Forse mai un “dopoguerra” fece esplodere tanto incredulo senso di pace pari a quello che conseguì alla battaglia di Azio (31 a.C.), dopo decenni di strazianti lotte civili. Ottaviano, da vero vincitore, “perdonò” molti ex nemici, creando così le basi per un solido e rinnovato regime politico e culturale. A Roma, capitale del mondo, confluirono genti e intellettuali da ogni parte. Dall’Umbria arrivò con la madre Properzio, un provincialotto che, pur orfano di padre e impoverito da requisizioni agrarie, ma forse ancora agiato, divenne presto un poeta acclamato, inserito nei circoli più esclusivi, come quello di Mecenate, “ministro” della cultura augustea. Nel fior fiore della società protoimperiale, il poeta diciottenne conobbe una certa Hostia (o Roscia?), una gran bella donna, forse sposata, di certo “libera” e colta, più matura di lui. La cantò come Cynthia, appellativo di Diana: la sua Dea.
Fu un’epoca di strabiliante fioritura letteraria, specie per la poesia, i nomi sono notissimi. Mentre il sommo Virgilio, unico, procedé genialmente a ritroso, partendo dalle Pastorali (alessandrine) e giungendo dopo le Campestri (esiodee) all’epica (omerica) con l’Eneide, i coevi poeti erotici attinsero unicamente dalla “moderna” lirica ellenistica; ma l’elegia latina ebbe, rispetto al canone originale — elegante e galante, erudito e mitologico, — una sodezza tutta italica, un senso della realtà spesso superiore alla poesia dei nostri tempi (si veda qui il riferimento a una legge forse di leva, forse contro il celibato). Properzio è notoriamente difficile sul piano linguistico, ciò che ha ostacolato la sua diffusione e fama; nondimeno è stato amato dai poeti più grandi, fino a un Pound, uno Yeats (si veda la mia resa di A thought from Propertius). Il suo “Tu mihi sola places” sarà una gemma incastonata in Ovidio, in Petrarca, e quant’altri. Poeta ostico da tradurre, ho teso qui a una sua semplificazione; il distico elegiaco è reso con un verso piano di 15 sillabe e uno di tronco di 14, con prevalente ritmo ternario: soluzione perseguibile almeno nelle elegie più brevi come questa.
Sextus Propertius (circa 50 a.C.– dopo il 16 a.C.)
Gavisa es certe sublatam, Cynthia, legem,
Qua quondam edicta flemus uterque diu,
Ni nos divideret; quamvis diducere amantes
Non queat invitos Iuppiter ipse duos.
‘At magnus Caesar.’ Sed magnus Caesar in armis:
Devictae gentes nil in amore valent.
Nam citius paterer caput hoc discedere collo,
Quam possem nuptae perdere amore faces,
Aut ego transirem tua limina clausa maritus
Respiciens udis prodita luminibus.
Ah mea tum qualis caneret tibi tibia somnos,
Tibia funesta tristior illa tuba!
Unde mihi patriis gnatos praebere triumphis?
Nullus de nostro sanguine miles erit.
Quod si vera meae comitarent castra puellae,
Non mihi sat magnus Castoris iret equus.
Hinc etenim tantum meruit mea gloria nomen,
Gloria ad hibernos lata Borysthenidas.
Tu mihi sola places; placeam tibi, Cynthia, solus:
Hic erit et patrio sanguine pluris amor.
Di certo hai goduto ora, Cinzia, alla legge abrogata,
che ci fece, emanata, piangere stretti un dì,
a lungo, temendoci divisi, pure se Giove
separare due amanti controvoglia non può.
Più vorrei che mi fosse il capo staccato dal collo
che non poter passare tra i nuziali falò,
o già sposo, e fedifrago, davanti alla tua soglia
sprangata, rivolgendo gli umidi occhi là…
Rovinerebbe allora quel flauto imeneo i tuoi sonni,
triste più della tromba di funerea pietà.
Chi vuol dunque che doni dei figli ai trionfi di Roma?
Nessun soldato dal sangue mio scaturirà;
ché se combatter dovessi invero per la mia donna,
mai correrebbe assai il cavallo di un Dio per me.
Già tanta gloria infatti si è meritato il mio nome,
fino alle infreddolite genti del Dnepr laggiù.
Tu sola mi piaci, possa piacerti io solo, o Cinzia,
più che dar figli alla patria è il mio amore per te.
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