Pietro Ichino
A che cosa serve il sindacato?
Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino
Mondadori, 2005, pagg. 294, € 17,50
È indiscutibilmente un esperto di economia, non è tacciabile di pregiudizio antigovernativo. Enrico Cisnetto gode di meritata e riconosciuta fama. Dice che l’Italia sconta un ritardo significativo nei confronti della media europea e anche i paesi che per un po’ sono apparsi nella nostra situazione, come Francia e Germania, «oggi vanno meglio, dimostrando una solidità strutturale che invece all’Italia manca. I nostri problemi, infatti, non erano solo congiunturali ma strutturali, e così adesso che in tutto il mondo va prefigurandosi una ripresa, noi rischiamo di restare fermi».
Tra i problemi che si sono lasciati incancrenire, dice, il non aver voluto riconoscere «che era il modello industriale del paese ad essere ormai in declino; abbiamo preferito fingere di avere solo problemi congiunturali, rifiutando quelle misure drastiche che sole avrebbero consentito di invertire la tendenza. Questo è stato anche l’atteggiamento del governo di centro-sinistra dal 1996 al 2001 e, quel che è peggio, è ciò che si riconosce anche nei nuovi programmi elettorali dei due schieramenti che, sinceramente, non mi sembrano all’altezza dei problemi del paese».
Cisnetto dice che bisognerebbe decidersi ad affrontare finalmente i nodi strutturali irrisolti. «Bisognerebbe», riassume, «cambiare il modello di sviluppo basato sulla piccola impresa e sui manufatti a basso costo, cambiare gli assetti proprietari del capitalismo nostrano, basato più sulle opportunità che sui diritti». Altro che le berlusconiane smargiassate cui tocca assistere ormai a cadenza quotidiana. Questi sono argomenti “veri”, è il grattar di Socrate in quel punto del polpaccio dove la pressura della catena aveva lasciato il segno.
Potrà forse essere che anche Cisnetto sia iscritto, magari d’ufficio, nel club dei radicali liberali “liberisti selvaggi” come dicevano fino a ieri quanti invece che opporre argomenti agli argomenti, scagliavano anatemi (ora sembra che abbiano smesso, che sia un bene non ci si azzarda a dirlo). E allora, a mo’ di salvacondotto, portiamo con noi un libro che merita d’essere segnalato e letto (e sarà per questo che lo è stato pochissimo, e letto, si ha ragione di credere, ancora meno?). Il libro è quello del professor Pietro Ichino, giuslavorista che insegna alla Statale di Milano, collabora al Corriere della Sera, è stato parlamentare dei DS: A che cosa serve il sindacato? (Mondadori), e già dal titolo si comprende che Ichino batte là dove il dente più duole; e infatti si occupa delle «follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino».
Il sindacato, dice in sostanza Ichino può servire a difendere i lavoratori regolari dalla concorrenza di quelli che cercano di entrare nel mondo del lavoro; può servire a difendere con le unghie e con i denti strutture vecchie e improduttive. Potrebbe e dovrebbe servire come strumento indispensabile «per la scommessa comune tra lavoratori, investitori e il management sul futuro di un’azienda».
Ichino si occupa diffusamente di un “caso” che si può considerare paradigmatico: il naufragio dell’Alfa di Arese. Una vicenda in cui appare in tutta la sua evidenza l’inutilità, anzi il ruolo dannoso, del vecchio modo del sindacato di affrontare le crisi industriali. Cinque anni di agonia, senza che la questione occupazionale venga minimamente risolta a fronte di un grande investimento di risorse ed energie. In parallelo l’esperienza, positiva, dell’insediamento europeo della Nissan: che era interessata a subentrare ad Arese, ma alla fine preferisce Sunderland, in Gran Bretagna. Ichino ha ben cura di spiegare che le responsabilità non devono essere addossate tutte al sindacato: «È l’intero sistema italiano delle relazioni industriali che in questa vicenda si è dimostrato totalmente inadeguato. Un po’ per ragioni istituzionali, un po’ per ragioni culturali, da noi non era neppure possibile aprire un negoziato sulla base delle proposte della Nissan».
Nissan, dice Ichino, puntava su un modello di organizzazione del lavoro e su una struttura delle retribuzioni semplicemente incompatibile con il modello previsto dal contratto collettivo nazionale italiano. In Gran Bretagna, invece, il sindacato ha accettato di negoziare la scommessa. «I risultati sono sotto gli occhi di tutti: hanno dato vita allo stabilimento più produttivo del mondo nel campo dell’automobile. E i lavoratori della Nissan guadagnano il doppio dei metalmeccanici italiani».
Per modernizzare il sistema delle relazioni industriali Ichino propone che il contratto collettivo nazionale si applichi solo se non è stato pattuito qualche cosa di diverso a livello regionale o aziendale, e che a questo livello inferiore una coalizione sindacale maggioritaria possa negoziare un modello di rapporto anche profondamente diverso da quello previsto dal contratto nazionale. Diverso, come insegna il caso Nissan di Sunderland, non significa peggiore; ma questo oggi in Italia non si può fare; e questo è uno dei motivi per cui non si intercettano gli investimenti nel mercato globale degli capitali. Per sanare le vecchie piaghe nazionali «occorrerebbe investire maggiori risorse, soprattutto in ricerca, formazione e infrastrutture mancanti, ed eliminare gli sprechi e le posizioni di rendita. In attesa che le nostre piaghe possano essere sanate, per compensare gli effetti negativi sono necessari, per lo più, maggiore rischio e maggior lavoro, in cambio di un corrispettivo non immediato…».
Benvenuto, professor Ichino, nel nostro club di radicali liberali “liberisti selvaggi”.
Gualtiero Vecellio
(da Notizie radicali, 27 marzo 2006)