Ero piccolo. Almeno per come vanno le cose oggi, in questi tempi, in questo mondo, mi consideravo e lo ero. Piccolo.
Non ricordo con esattezza quanti anni potessi avere. Dodici, forse, magari tredici.
Era il giorno del mio compleanno. Ero ancora piccolo, allora, piccolo come quando si aspetta il proprio compleanno spuntando crocette di fantasia su date e caselle di calendari immaginari. Piccolo come quando il compleanno è il giorno più bello. Quello più atteso, insieme al Natale. Perché compleanno aveva un solo sinonimo: regali.
Era il 9 aprile di quell’anno che non ricordo che anno fosse.
Dai mille pacchetti colorati, arruffati di nastri sbrilluccicosi, sbucò un esercito di pupazzi, guerrieri, mostri, eroi. Ogni giorno li vedevi in televisione, quando ti chiedevi che animale potesse mai essere quel “pupazzo Uan”, e Paolo Bonolis a malapena si radeva. Ed ora erano tutti lì, in plastica e ossa. Ma soprattutto, erano miei.
Qualche libro si affacciava timorosamente qua e là. Qualcuno aveva capito qualcosa di me; eroi e mostri finivano ingloriosamente sepolti nella polvere dei cassetti dopo poche battaglie. Rare sconfitte, qualche vittoria, poi un silenzioso Requiem verso l’aldilà degli eroi. Polvere siamo, polvere torneremo, diceva quello. I libri, invece, no, quelli restavano. Tuttora restano. Degli eroi e della polvere, invece, solo qualche ricordo, e vago.
Quel 9 aprile, quello di quell’anno che non ricordo, ricevetti anche un dono inaspettato. Inusuale. Da una cugina poco più grande di me, mi pare. Avvolta in una sorta di bandiera (che fosse una bandiera me ne resi conto in seguito, sulle prime mi innervosii perché non riuscivo a strappare l’involucro che nascondeva l’anelato regalo…), c’era una cassetta. Una cassetta musicale. Roba da preistoria. Saranno passati quindici anni e faccio già parte della preistoria.
“Dangerous”. Un paio di occhi su una struttura di animali in via d’estinzione. Scimmie, struzzi, tigri, pavoni. Ero piccolo e l’inglese non sapevo nemmeno cosa fosse. “Dangerous”, pericoloso. “Michael Jackson”. Visto in tv, pure lui, sentito in tv, qualche volta. Mi aveva spaventato quella canzone, come si chiamava, Thriller, tra zombie e uomini lupo non mi aveva fatto dormire qualche notte.
Michael Jackson diventò quasi immediatamente un dio, per me.
Ballava, cantava, era bello, buono, amava gli animali, i bambini. Era nero ma era bianco. Era uomo ma era pure donna. Era americano, certo, ma un po’ anche africano, quindi, ero piccolo, s’intende, era anche un po’ italiano, di sicuro. Era bad, eppure così good. Appariva come un messia in divisa e occhiali a specchio e dagli schermi parlava di pace e speranza. La sua voce tremava. Fragile, come la pace. Fragile come la speranza.
Ai suoi concerti le ragazze svenivano, e io non capivo perché. I ragazzi lo imitavano, e io non capivo perché. Ero piccolo.
“Fai Michael Jackson”, e partiva la tipica mossa. Mano strizzata sull’innocente patta dei pantaloni. L’altra col dito puntato verso il cielo. Movimento scattoso del bacino e voce stridula di bambino: “Auuu!”.
Poi succede che i compleanni non si aspettano più. Ancora non si temono. Ma il tremolio della pancia no, quello non c’è più da un po’. Succede che pian piano non sei più piccolo. Che impari le canzoni perché sai l’inglese, e le scarichi su Emule. Le cassette? Come se non fossero mai esistite. Succede che passi venti ore al giorno davanti a un piccolo schermo e una tastiera, quel piccolo schermo in cui succedono tutte le cose del mondo, in cui leggi, scrivi, ami, dici, ascolti.
Ascolti che Michael Jackson è morto. Morto, come un eroe in un cassetto, sepolto nella polvere, forse di stelle, magari di terra e fango, terrestre come una medicina, bianco eppure nero, uomo eppure donna, vecchio sempre bambino, ricchissimo sommerso dai debiti. Morto, eppure vivo, nei ricordi di un bimbo che con curiosità premeva “play” sul “mangianastri”, e si emozionava per il suo compleanno, puntando un dito nel cielo e gridando: “Auuu!”.
La bandiera di “Dangerous”, quella bandiera, oggi è alla finestra di casa mia. Tira vento e forse pioverà, oggi. Gli occhi di Michael Jackson non sono chiusi, lì.
Gianni Somigli
Con questo 'piccolo capolavoro', Gianni Somigli, da Firenze, inizia la sua collaborazione a Tellusfolio. Potrete trovare la sua firma, d'ora in poi, nelle diverse rubriche e sezioni in cui si articola il giornale, accanto a quelle che già abbiamo imparato a riconoscere. Molto lieto di dargli il benvenuto! (e.s.)