Per il prossimo 21-11 il Papa Benedetto XVI ha invitato nella Cappella Sistina il “mondo dell’arte” per un dialogo sul rapporto di questa con la fede. Il 10-09 scorso l’appuntamento è stato presentato presso la sala stampa della Santa Sede, e il testo di Mons. Gianfranco Ravasi, approntato per l’occasione, è apparso nell’“Osservatore romano” del giorno. La pagina di Mons. Ravasi, come sempre, è un rigoglioso prato del sapere fiorito di dotte citazioni, che già da sole meritano la lettura dell’articolo. Vi aleggia tuttavia una certa genericità: forse inevitabile per il carattere diplomatico del personaggio, assurto a “ministro della cultura” in Vaticano. Il punto dolente — la crux, cade a puntino di dire — è risaputo: “Si deve […] riconoscere che da tempo l’alleanza tra fede e arte si è infranta”. Il fondamento della questione è nel crollo della trascendenza con l’avvento, dopo il sec. XVII, di una prevalente visione del mondo immanentistica.
Sfiorando l’argomento, mi pare che Mons. Ravasi s’illuda quando afferma che nell’arte del sec. XX, prima dei nostri anni in cui la stessa produce “elaborazioni autoreferenziali e persino […] pure e semplici provocazioni” (nel contesto, aggiungo io, di un mercato floridissimo che le sollecita), ci sia stato un eroico periodo di sperimentazione ne “l’attesa di una nuova epifania di bellezza e di mistero”. Come esempio, cita la musica dodecafonica e i suoi “sorprendenti risultati”, come pure “l’arido taglio della tela operato da Lucio Fontana che si trasformava, però, in uno spiraglio per intravedere l’Assoluto“. E pensare che Oddifreddi vede in Fontana la perfetta rappresentazione del Nulla che non significa Nulla! Lo stesso Berlusconi della matematica, più precisamente, sostiene che tutta l’arte, non solo l’astratta, in quanto semplice “segno”e niente più, esprime il Nulla, e lo esprime anche miseramente in confronto alla regina delle scienze cui pertiene il privilegio del segno “zero”. Ed è vero, infatti Oddifreddi pontifica il Nulla. Chi ha ragione dei due riguardo a Fontana? Entrambi e nessuno, dato che l’astrattismo, avulso com’è da ogni concreto riferimento alla realtà, è uno zero semantico, e in quanto tale può significare sia l’Assoluto sia il Nulla, as you like it.
Mette sospetto, e alquanta tristezza, quando la Chiesa si cimenta nell’agone della modernizzazione, aggrappandosi a ogni indistinta manifestazione artistica, non capendo quindi che un certo tipo d’arte è di per sé opposto e contrario al positivo messaggio (etimologicamente come “evangelo”) che essa proclama da millenni. Perché non tutta l’arte — e, attenti, pure una che sia grandissima e sublime — può definirsi “sacra” o “sacralizzabile”, proprio per la costituzione etica che questa esige. L’arte sacra non è superiore all’arte in genere, ne è semplicemente una categoria finalizzata alla divulgazione biblica e alla liturgia, e in quanto tale dev’essere la più comunicativa possibile, anche e soprattutto per il fedele ingenuo (così la biblia pauperum di un tempo), ed è chiaro che in tale categoria rientra a pieno titolo sia la cappella Sistina sia il santino stile marzapane (unicuique suum è uno dei due motti in epigrafe all’“Osservatore romano”).
In tale prospettiva, un esempio negativo è proprio l’arte astratta, che potrebbe accettarsi in àmbito liturgico solo a livello decorativo; ma io diffido anche di questo per la sua ambiguità. Invece è valida un’arte ecclesiale che sia simbolica, e difatti l’arte paleocristana fu quasi esclusivamente tale. L’astrattismo, ma depurato di ogni deriva soggettiva, è al contrario la sola forma d’arte ammessa dalla religione islamica, assolutamente aniconica. E passando alla musica, come si può concepire quella dodecafonica nella liturgia? Ne sarebbe la totale estraniazione, il suicidio della liturgia.
Uno dei fallimenti più plateali in questo connubio tra fede e arte moderna risiede nella contemporanea architettura ecclesiastica. Non si nega che ci siano stati buoni e anche eccellenti risultati; ma essi sono sporadici ed eccezionali. La maggior parte delle chiese e chiesette partorite da tale imeneo teratogeno è costituita da aborti spaventosi, progettati da architetti che sembrano affiliati all’Associazione Artisti Atei. L’elenco completo di questi edifici-quasimodo — gobbi, sghembi, cervellotici, solipsistici rispetto al contesto civile, in una parola assurdi — sarebbe chilometrico, più di quello delle amanti del don Giovanni mozartiano. E non solo a causa di una presupposta discrasia tra l’architettura moderna e lo specifico religioso, ma proprio come opere prese in sé, bruttissime; di fronte alle quali ci si chiede come sia stato possibile concepirle, e quindi essere accettate dalla committenza; di più, celebrarvi la Messa, magari con sull’altare un crocifisso rigorosamente contorto come uno sgorbio: diffusissima, oggi, blasfemia plastica. (Opino che l’intuizione dello scultore sia stata questa: “per esprimere la Passione di Cristo devo fare un’opera che susciti sofferenza fisica in chi la guarda… Ci penso io!”) Gl’interni di queste parodie di chiese, poi, sono dei frigoriferi dell’anima, anche più di un tempio luterano o calvinista. (E infatti nel Nord Europa, per un malinteso ecumenismo, molte chiese sono adibite a culti plurimi.)
È incontrovertibile che non c’è nulla che invecchi tanto presto, penosamente e ridicolosamente, quanto l’arte moderna; ed è ovvio, dato che essa è l’espressione intima dell’immanenza. Ogni chiesa “d’artista” tende a diversificarsi il più possibile dalle altre, in una spasmodica ricerca di originalità, non ricostruendo quindi una tradizione, ma continuamente disgregandola, e disgregando così la comunità cristiana nel suo aspetto sia ecumenico sia cronologico. E quanto più l’architetto è famoso, un archistar, tanto più il crimine cementizio risulta imperdonabile. Mille volte meglio la chiesetta squadrata e impersonale progettata da un anonimo geometra. Corollario: l’architettura sacra contemporanea rappresenta icasticamente il grado di alienazione culturale del clero.
Mi soffermo su un articolo di Vittorio Sgarbi (“Oggi” del 20-5-09) che punta il dito contro la chiesa di S. Giacomo a Foligno, progettata da Massimiliano Fuksas; la fotografia di corredo presenta un cubo cementizio con aperture geometricamente irregolari (“come quei giochi in cui si mettono le formelle dentro i fori”), con accanto un torsolo di cemento che, penso, aspira ad essere un campanile. Di fronte a questa iattura espressionistica verrebbe da ridere, se non ci fosse in realtà da piangere. Ma gli esempi, ripeto, sarebbero infiniti, mettendo in conto pure quella specie di giocoso edificio aeroportuale — e con tale destinazione d’uso andrebbe benissimo — firmato da Renzo Piano per il nuovo santuario di San Pio da Pietrelcina, il quale per fortuna chiuse gli occhi a tempo per non vederlo. Osseva giustamente Sgarbi: “Non si poteva pretendere che Fuksas, spontaneamente, potesse tradurre in spazio un sentimento religioso cristiano. Gli si potevano dare però delle istruzioni: il maggior dramma dell’architettura contemporanea è la passività delle committenze, incapaci, in nome di un equivocato rispetto per la libertà creativa, di chiedere, pretendere”. La medesima “libertà” per cui un sedicente artista prende una bottiglia, la colloca su una base e la dichiara opera d’arte. E se l’artefice definisse tale contenitore una Madonna? Un certo clero (quello più “evoluto”), statene certi, lo piazzerebbe sull’altare: veramente un vas electionis! Eppure un tempo il clero, quando era ben cosciente del proprio ruolo intellettuale, contestava legittimamente anche un quadro del Caravaggio! Ma non dispero, credo nella nemesi della Storia che tutto ricicla, specie le bottiglie.
Caro Mons. Ravasi, lei cita sapientemente un detto di san Giovanni Damasceno: “Se un pagano viene e ti dice: ‘mostrami la tua fede!’ tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri”. Ebbene, come può oggi un cristiano affrontare il martirio in nome della fede, quando sia essa rappresentata da simili obbrobri? Ma forse già sopportarli è una prova di fede che arriva al martirio.