“Merda! Non è possibile”. Argentino e tanto.
Atmosfera prensile rovinata. Sara sgranò gli occhi di cioccolato, sBavati (trucco a grumi), e cercò un referente per la Rabbia. “Buongiorno. Carina l’idea di svegliare le persone con un Notturno di Chopin… E poi saremmo noi, le dissociate”: sentenza acida di Jenny, ipnotizzata: la testa fumante del mozzicone che moriva lentamente fra indice e medio. Sara si nascose sotto le coperte, mentre Jenny la spronava ad alzarSì!
“No, non mi alzo, sciopero! Voglio stare a letto, voglio un krapfen molto, molto unto, untissimo (!), un hamburger con la pancetta, un panino maionese e salame, una coppa di tiramisù, risotto ai quattro formaggi, una valanga di panna. Montata e crostata di frutta, fritto misto di pesce, una teglia di crema catalana, tanto, tanto caffè e tutto, tutto in quest’ordine” tuonò Sara, facendo capolino dal lenzuolo. Jenny sorrise e le consigliò: “Aggiungere all’elenco:
un vagone di Maalox e un free-pass per il pronto soccorso”.
Si conoscevano da anni. Affini. Diverse lo sguardo: cornici di occhiaie per occhi irrequieti, allarmati, assoluti. Attendevano l’arrivo di una nuova e Jenny non l’avrebbe mai lasciata in balia dei macellai: allevamento e cura, con destinazione mattatoio. Giovane Giovenca, Jenny si sentiva una mucca: nutrita, munta, montata e smontata nell’allevamento della vita, nel tritacarne dell’esistenza.
Tra un mugolio e l’altro, Sara si vestì, cercando di dare un senso al gomitolo sfatto di nodi mogano sulla testa riccia, brandendo le dita come tentacoli: “Tre mesi ed è fuori, scommetti?” biascicò. “Quante ne hanno dimesse da quando siamo qui?”
Silenzio. Lungo e obliquo.
“Troppe, ma meglio qui che a casa” decretò Jenny, accendendosi una sigaretta. Un’altra. La porta si aprì su novanta chili di infermiera per un metro e cinquanta: la classica figura che è più rapido scavalcare, anziché girarle intorno. Lo gnomo obeso salutò con eccessiva dolcezza le due recluse, guardò loro i polsi, controllò i bracciali di plastica che le ghettizzavano e raccomandò: “Oggi ne arriva un’altra, lo sapete, vero? Aiutatela, che – Lei – vuole guarire.”
L’accento marcato spalmato su quel Lei urtò profondamente i nervi insonni di Jenny che, in un solo colpo di diaframma, enumerò i suoi dubbi sulla ferrea volontà di guarigione della futura prigioniera e l’assurdità di qualsivoglia premura da parte di un ammasso adiposo di cellulite (evidentemente complessato):
“Cantami, o Diva rotonda, della magra pentita che suscita invidia tua invereconda. Vecchio
saggio cinese dice: Tu aspetta su Liva fiume vedeLe cadaveLe tuo nemico scoLLeLe, ma che nemico non sia infeLmieLa obesa, se no lei cLeaLe diga.”
Per tutta risposta ottenne un: “È la malattia del secolo” e una porta sbattuta in faccia. Una risata tra il cinico e l’isterico diede il via ad una compiaciuta:
“La verità ti fa male lo so… Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu… La verità ti fa male lo so”, intonata da Jenny in un girotondo di parodia e somma ilarità.
La disperazione è totale quando sfocia nel sarcasmo e nell’ironia, amara: “Sara, voglio parlare con la direzione! La plastica bianca non è per nulla chic.
Preferirei un cinturino di pelle nera, con piccoli strass e qualche borchia, per controllare le dimensioni delle mie ossa: è risaputo che il grasso si accumula nei polsi.
No? N’est-ce pas? Proporrei anche l’introduzione di un “bracciale da coscia” e un “collare da gluteo”, almeno avremmo un’intera parure. Inoltre, esigo, e-si-go che mi sia restituita la mia resistenza elettrica: si può resistere senza resistenza? Capisco, anzi, cerco di capire tutto, ma dopo un ingolfamento forzato da tacchino natalizio, avrò diritto a dell’acqua bollente?
Non è anticostituzionale privare gli esseri umani dell’acqua? È un diritto civile. Sbaglio? Forse è un lusso eccessivo riscaldare l’acqua prima di berla, ma mi sia concesso. Perfino ai carcerati somministrano pane e acqua: io non voglio nemmeno il pane! Giuro solennemente di non nascondere, nella mia tazza d’acqua, bollente e bollita, diuretici, lassativi o altri purganti utili ad una fuga premeditata di liquidi e sostanze nutritive. Parola d’onore!” sogghignò Jenny, con aria mistica, accesa d’orgoglio. Accese una sigaretta. Un’altra.
La porta si riaprì e una lentigginosa creatura esordì con un timido: “Ciao.”
Un uomo, forse un autista/maggiordomo/becchino, depositò nella stanza due valigie e si congedò.
L’embrione di donna si presentò come Titta, diminutivo di Vittoria, e Jenny non poté frenare il
commento, tanto scontato quanto azzeccato: “Chi è qui, di solito, è sconfitta.”
Sguardi interrogativi e diffidenti segnarono l’incontro.
Titta sapeva di essere nel posto sbagliato, in una sorta di Erebo medico e mediatico sui generis da sola esposizione televisiva. Poche sillabe dopo, si trovò due ghiacci Occhi conficcati nel punto dolente del suo crescere: “Sei ipertiroidea. Chiama i tuoi e fatti portare in montagna. 10 a 1 che hai dei genitori etero ipocondriaci: ti curano per malattie che non hai. Basta un trafiletto su qualche rivista per casalinghe frigide che ti fasciano la testa. Rassicurali, di’ loro che sono i migliori al mondo e non prestarti al gioco al massacro di paranoie da frustrati” vomitò Jenny, seria e triste. Statua di sale.
Gnomo Obeso si riaffacciò nella stanza: Jenny e Sara dovevano recarsi al controllo “Vacche all’ingrasso”.
Un cenno del capo nel codice dei condannati e s’incamminarono: nervose e stremate, verso il loro patibolo quotidiano. Jenny, quand’era a casa, passava più tempo a pesarsi che a vivere: aveva calcolato che un bicchiere d’acqua impiegava ventisette minuti ad essere assimilato, con conseguente aumento di sedici grammi della sua massa corporea. Sara non possedeva bilance né specchi (in perenne Quaresima estetica, aveva appeso drappi viola per coprire qualsivoglia superficie riflettente) ed era una campionessa nel truccarsi a stima, ma con precisione millimetrica, sull’autobus, mentre adocchiava le nuove di cronaca: quotidiano impugnato nella sinistra, eye-liner ripassato con la destra.
Le due attraversarono, senza pentirsi dei propri crimini, il corridoio muto e minaccioso del penitenziario: braccio della morte. Miglio verde bile. Scesero lo scalone: modelle pronte alla sfilata, bestie pronte alla parata. Niente camici bianchi, niente pazienti in attesa, di guarire o morire, smettere di soffrire o iniziare a schiattare. Solo un foglio, ceruleo stinto, di block notes, sputato sulla porta dello studio: Jenny lo staccò e lo lesse ad alta voce: verificare ciò che la miope vista decifra e la mente rapace metabolizza.
Sara ascoltò con l’attenzione e il sospetto del miglior detective. Risero, tra l’incredulo e il compiaciuto: un imprevisto, un frammento di pazzia nel cimitero di norme disinfettate. Nel mausoleo di alieni nascosti alla società, un semplice ritaglio di carta è la chiave della sommossa, la lima nella torta di una normativa contorta. Uno sparo. Ai posti. Pronte. Uno, due e nel domopack forzato della simpatia, il falso motto “grasso ma felice”. Preferibile la nevrosi – vagamente strati di budini carnosi), a quelle pose verbali: sposa della posata.
tre – via: buonumore! Jenny e Sara corsero, per la fretta, per la gioia, per bruciare calorie, nello scatto a ritroso verso la cella d’isolamento in cui erano isolate, isolane da mesi… Entrarono nella loro stanza, in un trionfo di grazia e leggerezza: porsero il trofeo cartaceo all’infermiera che, nel frattempo, si descriveva sorella maggiore, l’umile ma fiera serva di un Istituto. Più che una sorella “maggiore” si sarebbe definita “maggiorata”: lardose forme, esaltate ed esorcizzate da Rubens. Matrona Dispotica strizzava, assassina – di una dieta fallimentare (soffocata da NON TUTTE LE PICCOLE DONNE CRESCONO, MA LA MAGGIOR PARTE INGRASSA DI SICURO).
Sara, novella Antonio che brandiva non il testamento di Cesare, ma un testo ostico all’ambiente, tagliò l’aria spessa del reciproco disprezzo, col coltello delle parole: quel giorno virava in un buon giorno.
Comunicazione urgente! Da oggi è abolito l’odioso e controproducente rituale del cosiddetto controllo peso.
Siete liberi di impiegare in maniera proficua il vostro tempo, prima dedicato al fastidioso supplizio sopra citato. La rivoluzione è iniziata: prego i colleghi tutti di appoggiare caldamente questo mio moto libertario. In caso contrario, sappiate che la Bi-lancia è stata rapita e se qualcuno ripristinerà un simile strumento di tortura, sarò costretto ad eliminare l’ostaggio, bullone dopo bullone! Dottor D.
Non era ammissibile! La curiosa protesta di un Superiore pulsava nella grossa vena della grassa Infermiera che ondeggiò, bolla di sapone narcotizzata, verso l’uscita, e scomparve nel labirinto ovattato:
Inferno arredato a Paradiso. Le ossa segnate da bicipiti sconnessi di Jenny si buttarono sul pavimento, piegandosi e rialzandosi, per sostenere il fisico, il mondo, la perfezione di una disciplina imperfetta. La concentrazione rabbiosa e soddisfatta di quelle flessioni intimava rispetto e taceva le troppe domande di Vittoria, composta ed inchiodata alla finestra: non era in manicomio, ma la normalità non sfiorava il casermone. Non era in carcere, ma respirava la correa rassegnazione di detenuti fiaccati dalla reclusione e – nella gigantesca Bara Bianca – respirava una vitalità impensabile, che quasi invidiava.
“Niente foto e dieci euro per lo spettacolo” digrignò Jenny (paralisi!) con le braccia tese sulle nocche rovinate, prima di balzare in piedi con scatto felino e stridore reumatico.
Sara non uscì dalla trincea di mutismo, ma incrociò la sua sagoma sul letto, in posizione (personale bestemmia dello yoga codificato) e pregustava il sapore di discorsi pregni che, tra qualche secondo, l’avrebbero sfamata: orgia di parole, cibo prelibato, calorie zero.
“Ora assisterai ad una dimostrazione di lettura rapida del pensiero” proclamò Jenny. “Tu sai perfettamente che questo non è il tuo posto. È il nostro.
Non ci piace, ma l’abbiamo scelto. Tu no. Ti trovi in una realtà che non ti appartiene e non conosci. Te l’hanno smaltata addosso e non la capisci. Vorresti afferrarla? Eh no, bellina. Prima che il tuo ricordo la memorizzi come un incubo. Vorresti sapere chi siamo, perché siamo qui, come riempiamo le ore che ci separano dall’Estrema Unzione? Se ce ne sono altre/altri come noi e che morbo ci affligge per non stordirci in discoteca, qui nello Scatolone Dimenticato, nel Ripostiglio.
Giusto? Niente di paranormale, ma intuito animale e secolare abitudine al questionario standard:
Perché vi siete ridotte così? Siete giovanibelleintelligenti, e contuttalavitadavivere. Allora, perché?
Perché? L’odioso punto interrogativo: l’infido mamba dell’ortografia. Il terribile uncino mentale, brandito con uso improprio. Perché? Perché: pernacchia di concetto ricercata, falsificata, banalizzata, inseguita da tutti, a vita còndita/condìta. Filosofi poeti tubisti animatori… Ognuno si chiede: ‘Perché vivo?’. Le risposte sono soggettive, originali o precotte, esaltate o accomodate, cucite o contraffatte. Il nostro Perché è altro: non è un Perché sezionato dalla letteratura né confortato dalla religione.
Il nostro Perché è salice pian-gente che si radica nell’angoscia, è uno splendido innesto, sulla cruda sempreverde logica. È un Perché secco d’illusioni.
Perché siamo qui? Perché siamo così? Perché ci stiamo buttando via? Perché siamo arrabbiate scontrose stanche ombrose scettiche nervose apatiche? Perché? Perché stiamo cercando disperatamente la risposta a bauli di altri perché, chiusi nello sgabuzzino della nostra testa. Perciò – bastaPerché.
Troppo ardito il mio sparlare? La vita non ha mai abbassato il livello delle difficoltà, per rifulgere chiara e universalmente comprensibile. Trovo coerente parlare ad armi pari della vita che mi sfida. Non sono un docente/guru e non ti farò esempi elementari; né l’elenco delle mie ossessioni, delle mie manie. Dopo i quattro anni d’età si ha, se non l’intelligenza, la capacità di osservazione per capire ignorare evitare.
Prevenire. Fissami e scrutami pure, come se fossi un topo da laboratorio; impara: non diventare mai così! Esci, goditi l’incoscienza della tua ignoranza; affronta il tuo futuro. E non sognare!”
Chiara Daino www.chiaradaino.it
(continua)
***
Vorrei che attorno a me ci fossero degli uomini piuttosto grassi, e con la testa ben pettinata, e tali, insomma, che dormano la notte.
Quel Cassio laggiù ha un aspetto troppo magro ed affamato: pensa troppo ed uomini del genere sono pericolosi
(William Shakespeare, Giulio Cesare, Atto I, Scena II)
Voi sapete che cos’è la merca?
È un marchio.
VITA A VIVERCI
LIBRO A LEGGERCI
INDICE
Dove sono?
Non tutte le piccole donne crescono
Sognare non è pedalare: se smetti, non rimonti
§
Silenzio
Fuori dal coro e dai denti
Chi sono!
N’est-ce Pas? Ti esclusi (100.000 copie vendute)
Il mondo è piccolo. E il karma sdoganato
Il troppo stroppia la mente poca
Donna indifesa sempre in difesa
§
§
§
§
Occhi da firmamento, corpi da testamento
Buio
Dove vanno
§
§
Una generazione che ha tutto il superfluo (tranne il necessario)
Non basta un pulpito a creare una messa, ma basta una cassa a stordire la massa
§
***
Scomparsa a lunga scadenza
Note