrate per un nuovo album targato Blue Note in uscita per l'autunno. Musica d'insieme densa e complessa, con pochissimi assoli e una impronta molto definita. La cifra stilistica del pianista meranese è assolutamente personale, così come le sue composizioni, angolari e sofisticate. Un concerto ben riuscito, ma di non immediata decifrazione. In evidenza il batterista Zeno De Rossi, graffiante e dinamico. Introverso e particolare il linguaggio di Ayassot al sax alto.

Sazio di bellezza passo la mano e rinuncio al concerto di Joe Lovano e Dave Douglas. Addio Perugia, dopo qualche anno di pop star e mainstream consolidato quest'anno si è tornati più cautamente verso il jazz. Innovazioni e contaminazione intelligente abitano però da altre parti...

 

Roberto Dell'Ava


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